Il castello di carte di Viktor Janukovyč
Le proteste di piazza in Ucraina e l’indebolimento del presidente
Dall’inizio di dicembre l’Ucraina e la sua capitale Kiev sono teatro di disordini e proteste che hanno attratto l’attenzione dell’intera comunità internazionale. I manifestanti chiedono a gran voce le dimissioni del presidente Viktor Janukovyč, reo di non aver firmato l’accordo di associazione e libero scambio con l’Unione Europea. L’assedio dei principali edifici pubblici – la Presidenza della Repubblica, la Banca Centrale e il Palazzo del Governo – testimonia la delusione e il disappunto di molti ucraini che confidavano nella buona riuscita del summit di Vilnius, un vertice che doveva servire a rinsaldare i rapporti tra l’Ue e i 6 partner dell’Est europeo (Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia e, appunto, Ucraina).
La controproposta avanzata da Janukovyč di creare una commissione tripartita tra Ucraina, Ue e Russia per risolvere le dispute commerciali pendenti contrasta apertamente con le dichiarazioni del Presidente ucraino nelle quali si sottolineava il desiderio di una maggiore integrazione con l’Europa.
L’atteggiamento ambiguo del capo di Stato è lo specchio di una società e di una nazione nettamente divise e assimilate in due blocchi contrapposti che rievocano le vecchie logiche della Guerra Fredda. Se si esclude Kiev, le altre due maggiori città luogo di sommosse popolari sono Donetsk e Lviv (l’italiana Leopoli), entrambe simbolo della cesura appena delineata: in una città le proteste contro il governo sono viste come una minaccia alla nazione, nell’altra vengono dipinte come lotta per l’autodifesa. A Donetsk, città industriale al confine est nonché quartier generale di Janukovyč, i legami linguistici, culturali e soprattutto economici con la Russia sono molto forti: la parte orientale del paese è stata per lunghi secoli sotto il dominio dell’impero sovietico, molte persone parlano il russo come prima lingua e Mosca è stata sempre vista come una fonte di stabilità e prosperità. L’Ucraina occidentale invece, di cui Lviv con la sua architettura barocca e neoclassica è l’emblema, ha fatto parte del territorio della monarchia asburgica sino alla dissoluzione dell’impero austro-ungarico avvenuta alla fine del primo conflitto mondiale, ed ha storicamente associato ai russi l’idea di minaccia e di oppressione costante, in particolar modo durante il periodo di assoggettamento all’Unione sovietica.
La politica ucraina è stata a lungo rappresentata, e lo è tuttora, da due fazioni figlie di una frattura mai sanata, da due schieramenti che hanno determinato l’esito delle recenti elezioni del 2004 e del 2010, nelle quali l’attuale presidente ha ottenuto il maggior numero di preferenze nelle regioni meridionali ed orientali del paese.
Non è certo questa la prima volta che Janukovyč si colloca dalla parte sbagliata della barricata. Durante la Rivoluzione arancione del 2004 i numerosi trascorsi nella Verchovna Rada – il Parlamento ucraino – e il periodo in cui ha ricoperto la carica di primo ministro di un governo pro-europeo nel 2006-2007, l’attuale presidente ha subito feroci critiche sia dall’opposizione che dalla stampa. Nonostante ciò, egli si è sempre mostrato orgoglioso delle riforme “occidentali” attuate durante i suoi anni al potere dichiarando inoltre che, in termini di democrazia, il suo paese era molto avanti rispetto alla Russia, e ciò veniva apprezzato in Europa e in molti altri paesi.
Per anni Janukovyč si è battuto in prima persona per rendere possibile la tanto attesa integrazione col vecchio continente, partecipando a numerosi forum e meeting con i leader europei e stimolando nei sondaggi un forte sentimento europeista. Non bisogna stupirsi, quindi, se il popolo ucraino si senta deluso e tradito dal proprio leader ed abbia espresso tutto il proprio malcontento per un governo estremamente orientato ad est. Un inaspettato ritorno al passato, questo, che Janukovyč non avrebbe mai voluto rievocare.
