Il cinema oltre se stesso
La morte del cinema e le sperimentazioni di Peter Greenaway
«Il cinema è un campo di battaglia. Amore, odio, azione, violenza, morte. In una parola Emozione» scrive il regista tedesco Rainer Werner Fassbinder nel suo libro I film liberano la testa, centrando in pieno quello che è lo scopo del cinema, ossia regalare emozioni, scuotere lo spettatore invadendolo con tutto il suo microcosmo, accrescendo in questo modo la sua esperienza. Il cinema dà luogo all’esperienza, esperienza istante per istante e che nel tempo si va accumulando, nutrendo quella che è la vita stessa di uno spettatore o della collettività. Questo tipo di esperienza filmica ha un luogo, anche esterno a quello di una sala cinematografica, ma che al centro della propria narrazione pone l’immagine e quindi il senso della vista al di sopra di tutti gli altri. Questo lo scopo del cinema inteso come arte, che di decennio in decennio cambia e trasforma i suoi mezzi rilocandosi e adattandosi al tempo e ai modi di vivere e di fare esperienza dell’uomo.
Ideale è l’amante che tiene accesa e sempre alta la fiamma del suo amore e che non muta quando scopre mutamenti ma si adatta, cambiando il punto di vista, piuttosto che lasciarsi morire vivendo di un consumato amore. Peter Greenaway, grande amante del cinema e dell’arte, chiedendosi quale futuro dare al suo cinema ha di volta in volta attinto dalle altre arti, quali la pittura, l’architettura, la letteratura, la fotografia al fine di tenere sempre alta la fiamma del suo amore. «Tutti i miei film parlano della classificazione del caos» dice Greenaway, che nelle sue opere gioca con le possibilità del dispositivo filmico facendovi confluire tutti i suoi molteplici interessi. Interesse primo del regista è ed è sempre stata la pittura attraverso la quale si avvicinò al cinema, che poteva dargli la possibilità di dare voce e movimento ai suoi progetti. E sono perfetti tableaux le scene dei suoi film che tengono alta l’attenzione dello spettatore serbando in ogni loro fotogramma un simbolo, una citazione che rimanda sempre a qualcos’altro.
Il cinema di Greenaway è sempre in evoluzione e alla ricerca della propria identità, che di volta in volta cambia volto per risplendere di nuova luce. Al centro della propria ricerca l’immagine e le potenzialità espressive dell’arte, sempre calate e analizzate in un contesto storico che è quello scelto dall’autore. Ne I misteri del giardino di Compton House, del 1982, siamo catapultati nell’Inghilterra di fine Seicento, e guidati dagli occhi attenti del pittore protagonista cercheremo di svelare il mistero che si cela dietro le riproduzione pittoriche di ogni angolo del giardino della casa aristocratica di cui il proprietario ha commissionato i dipinti. L’arte cerca di svelare la realtà ma rimane vittima dei giochi di potere dell’aristocrazia che tutto distruggono. Qui Greenaway, mosso dalla curiosità e dalla voglia di sperimentare, unisce la pittura al cinema, perché in fin dei conti «l’invenzione del cinema si deve a Rembrandt e al suo straordinario senso drammatico nell’uso della luce», armonizzando il lieto incontro con le note invasive delle musiche di Michael Nyman che fedelmente lo seguirà per quasi tutta la sua carriera cinematografica. La ricerca continua e la sua voglia di andare oltre quelle che sono le tecniche classiche del cinema lo spingono a creare opere che tutto abbracciano e che da tutto ciò che è arte, non solo visuale, attingono. Ne L’ultima tempesta, del 1991, Greenaway mette in scena tutto il suo microcosmo culturale, reinventando un’opera teatrale quale La tempesta di Shakespeare. Lo spettatore viene immerso in un bagno di immagini che più delle parole ci raccontano l’universo magico in cui la storia è ambientata. La macchina da presa si perde nelle pagine dei mille libri di Prospero, tra i suoi pensieri, scruta ogni angolo dell’isola in cui si trova in esilio con sua figlia e le creature magiche appartenenti agli elementi della natura. La creatività del regista unisce il cinema al teatro, all’architettura, alla danza bombardando lo spettatore con inserti sorprendenti, che appaiono come epifanie intellettuali. In I racconti del cuscino, del 1996, Greenaway unisce agli inserti di schermi nello schermo un ritrovato interesse per la fotografia e per la parola scritta. Fotogrammi in fermo immagine e scene in movimento sottotitolate da parole legate a concetti, musiche e dialoghi, importanti per il senso del film, accompagnano lo spettatore durante la visione di questa storia di amori e passioni che coinvolgono corpi e parole scritte.
