Il bisogno di una guida
La decadenza di Berlusconi e del Pdl. Un partito smarrito preda degli spettri del passato
Dopo cinquantanove notti insonni spese a rimirare il soffitto, è comprensibile che la lucidità possa venire meno, almeno per un istante. Così, d’improvviso, il Cavaliere ha dichiarato inequivocabilmente conclusa l’esperienza delle larghe intese, rivolgendo ai ministri del proprio partito un perentorio invito alle dimissioni, certo della loro fedeltà incondizionata. Noncurante dei segnali incoraggianti nei confronti dell’esecutivo che provenivano dai mercati e dall’Europa, si era risolto per l’ennesima incosciente prova di forza, nell’insensato tentativo di far coincidere le sorti del singolo con quelle del Paese. Il pretesto ad hoc c’era già: l’aumento dell’IVA di un punto, peraltro reso inevitabile dalle sue stesse pretese. Un pretesto misero e grossolano, a cui qualcuno avrebbe potuto credere ancora, tuttavia. E pareva che il Cavaliere avrebbe vinto per l’ennesima volta la propria battaglia alla luce del sole. Invece, l’aprosdòketon, l’inatteso, il primo di una lunga serie. In una manciata di ore si è assistito a quello che ormai non si credeva possibile. Dapprima incerte e in sordina, poi sempre più fragorose e determinate, si sono levate le voci di dissenso dall’interno del Popolo della Libertà. Spes ultima dea.
Come reazione uguale e contraria alla presa di posizione unilaterale di Berlusconi e dei falchi, si è aperta la frattura all’interno del Popolo della Libertà. Non è chiaro se sia stata quella responsabilità invocata da tempo immemore oppure un esasperato desiderio mal represso di emancipazione a far cambiare idea ai moderati del partito, fino ad ora amalgamati forzosamente insieme agli altri orientamenti più radicali. La nitida immagine di coesione, da sempre ostentata in ovvia opposizione rispetto a quella di un Partito democratico storicamente lacerato da inconcludenti lotte intestine, ad un tratto si è obnubilata. Si è scoperto il difetto più nascosto di un meccanismo verticistico che sembrava perfetto e invulnerabile, adesso incrinato dal dissenso che rischia di rompere gli equilibri e portare alla scissione. Forse.
Non è altro che un gesto dettato dalla disperazione e dal sentore di una débâcle imminente, unitamente ad una buona dose di superficialità, quello che ha condotto all’ennesimo colpo di scena della vicenda. Mentre si cerca di fare rapidamente luce sui numeri in Senato, arrovellandosi nella conta dei lealisti e dei dissidenti, basta poco per cambiare idea. Bastano dei fogli scarabocchiati e pieni di firme, mostrati con nonchalance agli obbiettivi dei fotografi in Senato, insieme a qualche voce di corridoio piuttosto insistente. «Non senza interno travaglio», Berlusconi annuncia di appoggiare la fiducia al governo. Sacrificando con poche parole i rimasugli di credibilità di cui ancora godeva tra gli elettori moderati, che da sempre ha preteso di difendere e rappresentare. Umiliato dal suo stesso partito, è costretto a capitolare. A rassegnarsi nell’accettare l’idea che la sua sorte non debba forzatamente corrispondere a quella della nazione. E così si trova a soccombere dinanzi ai sorrisi di compiacimento e agli applausi di scherno, mentre intorno quanti pretendono di avere ancora fiducia in lui si ingegnano per trovare una motivazione plausibile in cui ricondurre la logica che ha condotto gli ultimi eventi.
Se questa sia la fine – anche piuttosto ingloriosa – di Berlusconi e del suo corso politico, è ancora presto per dirlo. Il tempo, infatti, può lenire ogni ferita, e non è da escludere che anche questa volta il Cavaliere riesca a ricomporre lo strappo, modellando nuovi equilibri interni. Magari accogliendo l’istanza di un partito più moderato, più nostalgico e trasversale. A tal proposito, è da considerare come nessun ministro o dissidente abbia apertamente criticato il leader, bensì si siano contestate le decisioni dei cattivi consiglieri, di cui adesso in molti chiedono con forza la testa. I clamori della scissione imminente si sono placati, e ha preso avvio la contrattazione, delicata e discreta. La parola chiave è una sola: rinnovamento. Che poi significa ricambio generazionale, soprattutto. La generazione dei quarantenni, sempre soffocata dall’autorità dei vertici, reclama ora la propria parte. Il momento, infatti, è propizio. In poche settimane, dopo che la Giunta del Senato si è espressa a favore della decadenza di Berlusconi, si susseguiranno l’esame della decisione a Palazzo Madama, poi l’interdizione, e gli arresti domiciliari oppure i servizi sociali. Per questo ci sarà bisogno di individuare un nuovo leader, checché tutti assicurino che questo rimarrà il Cavaliere. E il nuovo di certo non vorrà più essere la longa manus di Berlusconi.
Con il voto di fiducia, comunque, il governo ha ottenuto nuova stabilità. Come conseguenza collaterale, ha anche ridotto la possibilità che il Popolo della Libertà metta di nuovo in discussione l’alleanza delle larghe intese, dacché la coerenza è ora essenziale al partito per compensare l’andamento ondulatorio delle posizioni di queste ultime settimane e tornare a guadagnare consensi. Il clima di rinnovata sicurezza, seppur sempre soggetta a quel minimo di incertezza che connota la nostra politica, ha restituito fiducia all’Europa e ai mercati. Per questa ragione non bisogna sprecare il tempo a disposizione. Perché il voto di fiducia di mercoledì scorso non è un’assicurazione assoluta. È cogente porre le basi per le riforme prioritarie, sempre le stesse, infinitamente procrastinate per un motivo o per l’altro. È fondamentale agire subito, “fare le cose”, come sostiene Renzi e come adesso ha preso a dire anche Letta, forte del risultato ottenuto dal proprio esecutivo transitato attraverso il voto di fiducia. Anche nel Partito democratico, probabilmente, si è compreso che la cosa più utile è prendere decisioni concrete, piuttosto che ostacolarsi vicendevolmente. Almeno per adesso. Per il tempo necessario a porre in essere misure tali da incoraggiare quei timidi segnali di ripresa che si profilano all’orizzonte. Intanto, si respira un po’ di nostalgia per i tempi andati, e nel mare magnum della politica si intravede da lontano qualche balena bianca.
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