«Il cielo stellato sopra di me» - I
Kant e la rivoluzione copernicana
Quando nel 1782, Kant pubblica, dopo un lavorio durato, ormai, più di quindici anni – i dieci di elaborazione del progetto filosofico (lo ʻstille Jahrzehntʼ), più i sei dedicati a una sua serrata revisione – , la seconda edizione della sua Critica della ragion pura[1], pone nella prefazione queste parole:
«Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo dei concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo lʼipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desiderata possibilità dʼuna conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati. Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto lʼesercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare lʼosservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda lʼ i n t u i z i o n e degli oggetti. Se lʼintuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se lʼoggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia lʼoggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i c o n c e t t i , coi quali io compio questa determinazione, si regolino anche sullʼoggetto, e in questo caso io non mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscerne qualche cosa a priori; oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, lʼ e s p e r i e n z a , nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti; allora io vedo subito una via dʼuscita più facile, perché lʼesperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dellʼintelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dellʼesperienza devono necessariamente regolarsi e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pesanti dalla ragione, ossia necessariamente, ma non possono esser dati punto nellʼesperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo[2]»
La prima edizione dellʼopera (1781) aveva ricevuto unʼaccoglienza tuttʼaltro che calorosa: «arida, oscura, in contraddizione con tutti i concetti abituali e, per di più, ampia»[3], si era attirata giudizî negativi e fraintendimenti. Lʼapice lo si era toccato (con profondo risentimento dello stesso Kant) nella sua semplicistica liquidazione a opera della ʻrecensione di Gottingaʼ, la quale, senza troppi giri parole, alle critiche di oscurità e sostanziale illeggibilità, aggiungeva un parere non troppo lusinghiero in merito allʼoriginalità della Critica (considerata poco più che una nuova riproposizione dellʼidealismo di matrice berkleyana).
Nessuna meraviglia, quindi, se allʼinizio della nuova edizione a Kant premesse esprimere innanzitutto quelle travisate ragioni che lo avevano portato alla coscienza della portata rivoluzionaria delle sue intuizioni, della totale novità su cui si spiegava la sua teoria gnoseologica e epistemologica.
Alla metà del XVII secolo (cinquantʼanni dopo la fondazione spirituale del suo metodo[4], e contemporaneamente allʼopera che ne decreterà il successo definitivo[5]) la scienza moderna, che fino a un secolo prima era solamente una branca della filosofia – philosophia naturalis – , aveva ormai acquisito un profilo metodologico e epistemico totalmente indipendente: il folto numero di periodici di comunicazione scientifica apparsi in poco più di ventʼanni (il Journal des sçavans a Parigi e le Philosophical Transactions of the Royal Society a Londra, a partire dal 1665; il Giornale deʼ letterati a Roma tra il 1668 e il 1683; gli Acta eruditorum, editi nellʼarea germanica tra il 1682 e il 1782) testimoniano una matura autocoscienza, ma anche e soprattutto, un continuo progresso.
Innanzi alle conquiste della scienza la vecchia metafisica (lʼesposizione dei principî primi che sottostanno a ogni indagine razionale e a ogni dimostrazione, la teoria generale dellʼessere) perde terreno a favore di un diffuso disagio verso le sue capacità[6] e di una crescente ammirazione per le possibilità apparentemente infinite della metodologia scientifico-naturale.
Sulla scorta delle scienze matematiche, che derivano i proprî teoremi e le proprie asserzioni per via dimostrativa da principî evidenti e inconfutabili, i grandi sistemi filosofici dei secoli XVII e XVIII improntano i loro metodi a quello scientifico – unʼopera fra tutte: lʼEthica, ordine geometrico demonstrata (1677) di Baruch Spinoza. Lʼafflato scientifico non dà, però, i risultati sperati: le diverse dottrine si moltiplicano, se possibile, e, perse nel proprio massimalismo dogmatico, dimostrano (o tentano, almeno, di dimostrare) le proprie ragioni senza che mai nessuna riesca a spodestare le altre o arrivare a alcunché.
A fronte della situazione in così gran fermento, si ravviva anche il contrasto gnoseologico (di antica tradizione) tra empirismo e razionalismo, e i processi di giustificazione epistemica delle rispettive teorie fondamentali della conoscenza.
Al razionalismo, che applica un metodo logico allʼindagine della conoscenza – concepita come provvista di idee innate (e, in ciò, non contingenti), di contenuti chiari e semplici cui lʼesprit può attingere in chiarezza e evidenza – si oppone la visione empirista. Anti-innatista (gli sottosta una teoria della mente intesa come tabula rasa), riconosce nellʼesperienza la fonte di ogni conoscenza: la mente umana non ha contenuti ma capacità di sviluppare contenuti su cui formare una conoscenza.
Così, mentre il razionalismo si profonde nella ricerca di una fondazione evidente e certa (tentando di far derivare la totalità intera delle proprie dottrine per via apodittica da un principio unico), lʼempirismo, se da una parte confuta la presenza di contenuti innati nella mente umana in genere, dall'altra resta in profonda difficoltà in merito allʼidealizzazione (matematica e ontologica, per esempio) che di fatto resiste alla riduzione a pura esperienza, fino allʼideismo berkleyano dellʼesse est percipi (l'essere corrisponde allʼessere suscettibile di percezione) e allo scetticismo (un solo nome: David Hume) che, da parte sua, castiga impietosamente le speranze in una filosofia metafisica e con essa, anche quelle riposte nella possibilità di una conoscenza compiuta.
Questo è il turbolento contesto allʼinterno del quale si intersecano le tre grandi linee teorico-problematiche che Kant tematizza nella sua riflessione (il rapporto tra filosofia e religione, il rapporto tra filosofia e scienza, il problema della metafisica) a partire dalla dimensione gnoseologico–epistemologica.
[1] Kritik / der / reinen Vernunft / von / Immanuel Kant, / Professor in Königsberg, / der Königl. Academie der Wissenschaften in Berlin / Mitglied. / Zweite hin und wieder verbesserte Auflage. / Riga, / bei Johann Friedrich Hartknoch / 1787
[2] Kant, Immanuel, Kritik der reinen Vernunft, II ed. 1787, B xvi-xvii (trad. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Critica della Ragion Pura, Roma-Bari 2007, pp. 17-18)
[3] Così lo stesso Kant definisce la prima edizione della Critica della ragion pura (cfr. Kant, Immanuel, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können – trad. it. di Pantaleo Carabellese, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, Roma-Bari 2009, pg. 15)
[4] cfr. Galilei, Galileo, Lettera a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana (1615), in Galileo Galilei: Lettere, a cura di Ferdinando Flora Torino, Giulio Einaudi editore, 1978, p.134 «ma torniamo a considerare, quanto nelle conclusioni naturali si devono stimar le dimostrazioni necessarie e le sensate esperienze»
[5] Newton, Isaac, Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica, I ed. 1687
[6] Kant stesso la dipingerà ridotta a «campo di battaglia di questi infiniti conflitti» (Kant, Immanuel, Kritik der reinen Vernunft, I ed. 1781, A 8). Eppure la presunzione in merito alle capacità scientifiche della filosofia metafisica non scomparirà: di eccezionale interesse Edmund Husserl che nel 1911 pubblica Philosophie als strenge wissenschaft, in «Logos», 1, 1911 (trad. it. a cura di F. Costa La filosofia come scienza rigorosa, Paravia, Torino 1958)
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