Il Compagno brillante e la questione interna

Verso la seconda guerra di Corea?

Farsi un’opinione sulla Repubblica Democratica Popolare di Corea (meglio nota come Corea del Nord), per noi Occidentali, è compito estremamente arduo per due ordini di motivi. In primo luogo, da un punto di vista soggettivo, l’immagine resa di questo Paese è falsata dalla propaganda del Regno dei Kim, che si descrive come lo Stato più felice del mondo, e del cosiddetto “Mondo libero”, il cui apparato mediatico non lascia passare giorno senza ricordarci che abbiamo a che fare con la più compiuta concretizzazione storica della distopia orwelliana di 1984. In secondo luogo risulta obiettivamente difficile sintonizzarsi con i complessi meccanismi di potere che regolano la vita pubblica e i processi decisionali della Corea del Nord, come sempre avviene quando noi Occidentali, abituati allo schema del “governo della legge”, ci mettiamo ad analizzare Paesi dove domina il diverso principio del “governo della politica”.

Per comprendere la distribuzione dei poteri pubblici e le dinamiche che si celano dietro alle scelte politiche di Pyongyang, infatti, non è sufficiente, e forse nemmeno necessario, mettersi ad analizzare il diritto costituzionale della Corea del Nord, in quanto la sua Carta fondamentale non è altro che un manifesto dei principi dell’ideologia ufficiale (il Juche), praticamente privo di precettività giuridica. È più utile, invece, prendere in considerazione i rapporti di fatto sussistenti tra i principali attori della politica nordcoreana: l’esercito, la corte dei Kim e la società coreana ormai militarizzata. Si tratta comunque di rapporti difficilmente discernibili, dato che abbiamo a che fare con un vero e proprio “Stato eremita”.
Queste difficoltà hanno investito anche i recenti tentativi di analisi della scelta nel nuovo leader nordcoreano, il “Compagno brillante” Kim Jong Un, che con grande clamore ha autorizzato l’utilizzo di armi atomiche in caso di conflitto con la Corea del Sud e con gli Stati Uniti. La notizia, accompagnata dalla mobilitazione generale delle principali potenze regionali, è stata accolta con un misto di inquietudine, ma anche di scherno, per l’incolmabile sproporzione di forze tra il potenziale militare nordcoreano e quello statunitense.

Ora, posto che il trentenne Kim Jong Un non è sprovveduto né psicolabile, se non altro perché in tal caso una rapida manovra di Palazzo lo avrebbe prontamente estromesso dal gioco, le diverse spiegazioni della posa bellicosa della Corea del Nord hanno in comune la convinzione che tutto ciò nasconda, in effetti, un preciso progetto politico, diretto a rispondere a problemi di matrice squisitamente interna.
Secondo alcuni osservatori, il giovane dittatore avrebbe intenzione di rendersi credibile come Guida Suprema agli occhi dell’onnipotente casta militare, che di fatto regge il Paese e che, senza troppa convinzione, ha dovuto optare per Kim Jong Un solo perché gli altri figli del Caro Leader Kim Yong Il erano caduti in disgrazia (per debiti di gioco  ed eccessiva “effeminatezza”).
Secondo una diversa opinione, il “Compagno brillante”, con le sue bordate contro l’America, non farebbe altro che potenziare la propaganda antiamericana, mobilitando dall’alto la società per distogliere i nordcoreani dai loro gravi problemi materiali e convogliandone il malessere verso l’odioso nemico esterno rappresentato, per eccellenza, dall’imperialismo americano. Il sentimento antistatunitense è fortissimo e genuino tra i nordcoreani, ed è sempre stato alimentato dai media del regime, non tanto (e non solo) nella forma di un ripudio ideologico per il capitalismo, quanto, piuttosto, come puro odio razziale. La componente razzista del regime di Pyongyang, derivazione diretta del tentativo strumentale dell’Impero Giapponese, negli anni Trenta, di unire la superiore razza nippo-coreana contro gli “schiavi” cinesi, emerge dallo stilema propagandistico che contrappone i bianchi Nordcoreani, tutti tanto uguali da sembrare dei cloni, agli scuri Americani, eterogenei e divisi gli uni dagli altri. Lo slogan “Non esistono masse più pure delle nostre” esprime plasticamente quel singolare sincretismo tra marxismo e razzismo che è l’ideologia Juche.
Una terza opinione, più classica, ritiene che Kim Jong Un stia semplicemente imitando il padre, il quale usava minacciare escalation nucleari per ottenere dalla comunità internazionale aiuti finanziari e alimentari per il suo Paese, economicamente in rovina. In questa prospettiva l’emergenza umanitaria in Corea del Nord sarebbe tanto grave da avere indotto il Partito del Lavoro a tentare di prendere in ostaggio il mondo intero con la minaccia di una guerra sanguinosa in estremo oriente.

