Il cinema italiano fa schifo
Davvero fa schifo il cinema italiano? Forse prima di commentare dovremmo guardarlo
Il cinema italiano fa schifo. Facciamo solo cinepanettoni e film d’autore noiosissimi che nessuno si vede. Quante volte l’abbiamo sentita questa frase negli ultimi dieci anni, anche dopo che la fase dei cinepanettoni è stata archiviata nel 2011 con Vacanze di Natale a Cortina – la sacrosanta chiusura di un cerchio di 28 film imbarazzanti della premiata ditta Vanzina/Oldoini/Parenti aperta proprio a Cortina nel 1983 con Vacanze di Natale? Quante volte l’abbiamo sentita, ripetuta fino allo sfinimento?
È vero, nei primi anni Duemila il cinema italiano non ha vissuto un periodo florido. Dopo gli incassi stellari e i premi per La vita è bella di Benigni per quasi un decennio il nostro cinema si è distinto per un’opacità generale, rotta da sporadici picchi di critica – vedi La stanza del figlio di Moretti che nel 2001 vinse Cannes – che poco avevano a che fare con lo stato di salute del panorama cinematografico nazionale. Poi nel 2008 la rinascita, quando Paolo Sorrentino e Matteo Garrone si presentano in contemporanea al Festival di Cannes aggiudicandosi rispettivamente il Premio della Giuria per Il divo e il Gran Prix Speciale della Giuria per Gomorra. Due premi che lanciano la carriera dei due registi appena quarantenni e rilanciano il cinema italiano sul piano internazionale.
Direte, e che ce ne frega a noi dei premi? Non sono piuttosto le conferme di un cinema d’autore che nessuno va a vedere? Non in questo caso
Direte, e che ce ne frega a noi dei premi? Non sono piuttosto le conferme di un cinema d’autore che nessuno va a vedere? Non in questo caso, perché Garrone e Sorrentino sono i sintomi di un’industria in fiore, le punte dell’iceberg di un benessere (creativo) diffuso, per registi e film che spesso vanno bene anche al botteghino. Eppure non bastano Le meraviglie e i Jeeg Robot, gli Smetto quando voglio e i Call me by your name per far cambiare idea al pubblico italiano, per lavarlo da questo imbecille senso d’inferiorità per cui se una scena è girata bene già ci stupiamo in positivo, già la guardiamo con la sorpresa e l’ammirazione di chi “Ah, non credevo che in Italia fossimo in grado di fare questo”. Vent’anni senza vette ci hanno fatto dimenticare che il nostro cinema è stato saccheggiato, rimasticato e tradotto in mille modi diversi da quel moloch che è l’industria cinematografica a stelle strisce, che deve ai nostri tanti dei suoi capolavori e che adesso guardiamo (da spettatori) come un modello di riferimento.
L’ultima conversazione su quanto facesse schifo il cinema italiano l’ho avuta al Pigmalione, un locale zozzo e poetico dove finiscono le serate di San Lorenzo, a Roma. Il mio interlocutore, appena mi sente parlare di film italiani, se ne esce con un sorriso bonario e paternalistico: “Eh, ma il cinema italiano fa schifo, facciamo solo i cinepanettoni”. Non lo conosco bene e trattengo la naturale reazione violenta, come quella volta in cui presi a schiaffi un amico perché mi aveva chiesto se Il divo era di Garrone (e non eravamo sul set di Boris). “Guarda”, gli rispondo con calma, dignità e classe, “in realtà negli ultimi anni sono usciti tanti bei film e abbiamo tanti registi di alto livello”. “Ah, sì? E allora dimmene cinque”, fa lui con un misto di curiosità e di sfida, con il tono di chi è convinto che al giorno d’oggi non si possano nominare più di tre registi italiani decenti (d’altra parte per questi “il cinema italiano è morto con Fellini”, anche se a loro Fellini neanche piace). “Ah, sì? E allora dimmene cinque”. Ci penso e di primo acchito me ne vengono in mente ventisette.
