«Il cielo stellato sopra di me» - II
Kant e la rivoluzione copernicana
«Disgustati dunque dal dogmatismo che niente ci insegna, e nel tempo stesso dallo scetticismo che non ci fa sperare proprio affatto nulla, neppure di riposare in una lecita ignoranza […] e diffidenti, per lunga esperienza, di tutta quella [conoscenza] di cui ci crediamo in possesso o che ci si offra a titolo di ragione pura, ci rimane ancora soltanto una quistione critica, secondo la cui soluzione noi possiamo regolare la nostra futura condotta:
È , i n g e n e r a l e , p o s s i b i l e l a m e t a f i s i c a ?[1]»
Kant, pur avversando totalmente la carica nichilistica che promana dall'esperienza scettica, riconosce, dunque, il radicale fallimento della tradizione metafisica razionalista. Ma ciò non significa che, per questo, egli la rifiuti o la delegittimi, anzi: ritenendo inevitabili le istanze totalizzanti e metafisiche della ragione umana[2], perciò stesso, salva lo spirito metafisico per rilanciarlo sotto la nuova forma della questione della sua possibilità in generale.
Sulla scia delle esperienze scientifico-filosofiche degli ultimi duecento anni, Kant ritiene che l'empirismo, come dottrina filosofica, colga il punto fondamentale della ricerca filosofica: non è possibile un darsi di conoscenze, senza che prima si abbiano avute esperienze[3].
Sin dai primordî della riflessione filosofica, la conoscenza empirica, legata alla determinazione dell'oggetto di conoscenza da parte dell'azione dei cinque sensi, aveva sempre incontrato resistenze e ostacoli nell'ambito della ricerca della verità.
Non tutte le esperienze vengono, infatti, genericamente considerate veridiche e, anzi, esse possono perfino ingannarci (non per niente Cartesio era giunto, nell'estremizzazione del suo dubbio, a immaginarsi quel lucido delirio di persecuzione che è il genio maligno[4]). Nell'antichità, i due maggiori esponenti della scuola atomistica, Democrito e Leucippo, avevano trovato una soluzione a questo problema supponendo gli enti del mondo passibili di conoscenza, provvisti di due specie di qualità: qualità primarie, riguardanti la configurazione atomica dell'oggetto e, perciò, realmente appartenenti all'ente, al di là di qualsiasi rapporto conoscitivo; e qualità secondarie, dipendenti dalla relazione col soggetto percipiente e con la sua propria struttura fisiologica e, quindi, volta a volta diverse e mutevoli. Questa posizione aveva ben presto riscosso grande successo contribuendo, nei secoli, a costituire quelle nozioni gnoseologiche e epistemologiche di ‘oggetto’ e, per converso, di ‘soggetto’ che sarebbero giunte alla riflessione e alla scienza moderne.
Allorquando Kant inizia il suo percorso critico, tutta la riflessione precedente, sulla scorta della scienza filosofica e della recente scienza moderna, aveva inteso i rapporti conoscitivi come dipendenza sussistente tra due poli – quello conoscente (‘soggetto’) e quello conosciuto (‘oggetto’) – tra i quali si poteva creare una relazione conoscitiva vera nella misura in cui veniva a impostarsi una corrispondenza[5]. In altre parole si riteneva esistessero due enti (l'ente ‘soggetto percipiente’ e l'ente ‘mondo’) i quali si dovevano accordare, uno sull'altro, perché fosse possibile una conoscenza in genere.
Ora, le modalità di questo accordo – tutt'altro che chiare – non erano mai state definitivamente determinate: tradizionalmente si era ritenuto che, perché si realizzasse la conformità delle pretese conoscitive del soggetto alla realtà dell'oggetto, il soggetto e il suo giudizio si dovessero conformare all'oggetto. Ma questa concezione assegnava, com'è ovvio, preminenza ontologica all'oggetto, dando luogo, epistemologicamente, a un realismo ingenuo (sebbene depurato e sistematizzato nella dimensione del realismo metafisico) che, in quanto tale, riteneva esistente in sé quella realtà che tale appariva ai sensi.
Kant aveva visto bene che, continuando secondo questa impostazione, i risultati non sarebbero potuti essere diversi da quelli già ottenuti su versanti opposti dall'empirismo anti-innatista di Locke e di Hume, e dal razionalismo di Leibniz e di Wolff, i quali, dal canto loro, erano stati vanificati dall'inconcludenza dei proprî contenuti rispetto alle domande ultime cui pretendevano di rispondere.
Dunque, non rimaneva altro che salvare il salvabile, abbandonare quel metodo, ormai evidentemente inadeguato e persino sbagliato, e affrontare la problematica teoretica sotto un altro punto di vista. Analizziamo anche noi la questione.
Posto che la conoscenza consista in un accordo della facoltà conoscitiva e dell'oggetto, è chiaro che essa, per essere conoscenza in senso proprio, debba essere vera: dove può essere ricercato il carattere distintivo della verità, il suo criterio generale, se non nel suo stesso essere ciò che essa è, nel suo essere vera?
