Il discorso del primo ministro
Come il cinema ha trasformato Winston Churchill in Adolf Hitler
Smorfia, papillon, sguardo accigliato; sigaro, cappello, sorriso beffardo; sorriso beffardo, dita a «V» di vittoria e cappello, con sigaro o senza: è Winston Churchill. L’uomo che guidò la Gran Bretagna durante la Seconda guerra mondiale è una delle icone più riconoscibili della politica del Novecento. Proprio per questo, misurarsi con la sua figura dev’essere stata una sfida per gli attori chiamati a interpretarlo – per Timothy Spall nella breve apparizione di Il discorso del re (2010) come per Brian Cox in Churchill (2017) e last but not least Gary Oldman, che per la sua performance in L’ora più buia di Joe Wright (2017) ha vinto l’Oscar per il miglior attore protagonista. Questa sfida ne ricorda un’altra di segno opposto: interpretare la nemesi di Churchill, Adolf Hitler. Non tanto per l’eventuale influenza su Oldman e i suoi predecessori, ad esempio, dell’Hitler di Bruno Ganz in La caduta (2004), ma per un'affinità tra il Churchill del cinema e il massimo interprete di Hitler: Hitler stesso. Nella storia come al cinema, infatti, entrambi i personaggi sono rimasti famosi per i loro discorsi, ma sul grande schermo, invece che con la propria retorica, Churchill finisce per parlare con quella di Hitler.
Certo, Darkest Hour vuol essere chiaroscurale e in parte ci riesce: non mancano i richiami al pessimo carattere di Churchill, ai fallimenti e alle controversie della sua lunga carriera politica, dalla disfatta di Gallipoli durante la Grande guerra alla campagna contro l’autogoverno dell’India britannica. Ma tutto sommato L'ora più buia condivide con i suoi diretti precedenti – i film tv Guerra imminente di Richard Loncraine (2002) e Into the Storm di Thaddeus O’ Sullivan (2009) e il più recente Churchill (2017) – un tono largamente celebrativo, complice l’enfasi posta sull’ora più bella («the finest hour») della storia britannica, quella che lo stesso Churchill faceva coincidere con il rifiuto a scendere a patti col Terzo Reich – da bravo politico prestato alla scrittura e alla storiografia, o viceversa (vedi il Nobel per la Letteratura che vinse nel 1953). Non c’è traccia, poi, del revisionismo storico secondo cui la linea bellicista di Churchill avrebbe precipitato gli eventi che intendeva scongiurare, cioè il disfacimento dell’Impero britannico e la cessione della supremazia mondiale della Gran Bretagna agli Stati Uniti. Hitler, giustamente, rimane un nemico radicale, un “Altro” al tempo stesso invisibile e incombente.
Nella storia come al cinema entrambi i personaggi sono rimasti famosi per i loro discorsi, ma sul grande schermo, invece che con la propria retorica, Churchill finisce per parlare con quella di Hitler
Ma la scelta tradizionale di rappresentare Winston come l’uomo che ha insistito sulla necessità di resistere a Hitler a qualunque costo, cioè come l’uomo che ha salvato il mondo dal nazifascismo, ha fatto infuriare chi sta(va) dall’altra parte dell’imperial divide e vorrebbe raccontare tutta un’altra storia. Shashi Tharoor, politico indiano tanto notevole quanto controverso, ha castigato Darkest Hour ricordando le durissime posizioni di Churchill nei confronti di vari popoli un tempo assoggettati ai britannici, tra i quali gli indiani. Shashi deve aver preso male il maldestro tocco globale aggiunto dal film alla Londra del 1940, col tizio di colore sulla metro che recita dei versi di Thomas Macaulay, poeta e politico dell’Ottocento noto, tra le altre cose, per aver scritto che un solo scaffale di una buona biblioteca europea vale quanto tutta la letteratura araba e indiana. Secondo Tharoor, Churchill fu un disumano imperialista ed è uno scandalo che a questo «omicida di massa» l’Occidente non abbia esteso lo stigma di sangue meritato da Stalin e da Hitler. Come osserva Wu Ming, del resto, in tempi di Brexit la Gran Bretagna va in cerca di radici: pare rischioso riscrivere un’icona della storia nazionale secondo un discorso postcoloniale che ha ben poco da offrire all’orgoglio britannico.
