Il fascino della guerra
Dall'Iliade a Full Metal Jacket: perché siamo così ossessionati dalle storie di guerra?
Non sappiamo esattamente quanto sia antica la letteratura, se per letteratura intendiamo la creazione di storie in generale, anche in forma orale. La si intravvede all’orizzonte dell’alfabetizzazione, che persino nelle culture più precoci si è verificata solo due o tremila anni fa. Ovunque, le testimonianze ci dicono che le storie, i canti e i miti iniziarono come forme di glorificazione dell’ethos guerriero maschile. Esiste, senza dubbio, una spiegazione evolutiva dovuta al fatto che si tratta di società di guerrieri e cacciatori, in cui gli scambi fra tribù consistevano, secondo le fonti antiche, nel saccheggio - nella migliore delle ipotesi. Questo risulta evidente nei meccanismi istintivi che portano i mammiferi maschi a competere per la supremazia. Il territorialismo sembra un comportamento naturale sia per gli animali che per gli uomini. Specialmente per questi ultimi, dato che permane nei bambini, negli adolescenti e nei giovani adulti, manifestandosi nelle città affollate come strategie violente di affiliazione. Lo troviamo nell’Iliade e nell’Odissea; nell’apoteosi del guerriero Arjuna della Bhagavadgita; in Beowulf e nei canti dei Nibelunghi; nei salmi di Davide, intrisi di arroganza tribale e di violenza, e persino nel Libro dei re. È presente negli innumerevoli racconti cinesi e giapponesi di nobili guerrieri e servitori disposti a ogni sacrificio, e trova un naturale riassunto semi-ironico nei versi di Orazio: «Dulce et decorum est pro patria mori». È presente, infine, nella letteratura coreana, che esprime l’ideale di lealtà indiscussa all’autorità politica attraverso la classica forma del Sijo di Chong Mong-ju.
La guerra stessa finisce per essere una sorta di metafora della natura, che ci priva della nostra giovinezza, della nostra forza e della nostra bellezza
Certo, è stato sottolineato che i poemi di Omero ritraggono la tragicità della guerra. È vero: l’assassinio di Ettore, il dolore di Priamo, la distruzione di Troia, la morte di Patroclo e Achille, tutto ciò è rimasto profondamente impresso nell’immaginario universale. Per non parlare delle peregrinazioni e delle sofferenze di Ulisse. Sebbene nessuno sappia con certezza come Virgilio intendesse concludere l’Eneide, c’è chi ha sostenuto che l’immagine finale in cui Enea esita, per poi affondare la spada nelle viscere del suo rivale e nemico Turno, sia un emblema della violenza della guerra come peccato originale, un simbolo della fondazione del potere romano – e per estensione di tutto il potere terreno – in quanto atto di brutale usurpazione. Di Beowulf si è osservato quanto sia profondamente elegiaco, come del resto tutti i poemi orali delle antiche lingue germaniche. In relazione a tutte queste opere, si è notato che la guerra stessa finisce per essere una sorta di metafora della natura, che ci priva della nostra giovinezza, della nostra forza e della nostra bellezza. Per cui il fascino peculiare della guerra sta nel portarci via tutte queste cose, quando ancora le abbiamo. Mi sembra sia proprio questo il motivo per cui, per quanto tragica la sua evocazione nella più grande letteratura antica, la guerra appare immensamente attraente. Perciò gli esseri umani hanno sempre fatto la scelta di Achille: preferire il leone morto all’agnello vivo.