È dunque corretto paragonare le proteste di questi giorni alla ormai celebre Rivoluzione arancione del 2004? Vi è sicuramente un obiettivo in comune – Janukovyč – ma le basi di fondo sono differenti. Nove anni fa al centro del ciclone vi era la politica interna, ed in particolare i brogli elettorali che portarono l’attuale presidente ad ottenere, seppur per breve tempo, la carica di primo ministro. Oggi il terreno di scontro è rappresentato dalla politica estera e dal ruolo più o meno indipendente che questo giovane Stato dell’Europa orientale vuole avere in campo internazionale. Nel 2004 Janukovyč minacciava di utilizzare la forza contro i dimostranti ma tra i suoi sostenitori prevalse la linea pacifista. Dalla vittoria alle elezioni nel 2010 egli ha cercato in tutti i modi di eliminare ogni potenziale minaccia alla sua leadership, contribuendo all’arresto di Julija Tymošenko, iron lady ucraina e sua potenziale rivale, e investendo un’ingente quantità di denaro nell’addestramento ed equipaggiamento antisommossa dei reparti paramilitari, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti dopo le violenze di piazza di questi giorni.
Esattamente un anno fa, come riporta il Washington Post, l’allora Segretario di Stato americano Hillary Clinton denunciava il tentativo orchestrato da Mosca di “risovietizzazione” l’area delle 15 repubbliche un tempo parte dell’Urss. A distanza di dodici mesi assistiamo ad una riproposizione del medesimo scenario, con due importanti attori che si oppongono al disegno del Cremlino. Il primo è l’Europa, che spinge per rendere Kiev un nuovo alleato commerciale e strategico libero dai diktat di Putin. I secondi sono gli oligarchi ucraini che, al momento, non hanno appoggiato apertamente Viktor Janukovyč – lo testimonia il fatto che, per la prima volta, le tv in loro possesso hanno mostrato le immagini della protesta – e che potrebbero orientarsi verso un candidato maggiormente “filoeuropeo” alle prossime elezioni del 2016.
Benché negli ultimi giorni vi siano stati dei segnali di distensione, con la sospensione del sindaco di Kiev e del vice presidente del Consiglio nazionale di Sicurezza e Difesa per «aver violato i diritti costituzionali dei cittadini», Janukovyč mostra di non aver ancora la piena situazione in pugno, complice anche un grossolano errore di valutazione: la popolazione che lo osteggia è infatti ben diversa dai “rivoluzionari arancioni” del 2004.
Le nuove generazioni hanno un vago ricordo dell’esperienza sovietica, parlano inglese ed usano il computer. La loro concezione di cosa sia giusto e sbagliato, i loro valori e le loro speranze sono simili o identici a quelli dei loro omologhi in Europa, Stati Uniti e in altri Stati democratici. Nonostante le paventate ritorsioni di Mosca, sintetizzabili nell’adozione di misure protezioniste da parte della Comunità economica eurasiatica come risposta all’eventuale firma dell’ormai noto accordo di associazione con l’Ue, permane tra la popolazione il desiderio di un’Ucraina europea nella quale prevalga lo stato di diritto e dove la libertà individuale e la sicurezza personale siano protette da burocrati e poliziotti non corrotti. Purtroppo, nell’Ucraina del 2013, questi principi sono ancora degli ideali da perseguire, non un’esistenza ma un valore, non un essere ma un dovere.
John Locke, uno dei fondatori dello Stato moderno, democratico e liberale, era solito affermare: «Contro la tirannide» – cioè contro l'esercizio del potere oltre il diritto – «è sempre e comunque giusto ribellarsi». Un insegnamento ancora tremendamente valido tre secoli dopo la sua enunciazione.
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