Il dizionario del caubòi

Terminologia e mitologia del buttero dalle pagine del romanzo Selvaggio Ovest

«E sicché ora la gente dall’America viene in qua da noi? Che ne sanno di cavalli?».
«A me lo raccontava mio cognato, io mica lo so. Dice che sono caubòi».
«Che vorrebbe dire?».
Solo Donato conosceva la parola, perché con alcuni compagni avevano visto dei giornali d’avventura che qualcuno aveva fatto arrivare dalla città.
«Cowboy vuol dire buttero, in americano» disse Donato.

Alcuni romanzi si addentrano in mondi che conosciamo, mostrandoci facce nuove di universi che crediamo di conoscere da sempre; altri invece ci fanno scoprire mondi nuovi e, con essi, i loro linguaggi. È il caso del wild west italiano raccontato in Selvaggio Ovest (NN Editore, 2024) di Daniele Pasquini, che trasporta l’universo letterario e cinematografico delle praterie americane nei territori della Maremma di fine Ottocento, sulla scia del western maremmano di Filippo Cerri Di macchia e di morte (effequ, 2022). La storia intreccia le vicende della famiglia del buttero Beppe detto “Penna” – la moglie Leda, il figlio Donato – con quelle della banda del brigante Occhionero e del circo del leggendario Buffalo Bill, al tramonto della sua fama, in giro per l’Italia con il suo Wild West Show. Con una narrazione che strappa alle pianure italiane immaginari che forse non sapevano di contenere, Pasquini riesce nel difficile intento di mettere in scena un’epica realista, costruendo un romanzo dall’aura mitica che non dimentica mai di restare con i piedi per terra, anzi nella terra, come si confà ad ogni opera davvero contemporanea.
 

Pasquini lavora di lessico dando vita a un romanzo che non arricchisce soltanto il nostro immaginario, ma anche il nostro vocabolario


Per calarci in questo periodo storico nebuloso, che sta a cavallo (appunto) fra tradizioni antiche e il nuovo ordine di un’Italia ancora giovane, e immergere il lettore nell’atmosfera terrigna delle distese maremmane, Pasquini sceglie un linguaggio che fa della precisione la chiave per aprire le porte all’immaginazione. Pur nell’ottica di utilizzare il lessico tecnico che riguarda «selle, finimenti, luoghi e ruoli solo quando non c’era un termine comune che fosse esaustivo», e quindi tenendo in considerazione la fruibilità della propria scrittura, allo stesso tempo, dice Pasquini: «Sentivo di dover essere specifico, sentivo che serviva a guadagnarsi la fiducia del lettore». E non è la sola ragione di questa scelta. «Volevo che il romanzo avesse un costo d’ingaggio piuttosto alto perché solitamente la letteratura d’avventura, la letteratura di genere, la letteratura d’azione paga sempre questo scotto: non può mai essere letteraria, è sempre di serie B». Così, Pasquini lavora di lessico con l’obiettivo di nobilitare il portato letterario del racconto d’avventura, dando vita a un romanzo che non arricchisce soltanto il nostro immaginario, ma anche il nostro vocabolario. Quello che ne nasce è un vero e proprio dizionario del caubòi.

B come Baio e Bardella
«Avvicinò un baio con una macchia sulla fronte. Gli fece annusare la mano, lo carezzò. Poi lo sellò, togliendo la bardella del suo cavallo morto».
Se nel mondo dei cavalli il manto definisce per metonimia il cavallo stesso (e quindi il baio è il cavallo con manto baio, ovvero con estremità e crini neri e il corpo tra il marrone e il rossiccio, e il sauro è il cavallo con manto sauro, ovvero color cannella e senza peli neri), così ogni sella ha una sua specificità. Il termine bardella, sella viterbese e maremmana, definisce una sella senza arcione, ovvero senza la parte arcuata nella zona anteriore o posteriore su cui il cavaliere poggia il ventre o la schiena. La parola deriva dall’arabo bard’a, sottosella, che ha dato origine anche al termine analogo varda, utilizzato in alcune zone del sud Italia per definire la sella utilizzata per asini e muli, e al verbo bardare. Da qui, il cavallo è bardato quando indossa la sella, quando indossa tutti i suoi finimenti oppure, in passato, quando indossava l’armatura completa.