Ciò significa che questo criterio di verità, proprio in quanto criterio di appropriatezza della conoscenza e, quindi, anche dell'accordo tra soggetto e oggetto, deve essere valido per tutte le conoscenze, al netto della diversità dei loro oggetti – in altre parole, che questo criterio generale della verità, per essere conosciuto, va astratto da ogni contenuto di conoscenza.
Ma allora, in base a quanto detto, sarebbe “impossibile e insensato” chiedere di esibire un contrassegno di verità al contenuto di conoscenza[6] (materia della conoscenza) in quanto, più che fonte del criterio di verità, esso dovrebbe essere giudicato nel valore di verità della sua conoscenza, in base a questo stesso criterio. Perciò, un criterio generale della verità che attingesse ai contenuti della conoscenza, che fosse materiale, sarebbe in sé contraddittorio.
Escludendo, così, i contenuti di conoscenza, rimarrebbe, dunque, la semplice forma della conoscenza (le sue regole).
Ora: l'oggetto della conoscenza, di cui, dal momento che diciamo che esso è qualcosa (qualsiasi cosa), noi sappiamo qualcosa, può essere pensato, in generale (come essere, come essere che ha particolari caratteristiche e così via), solo nel pensiero e attraverso di esso. Le regole proprie del pensiero devono, quindi, essere anche quelle dell'oggetto che noi pensiamo – in quanto esso è, appunto, pensato solo nel, e attraverso il pensiero. Pertanto tutto ciò che, contenuto nel pensiero, contraddicesse le regole generali e necessarie dell'intelletto, contrasterebbe altresì con quelle regole del pensiero attraverso il quale solamente può essere pensato e che, quindi, gli sono proprie. Ma allora, facendo questo, un tale oggetto, si contraddirebbe e, contraddicendosi, automaticamente si dichiarerebbe falso.
Seguendo e convalidando questa serie di motivi, si poteva dunque ritenere che i criterî di verità, nel caso esistessero, dovessero essere proprio qui, nelle regole generali e necessarie dell'intelletto[7].
Ebbene, con ciò, Kant aveva già superato la concezione realista ingenua della verità come copia: ponendo l'aspetto criteriale della verità che, delegittimata nella sua sfera materiale a tutto favore di quella formale, costituiva non come teoria corrispondentista ma secondo condizioni epistemiche, egli effettuava uno spostamento del rapporto conoscitivo dal polo oggettivo al polo soggettivo. In questo modo, pur salvando il fenomeno conoscitivo nelle sue determinazioni tradizionali (‘soggetto’, ‘oggetto’ e via dicendo) egli stravolgeva e rivoluzionava l'epistemologia aprendo nuove strade alla riflessione sulla conoscenza, così come, a suo tempo e nel suo campo, Copernico, pur salvando il fenomeno ‘universo’ consegnatogli dalla tradizione tolemaica, lo aveva stravolto nella formulazione di un sistema totalmente nuovo e diverso.
A quasi due secoli e mezzo dal De revolutionibus orbium coelestium che, restringendo al massimo il punto di osservazione umana (la Terra) a nient'altro che un punto nel tutto – e neppure centrale – , aveva allargato il cosmo degli enti allʼinfnito[8], Kant, ridimensionando le pretese conoscitive della mente umana, nostro unico spiraglio di conoscenza, la espandeva all'infinito quale centro di conferimento di senso al tutto che ci circonda.
[1] Kant, Immanuel, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können – trad. it. di Pantaleo Carabellese, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, Roma-Bari 2009, pp. 45-47
[2] «Tuttavia, non potendo neppure andar mai perduta l'esigenza della metafisica, giacché le è intimamente connesso l'interesse della universale ragione umana...» (Kant, Immanuel, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können – trad. it. di Pantaleo Carabellese, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, Roma-Bari 2009, pp. 6-7)
[3] Ma, si noti, non esperienze casuali o casualmente fatte, bensì esperienze nel senso galileano di sensate esperienze, improntate, cioè, a un certo progetto intellettuale.
[4] Descartes, René, Meditationes de prima philosophia – trad. it. Di Sergio Landucci, Meditazioni metafisiche, Roma-Bari 2009, pp. 34-35
[5] È la teoria corrispondentistica della verità esemplata nella massima veritas est adaequatio rei et intellectus («La verità è corrispondenza della cosa e dell'intelletto»)
[6] Kant, Immanuel, Kritik der reinen Vernunft – trad. it. a cura di Pietro Chiodi Critica della Ragion Pura, Torino 1967, p. 130 [A59/B83]
[7] Si noti che queste regole, in quanto criterî di verità, sono condizioni necessarie ma non sufficienti a una conoscenza vera, in quanto una qualsiasi conoscenza, pur formalmente adeguata, potrebbe sempre contraddire allʼoggetto esperito.
[8] «Nihil enim aliud habet illa demonstratio quam indefinitam caeli ad terram magnitudinem. At quousque se extendat haec immensitas minime constat» [Infatti quella dimostrazione non contiene altro che l'infinita grandezza del cielo rispetto alla terra. Ma fin dove si estenda questa immensità non è affatto evidente]. Copernico, Niccolò De revolutionibus orbium coelestium, cap. VI ‘De immensitate coeli ad magnitudinem terrae’.
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