Dopo secoli di rappresentazioni drammatiche della guerra ci si aspetterebbe di vedere gli umani esitare, prima di compiere azioni violente, ma forse il significato profondo di queste disgrazie colpisce più intensamente alcune menti e alcuni cuori rispetto ad altri. Può anche darsi che non sia esattamente la guerra a rendere questi racconti così affascinanti e memorabili. Tuttavia, se pensiamo ad esempio al cinema, tutti sanno che è praticamente impossibile fare un film contro la guerra, in cui questa non risulti in qualche modo seducente. E non sono solo i popolarissimi fantasy a celebrare la crudeltà, l’omicidio e la vendetta, di solito scatenate contro un male senza volto (ma razzialmente ben codificato). Basti pensare ai film di Sylvester Stallone, o alla brutalità un po’ fantascientifica, un po’ comica dei protagonisti nei film di Jackie Chan, tutti principianti ma incredibilmente in gamba, o ancora alla violenza omicida elevata a grazia soprannaturale nei film di samurai e nei thriller di Hong Kong. Il pubblico mondiale paga miliardi di dollari l’anno per vedere e rivedere questi film. Sembrerebbe sia questa la più alta aspirazione dell’umanità. In realtà, nemmeno i film con intenti morali più elevati riescono a creare un’immagine meno affascinante della violenza. In Jarhead, lo scrittore americano Anthony Swofford descrive la sua esperienza in un plotone di cecchini della marina durante la prima guerra in Iraq. Tra i vari aneddoti, descrive il loro tempo libero: insieme hanno guardato tutti i film girati in risposta alla guerra del Vietnam, come Platoon e Full Metal Jacket. Swofford dichiara che li hanno guardati per alimentare una sorta di sete guerriera, un’euforia che era la base per il loro addestramento. Gli eroi di quei film giungono sul finale a una comprensione solitaria dell’orrore che li circonda. Eppure, sono storie molto coinvolgenti in quanto mostrano che è necessario affrontare quelle atrocità per poter finalmente capire. Infatti, le reclute di Swofford nel deserto e tutti gli altri giovani hanno compreso che sentirsi moralmente orfani, completamente soli nell’universo non è che un dono della guerra. Se questo è il risultato dei film più critici, è bene chiedersi quanto profondamente la miseria, la crudeltà e la devastazione della guerra possano penetrare nella coscienza umana.
Quello in cui viviamo è l’unico mondo che abbiamo mai avuto ed è estremamente violento
La verità è che non abbiamo modo per verificare se la letteratura, la filosofia, o addirittura la religione abbiano avuto alcun effetto attenuante sull’aggressività dell’uomo. Quello in cui viviamo è l’unico mondo che abbiamo mai avuto ed è estremamente violento. A renderlo ancora più brutale sono stati i progressi enormi della tecnologia negli ultimi cento anni e la maggiore capacità degli stati-nazione di mobilitare vaste popolazioni a fini bellicosi. Sappiamo che l’umanità ama le rappresentazioni di forza bruta, in particolare quando quest’ultima è unita a un’intelligenza straordinaria e alla nobiltà d’animo. L’umanità, inoltre, adora le storie di vendetta, anche se ci fa ben sperare il fatto che, per un qualche scrupolo della nostra natura, vogliamo vendetta solo contro coloro che hanno fatto del male a deboli e innocenti. Allora costruiamo complotti, proprio come le nazioni costruiscono giustificazioni ideologiche per la guerra, per consentire una gratificazione etica al desiderio di violenza. Davvero un’immaginazione più vivida e più potente riuscirebbe a rendere il mondo migliore di quello che è stato? Davvero questo mondo è migliore di come sarebbe se i canti e le storie che ritraggono la violenza non fossero mai esistiti? Se non ci avessero messo di fronte alla nostra stessa crudeltà, costringendoci, anche solo alcuni di noi, a esitare? Purtroppo non abbiamo un gruppo di controllo per questo esperimento. Non possiamo saperlo.
E tuttavia sappiamo che forse è meglio parlare che non parlare. È stato uno dei grandi maestri del ventesimo secolo ad insegnarcelo, Czeslaw Milosz. A questo proposito, mi vengono in mente questi versi, dalla sua poesia Lo spirito delle leggi. Sono stati scritti a Washington, DC, nel 1947, dove si trovò in seguito alla distruzione di Varsavia:
Dal pianto di bimbi sul pavimento di stazioni extratemporali,
Dalla tristezza del macchinista di treni di prigionieri…
[mi sono risvegliato] Con il ricordo taciuto di amici morti,
Con il ricordo taciuto di città e fiumi,
Ero pronto a squarciare il cuore della terra
Per collocarvi un diamante incandescente di grida e lamenti,
Ero pronto a spalmare di sangue la punta delle radici
Per evocare i nomi sulle foglie
E coprire con la pelle della notte la malachite dei monumenti
E scrivere col fosforo Mane
Thecel Phares
Rilucendo con la striscia delle mie palpebre arse.