D come Dòma e M come Mandriolo
«A quei tempi mio padre mi aveva mandato a lavorare da della gente che aveva un grosso podere ai piedi dell’Amiata. Erano signori di Arezzo, gente che stava bene. Erano buone terre quelle, e avevano parecchi animali. Ma sai come vanno certe cose, ai ragazzi tocca sempre il lavoro sporco. Un cavallo a me non lo dava nessuno, la doma la guardavo seduto sulla staccionata del mandriolo, e per la marchiatura ero quello che doveva fare il fuoco e attizzare i carboni».
In uno dei capitoli più duri e riusciti del libro, il brigante Occhionero racconta il suo passato al giovane carabiniere Rocchini. Non solo la storia che si nasconde all’origine del soprannome con cui è conosciuto in tutta la Maremma, ma anche la sua adolescenza ad osservare il momento in cui i cavalli venivano domati, la doma appunto, a sedere sulle assi del recinto che li ospitava, il mandriolo.

Marcatura dei puledri in Maremma (1887) di Giovanni Fattori


E come Estatatura
«C’erano un paio di butteri anziani che di fiere ne avevano viste anche troppe, ormai non sentivano più il richiamo neppure di quell’unico giorno di festa. Preferivano restare lì, a governare i pascoli spogli e a godere del fresco dell’inizio della stagione, prima che il caldo coprisse di nuovo la terra, prima che la Maremma si svuotasse per l’estatatura e rimanessero solo loro, mandriani e zanzare».
L’estatatura è uno degli aspetti più affascinanti dell’ambientazione maremmana raccontata in Selvaggio Ovest. Fenomeno migratorio prima e legge poi, l’estatatura era lo spostamento degli abitanti della pianura grossetana verso l’entroterra allo scoccare del periodo estivo, in cui la malaria cominciava a colpire mortalmente la Maremma. A fissare la migrazione su carta fu il Regolamento per l’Estatatura, varato nel 1780 sotto il Granducato di Pietro Leopoldo, che determinava il trasferimento del capoluogo da Grosseto a Scansano per salvaguardare gli uffici pubblici dalla malattia. Proprio con il fantasma della malattia si apre la storia di Pasquini – «Non vorrei che a furia di chiamarla, la facciamo venire noi», dice il massaro –, un fantasma da cui in Maremma si è sempre fuggiti ogni maggio finché, dopo secoli di migrazioni estive, il Regno d’Italia scelse di abolire il decreto sull’onda lunga del processo di bonifica delle terre. Con la legge n.321 del 20 luglio 1897 «Sull’abolizione dell’estatatura dalla città di Grosseto», lo stato italiano decretava il termine delle migrazioni, ma non della malattia, che verrà eradicata completamente dall’Italia soltanto nel 1970.

G come Gimkana
«Sapeva poi come funzionava la gimkana, in cui un buttero a cavallo doveva girare per l’arena scansando ostacoli e dando prova di abilità. Non se l’era mai figurata veramente come una gara. Capitava che alla tenuta, intorno al mandriolo, qualcuno dicesse “pare proprio una gimkana”. Era una cosa comune, nel lavoro di tutti i giorni, scansare un corno o traversare un recinto, o accerchiare un puledro infuriato o un vitello sfuggito alla merca».
Nel parlato italiano, quando diciamo “fare una gimcana” o “pare proprio una gimcana” – per citare Donato – ci riferiamo in senso figurato a un percorso tortuoso e intricato da fare a piedi, in auto o con qualunque altro mezzo di locomozione, uno slalom irregolare che, nel linguaggio equestre, fa invece riferimento a una gara ben precisa di destrezza a cavallo. Il termine deriva dall’indostano gendkhāna – letteralmente un «luogo dove si gioca a palla», da gendu “palla” e khāne “casa” – che indicava uno spazio pubblico dotato di oggetti ludici dove si facevano i giochi più disparati.