«Le parole, in ultima analisi, sono tutto ciò a cui gli ammiratori di Churchill possono aggrapparsi»: così fulmina Tharoor. In realtà i fan di Churchill non possono aggrapparsi nemmeno a quelle. O almeno, non al modo in cui le sue parole più famose, quelle conclusive del discorso pronunciato alla Camera dei Comuni il 4 giugno 1940, sono state rese al cinema anche da Darkest Hour. Citiamo il passo saliente:
We shall go on to the end, we shall fight in France, we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and growing strength in the air, we shall defend our Island, whatever the cost may be, we shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills; we shall never surrender.
Qual è il problema? Forse che il film si prende la briga di indicare ogni volta che giorno è, facendo scorrere la data sullo schermo, ma poi antecede il discorso dal giorno dopo al giorno prima dell’evacuazione degli eserciti alleati da Dunkirk? No. Forse che suggerisce che quelle parole furono direttamente trasmesse alla nazione via radio dalla BBC, quando invece furono divulgate solo attraverso i riassunti della stampa e non furono registrate che a guerra finita, nel 1949? No. Il problema è che dietro alla resa cinematografica di questo discorso potrebbe celarsi l’ombra di Hitler.
Se ascoltiamo la registrazione o guardiamo uno dei rari filmati che riprendono Churchill mentre parla in una situazione simile, notiamo una netta differenza tra il Churchill-al-cinema e il Churchill-secondo-Churchill. Il primo è acceso di passione e arringa i presenti in corsa, si stende rombando ed esplode. Associando dei gesti eloquenti alle parole, investe tutto il suo corpo nell’esecuzione del discorso e fa in modo che le reazioni giubilanti del pubblico amplifichino la sua voce. È una chiamata alle armi, un grido di persuasione che non ammette repliche. Il secondo non manca di spirito, di commozione o di entusiasmo. Alternando un tono conversevole a lirismi ficcanti, parla secondo un ritmo tutto sommato calmo e regolare, adatto al più delicato dei discorsi parlamentari così come a un’orazione rivolta a informare e rassicurare il pubblico. Un’altra differenza, come dimostra la ricostruzione storiografica della retorica di Churchill compiuta da Richard Toye, è la reazione tutto meno che uniforme dei parlamentari e del pubblico britannico: l’entusiasmo si mescolò con lo scetticismo. Nel Churchill-al-cinema, la combinazione tra la violenza ascendente dei toni, la pronunciata fisicità del discorso e lo speciale rapporto di simbiosi politica istituito tra oratore e uditorio ricorda le strategie retoriche di Hitler, documentate da numerosi filmati e dal film di propaganda di Leni Riefenstahl, Il trionfo della volontà (1935). Come si vede in questo film o nei cinegiornali dell’Istituto Luce, fascisti e nazisti sfruttarono ampiamente la cinematografia: diversamente dalla maggior parte dei discorsi di Churchill, scritti per essere pronunciati prima di tutto nel chiuso della Camera dei Comuni, quelli di Hitler e di Mussolini erano spesso parte integrante delle coreografie di massa dei rispettivi regimi e venivano sottoposti sistematicamente all’occhio moltiplicatore delle telecamere.
Fascisti e nazisti sfruttarono ampiamente la cinematografia: diversamente dalla maggior parte dei discorsi di Churchill, scritti per essere pronunciati nella Camera dei Comuni, quelli di Hitler e di Mussolini erano spesso parte integrante delle coreografie di massa dei rispettivi regimi
Le esigenze visive della cinematografia e lo stile retorico dei dittatori nazifascisti, influenzandosi a vicenda, hanno stabilito un paradigma del “discorso alla nazione” talmente efficace da infiltrarsi anche nelle rappresentazioni del nemico Winston Churchill? Difficile dimostrarlo, ma Darkest Hour ci porta in questa direzione e suggerisce che, se anche questa contaminazione fosse casuale, il suo significato politico rimarrebbe invariato. L’ora più bella di una comunità scocca quando tutte le contraddizioni si sciolgono in armonia e c’è un uomo solo al comando, che guida verso la propria salvezza una nazione fortificata dall’unanimità nei confronti del leader. Fare di Churchill il protagonista di un simile scenario rende meno giustizia di quanto si pensi alla Gran Bretagna (e all’Occidente): superata la crisi, ciò che consente la sopravvivenza della democrazia parlamentare non è l’unanimità ma lo scontro di dissensi e opinioni, in cui i britannici si trovarono immersi anche in their finest hour.
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