Paolo Genovese, Matteo Garrone, Gianfranco Rosi, Giorgio Diritti, Andrea Molaioli, Stefano Sollima, Emanuele Crialese, Roberto Andò, Daniele Luchetti, Paolo Sorrentino sono alcuni degli artefici della rinascita, guidati da veterani del cinema d’autore come Nanni Moretti, Marco Tullio Giordana, Mario Martone e della commedia come Silvio Soldini, Carlo Mazzacurati, Paolo Virzì. Con loro tutta una nuova generazione di autori: Edoardo De Angelis, Claudio Cupellini, Alice Rohrwacher, Saverio Costanzo, Matteo Rovere, Claudio Giovannesi, Laura Bispuri, Gabriele Mainetti, Luca Guadagnino, Sydney Sibilia, registi dalle sensibilità e dagli sguardi profondamente diversi eppure potenti, freschi, divertenti, nuovi.
Lui mi guarda un po’ stupito e prova a rilanciare col fatto che “nel cinema americano il suono è molto più pulito, nei nostri film si sente sempre il rumore di sottofondo”. “Già, perché noi i film americani li doppiamo e perciò le voci italiane registrate in studio sono molto più pulite. Se ascolti la presa diretta dei film americani è identica alla nostra”. “Ah”, fa lui perplesso senza più strade da prendere. “Ma, ma… e Zalone?”. Che c’è di male nei Luca Miniero, nei Massimiliano Bruno, nei Checco Zalone – d’altronde ogni generazione ha i suoi film di Pierino. E poi davvero, se devo scegliere tra questi e i cinepanettoni, datemi dieci cento mille Zalone.
Che c’è di male in Luca Miniero, Massimiliano Bruno, Checco Zalone – ogni generazione ha i suoi film di Pierino. E poi davvero, se devo scegliere tra questi e i cinepanettoni, datemi dieci cento mille Zalone
Qualche tempo fa in un’intervista su queste pagine Sydney Sibilia, il regista della trilogia di Smetto quando voglio, diceva giustamente: «Noi abbiamo una gran fortuna, proprio come autori e come appartenenti al cinema italiano, che è proprio il cinema italiano, che è una cosa che esiste. Non tutti i paesi hanno una cinematografia, una tradizione e un’industria. Se fossimo in Danimarca non potremmo dire “Voglio fare il cinema danese!”. E che cazzo è? [e qui Sibilia scazza un po’, dato che la Danimarca ha dato vita a Dogma 95, il movimento cinematografico più importante degli ultimi trent’anni con il manifesto firmato da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, ma si corregge subito] Cioè, a parte delle cose estemporanee, come tradizione e come numero di film prodotti non c’è confronto. Quindi intanto è bello esserci».
Ecco, è bello esserci. In Italia a fare film, ma in Italia soprattutto a guardarli. Dei film di Sibilia mi sono trovato a parlarne con un ragazzo francese di vent’anni, che mi raccontava di quanto gli erano piaciuti Il capitale umano di Virzì e Alaska di Cupellini. Eppure scommetto che anche tra chi legge non siano in troppi ad aver visto Alaska, nonostante l’attore protagonista sia un certo Elio Germano. Una cosa che ho imparato negli anni è che “il cinema italiano fa schifo” è una frase che pronuncia solo chi il cinema italiano non lo vede. E che parli a fare se al cinema non ci vai? Non hai visto Fiore e non hai visto Il gioiellino, non hai visto Un giorno devi andare e neanche Romanzo di una strage, non hai visto Veloce come il vento, Indivisibili, Habemus Papam, non hai visto Fuocoammare e di sicuro nemmeno Hungry Hearts. E se negli ultimi dieci anni non hai visto nessuno di questi film, forse sotto sotto non è il cinema italiano che fa schifo, fai schifo te.
Prefazione del volume speciale Il cinema italiano fa schifo
in collaborazione con In fuga dalla bocciofila per Firenze RiVista 2018
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