I come Imboscarsi
«Adesso che era fuori dalla cella, quasi pronto a imboscarsi di nuovo, c’era solo una cosa che lo turbava davvero. Non era il dolore, né tantomeno le tappe di quella fuga tutta da immaginare. Era il motivo per cui si trovava lì».
Nell’italiano contemporaneo, imboscarsi è rimasto come termine gergale di alcune aree per indicare una persona che si nasconde in un luogo ignoto e non vuole farsi trovare – e da qui le derivazioni dialettali imboscare per “nascondere” e boscare per “non presentarsi ad un appuntamento”. È molto semplice eppure particolarmente evocativa la comparsa del termine nel romanzo, utilizzato nella sua accezione originaria in relazione alle vicende del brigante Occhionero, che per fuggire e nascondersi dalla legge vuole letteralmente “scomparire nel bosco”, darsi alla macchia. Imboscarsi, appunto.


Mercato a San Godenzo in Mugello (1882) di Giovanni Fattori, inizialmente esposto con il titolo Una fiera di bestiame



M come Mèrca (e B come Buristo)
«La merca dei vitelli era sempre prevista all’inizio di maggio, ma il massaro aveva annunciato che avrebbero anticipato di qualche settimana. I padroni e gli amministratori sarebbero arrivati in visita alla metà di aprile, e avevano due settimane per organizzarsi. Per gli uomini significava lavoro nei pascoli, radunare gli animali e condurli ai recinti, controllare canapi e staccionate. Per le donne significava preparare la festa, rendere accogliente quel posto. Dovevano ripulire il capanno per mangiare assieme, preparare il buristo, dividersi i compiti in cucina».
In Maremma e nella campagna romana, si chiama mèrca la marcatura a fuoco dei nuovi nati. È un momento particolare nel mondo dei butteri e delle loro famiglie, una festa primaverile in cui si marchiano gli animali venuti alla mandria nell’anno precedente. In questa occasione le donne della famiglia preparano il buristo, un insaccato toscano simile al sanguinaccio.

S come Sfrogiare
«Erano tutti uomini di una certa età, e gli sembravano tutti grossi il doppio di lui. Avevano dei cavalli massicci, con posteriori muscolosi. Sfrogiavano irrequieti».
Verbo onomatopeico quanto il nitrire, lo sfrogiare restituisce con grande ricchezza sonora e immaginativa lo sbuffo stizzito o minaccioso delle narici del cavallo – le froge, appunto – che nel romanzo soffiano soprattutto nelle arene della fiera di Manciano, dove i butteri si sfidano alla gimkana e al gioco della rosa.


Arresto di briganti (1864) di Giovanni Fattori, conosciuto anche come Episodio nella campagna contro il brigantaggio, raccontata in Selvaggio Ovest con l’arresto del brigante Occhionero da parte del carabiniere Orsolini



V come Vacchereccia e Vergheria
«In quegli anni Occhionero aveva vissuto randagio, dormendo nei boschi e nei fienili, in capanne improvvisate, in una vacchereccia o in una vergheria, ospite in casa di contadini, e in tempi diversi anche negli appartamenti sfitti di qualche signore, sfruttando la compiacenza di amministratori volubili e dalla fedeltà discutibile».
Costruita nei punti di approdo della transumanza, la vergheria era una capanna circolare con tetto a forma di cono che ospitava una fornacetta, una caldaia per la cottura del latte e diversi giacigli per i pastori che facevano riferimento al vergaio, il capo del personale di custodia del gregge. Al contrario, la vacchereccia (o vaccareccia) era una struttura fissa legata all’allevamento dei bovini, una cascina in cui si allevavano vacche da latte. Di queste pratiche stanziali rimangono i segni nei nomi di diverse località italiane: l’antico borgo di Vacchereccia, tra Cavriglia e San Giovanni Valdarno,  le frazioni di Vaccareccia, in provincia di Rieti, e di Vergaio, nel comune di Prato, o il paese di Verghereto, in provincia di Forlì-Cesena, sull’appennino tosco-romagnolo. Testimonianze di una tradizione che coinvolge, da secoli, le regioni dell’Italia centrale.

 

In copertina il dipinto Mandrie maremmane (1893) di Giovanni Fattori, conosciuto anche come Butteri e conservato al Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno


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