(Poesie 1983, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi)
È dunque meglio parlare che rimanere in silenzio, anche se il nostro discorso è resistenza violenta alla violenza.
Noterete che ho cominciato a parlare della letteratura come resistenza, non come un fiorire di arti, non come impulso irresistibile della forza vitale, ma come un freno a quella forza. Lo scorso fine settimana ho incontrato mia figlia e la sua famiglia a Chicago. Pensavamo di passare la giornata lì, e di portare i miei nipoti all’Art Institute. Sono rimasto un po’ sorpreso che fossero felici, anzi desiderosi, di andare in un museo. Poi ho scoperto che i bambini, di otto e dieci anni, non vedevano l’ora di vedere la vasta collezione di armature e armi del museo.
Me lo dico da solo, ma entrambi i miei nipoti hanno un’età in cui sembrano dei putti di Botticelli. Ho guardato per un momento i loro occhi scintillanti, le loro guance rosee e i loro riccioli biondi, e mi sono avviato alla ricerca delle armature. Per caso, ci siamo ritrovati ad attraversare le gallerie d’arte asiatica, dove ci siamo scontrati con un bellissimo Buddha cambogiano dell’VIII secolo di un morbido granito grigio-marrone. Era seduto su un piedistallo, con le gambe piegate, le palpebre chiuse, l’indice e il pollice di ciascuna mano uniti, come per racchiudere un circuito di energia controllata e straordinariamente pacifica che la figura esprimeva perfettamente. La roccia brillava sotto una luce posizionata ad arte. Ho detto ai miei nipoti: «Sentite, se vogliamo andare a vedere le armature, dobbiamo prima fermarci un minuto qui». Così ho raccontato loro la storia del principe Siddhartha, di come suo padre lo avesse allevato in un regno isolato ai piedi dell’Himalaya in modo da impedirgli di vedere alcuna forma di sofferenza umana, e di come, ormai cresciuto e diventato curioso, fosse sgattaiolato fuori dai cancelli del palazzo per visitare il villaggio vicino. Lì, Siddhartha vide un malato, un povero, un mendicante e un cadavere. Sopraffatto da un immenso dolore per le sofferenze umane, si promise di intraprendere un cammino che lo avrebbe portato a superare la violenza dello spirito umano. Ho osservato il volto di mio nipote di otto anni, intento a guardare il Buddha. L’espressione sul suo viso era di una pazienza quasi perfetta. Capii che era come se gli avessi chiesto di lavarsi le mani prima di cena. Abbiamo continuato a camminare per i corridoi delle gallerie asiatiche, e poi siamo giunti alla cena.
Contemplando l’armatura, sembrava quasi di sentire il suono del martello provenire dalla fucina
Un selvaggio elmo miceneo, primitivo e brutalmente funzionale, con fessure per gli occhi e una protezione per il naso come primo reperto, avrebbe opportunamente confermato la mia lezione. Invece, come prima cosa abbiamo trovato un’intera armatura francese del XIII secolo, decorata da gigli e ricoperta di cotta di maglia, che dava l’impressione di una fattura fine e delicata. «Fico» ha detto mio nipote, e l’ha fissata a lungo prima di passare al resto degli elmi, spade, pugnali, picche, lance, mazze, guanti, asce e flagelli. Tutto aveva meravigliose lavorazioni in metallo. Se il granito del Buddha è una roccia che ha origine dal primo raffreddamento della terra, riscaldata fino a bruciare, sotto una pressione intensa, la lavorazione umana dei metalli replica lo stesso processo. Contemplando l’armatura, sembrava quasi di sentire il suono del martello provenire dalla fucina. Stavamo fissando il fuoco della trasformazione attraverso cui la specie umana era giunta a controllare la maggior parte delle forme di vita sulla Terra.
Robert Hass è un poeta, traduttore e scrittore statunitense. I suoi libri più recenti sono What Light Can Do, una raccolta di saggi, e The Apple Trees at Olema, una raccolta di poesie. Insegna letteratura alla University of California di Berkeley. Questo articolo è stato pubblicato su Brick numero 90, inverno 2013 ► A Coat of Armour | Traduzione di Laura Pellegrini
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