L’osservazione attenta del mondo moderno ha portato Greenaway, con il passare del tempo, a ricercare, in nuovi linguaggi, nuovi modi di esprimere se stesso e l’arte. Resosi conto dell’importanza del digitale, dell’avanzare delle tecnologie e quindi della velocità dei cambiamenti ha deciso di dedicarsi alle videoarti, alle installazioni museali, invadendo spazi pubblici come piazze o teatri di diversi continenti. Andando oltre lo schermo classico in cui il cinema si esprime, va modificando gli spazi esterni e la percezione che lo spettatore finora aveva di essi. «La sfida inoltre è di cambiare il tempo dell’esperienza, fattore quest’ultimo che è diventato sempre più una camicia di forza. Non è noioso che Casablanca, Spiderman, Guerre Stellari, siano sempre uguali ad ogni passaggio? Con la tecnologia attuale tali possibilità di variazione sarebbero assolutamente possibili, anche se questo fa imbestialire chi si occupa di management culturale», scrive Greenaway, che partendo da un cinema indipendente ha voluto prendere in considerazione tutto ciò che è arte visuale ponendo al centro della sua ricerca l’immagine e l’esperienza che ne poteva fare lo spettatore osservando i suoi lavori.
Il Cinema quindi, a seguire autori come Greenaway, non è passato a miglior vita ma semplicemente ha modificato i suoi mezzi d’espressione, in quanto l’individuo-spettatore ha cambiato il modo di approcciarsi alle cose. Alla domanda su quale futuro avrà il cinema, Greenaway risponde con un continuo sperimentalismo e mettendo in scena le potenzialità del digitale con cui molto ha giocato nelle ultime due opere; Goltzius and the Pelican Company, del 2012, e Eisenstein in Messico, del 2015. Greenaway in Goltzius, con sottile ironia, sperimenta e ci accompagna in questo viaggio attraverso le immagini, le parole pronunciate e scritte sullo schermo e sui corpi dei suoi attori. Lo spettatore viene catapultato nella corte secentesca di un ricco signore, ricreata nel corpo di una fabbrica abbandonata che tanto assomiglia ad un teatro di posa, che con la computer grafica viene allestita con colonne, linee, punti e scritte tra cui gli attori si muovono. E dalla storia di uno dei maggiori incisori del Seicento passa a narrarci i dieci giorni che sconvolsero intimamente una delle più grandi personalità del cinema, Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Un omaggio, al modo di Greenaway, ad uno dei più grandi sperimentatori della settima arte. Qui l’autore britannico gioca con il montaggio interno ed esterno facendo il verso agli scritti teorici e alle sperimentazioni messe in scena da Ėjzenštejn e grazie alle nuove tecnologie digitali crea, da pezzi di realtà, luoghi nuovi, presentando ogni episodio, pur ambientato nello stesso luogo, in modo diverso. Studiate e intelligenti variazioni sullo stesso tema, l'immagine nell'arte, perché, come insegna Greenaway, non si finirà mai di cercare e trovare sempre qualcosa di nuovo, basta guardare le cose da più punti di vista.
L'Eco del Nulla ha pubblicato una lunga intervista al grande regista britannico nel numero Nuovi Inizi, acquistabile qui: bit.ly/1L0F9EW
Commenta