Un’ultima spiegazione torna ai rapporti tra Kim e l’esercito, prendendo però in considerazione anche le dinamiche interne all’entourage che circonda il giovane dittatore. Le boutade del “Compagno brillante”, secondo questa linea di pensiero, non avrebbero alcuna autonomia, ma sarebbero state caldeggiate dai suoi zii, che hanno assunto temporaneamente il ruolo di tutori del dittatore coreano, ancora troppo giovane per governare da solo il Paese. Nelle intenzioni degli zii-tutori la Corea del Nord dovrebbe dar luogo a riforme di liberalizzazione del sistema economico sulla scia del modello cinese. Tuttavia, un tentativo riformista in questo senso rischia di spingere la gerarchia militare, estremamente conservatrice, a ordire un colpo di stato contro ogni ipotesi di cambiamento. Perciò, Kim e i suoi tutori, minacciando con furore l’America e il mondo intero, starebbero cercando di ingraziarsi la gerontocrazia militare coreana, allo scopo di spianare la strada alle imminenti riforme economiche.
Come è facile avvedersi, si tratta di spiegazioni che non si escludono a vicenda. Tutti i fattori precedentemente esposti, verosimilmente, devono aver contribuito alla scelta nordcoreana di minacciare la guerra nucleare con gli USA.

Eppure non è da escludersi che possa scoppiare un conflitto armato in piena regola. Se la “questione interna” del regime di Pyongyang lo imporrà, l’invasione della Corea del Sud potrebbe rappresentare qualcosa di più concreto della semplice minaccia di un (potente) esagitato. Quello che sembra davvero inverosimile, piuttosto, è che in tale circostanza venga fatto uso di armamenti atomici, a meno che lo Stato totalitario non sia preso da un definitivo, irrazionale impulso autodistruttivo. Ma ciò non rende la minaccia nordcoreana meno seria. Occorre ricordare, infatti, che il potenziale militare della RDC è relativamente elevato, sia per l’elevato numero di effettivi sia perché l’esercito popolare è dotato di terribili armi convenzionali chimiche e battereologiche, sicuramente non meno devastanti di altre armi di distruzione di massa. Ma è un’eventualità che il regime potrà prendere in considerazione solo come extrema ratio, nel caso limite in cui lo scollamento tra partito e società sia talmente grande da imporre la mobilitazione delle masse nella sua forma più radicale e (auto)distruttiva.
Tuttavia, niente induce a vedere segni di destabilizzazione così acuti, se è vero, come si racconta, che i nordcoreani in fuga dal loro Paese tendono a corrompere le guardie di frontiera non per uscire, bensì per tornare a casa; un comportamento inspiegabile, se non nell’ottica di una manipolazione del consenso e di un’educazione pervasiva che solo questa dittatura sui generis (un po’ stalinista, un po’ razzista e un po’ teocratica) sembra sul serio in grado di garantire.
 




In collaborazione con La Clessidra

 


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