Il Baro - IV
«Cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis»
D GIVNO SILANO L LICINIO MVRENA CONSVLIBUS (62 a.C. 5 Gennaio, all’alba)
NONIS IANVARIIS ORIENTE LUCE
La penombra svanì lentamente nel mattino, ma il sorriso di Catilina rimase. Quando vide il profilo dei monti tingersi della caligine argentata che preannuncia l’arrivo del sole, Catilina aprì le dita e lasciò che i dadi cadessero ancora sul tavolo. Pensò un numero qualsiasi, ma non guardò il risultato. Si alzò in piedi e uscì dalla tenda per godersi l’alba invernale.
Dopo la fuga da Roma aveva dato filo da torcere ai mastini del Senato che gli davano la caccia, sguinzagliati in tutta Italia. Ma Catilina scivolava inafferrabile lungo l’Appennino, lambiva le Gallie, appariva e scompariva in Etruria. Saliva e scendeva le valli scoscese, eludendo la vigilanza dei pretori, scampando alle imboscate del Senato. Aveva raccolto uomini a piene mani, come il pescatore riempie le sue reti. Bastavano per due legioni complete. Aveva respinto fermamente chi lo esortava a chiamare a sé gli schiavi e aveva cacciato quelli che l’avevano raggiunto. La causa dei cittadini liberi non poteva in alcun modo collimare con quella degli schiavi. Catilina era tranquillo; Cicerone o non Cicerone, c’era chi l’avrebbe coperto e protetto, c’era chi, molto in alto, avrebbe vegliato giorno e notte su di lui. Ma quando aveva saputo delle None di Dicembre un’ombra d’incertezza gli era calata sul volto. I suoi numi tutelari erano mancati; la Fortuna gli aveva voltato le spalle.
M TVLLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSVLIBUS (63 a.C. 5 Dicembre, ore 15) NONIS DECEMBRIS HORA DECIMA
C’era nel carcere Mamertino un luogo particolare, da sempre detto Tulliano. Vi si accedeva calandosi lungo una scala tortuosa, che scendeva giù nelle profondità della terra sotto le radici del Campidoglio. Pareti e archi di pietra la chiudevano da ogni lato, come se dal Tulliano si potesse uscire con le proprio gambe. Da una polla d’acqua che sgorgava sotto il pavimento saliva un’umidità penetrante che bagnava fin dentro le ossa. Il gorgoglio riecheggiava nel dedalo di cunicoli del carcere e assomigliava al rantolo di un morente. A chi stava nel Tulliano, sembrava di assistere ad un’agonia.
I pretori accompagnarono laggiù i condannati, dove li aspettava il boia. C’era forse un’idea in fondo a quell’antica usanza di nascondere il male, il primordiale sospetto che talvolta uno spirito più arguto o più ingenuo possa vederci qualcosa d’altro. E quanta pietà chiama l’orrore della morte, quanto compianto, anche quando colpisce chi ha violato ogni legge umana e divina. Lo squallore, il buio e il fetore che venivano in mente ai cittadini romani quando pensavano al Tulliano e a ciò che là dentro si consumava, rendeva impossibile credere che in una simile morte ci potesse essere anche una sola stilla di dignità.
Lentulo fu il primo ad arrivare nel Tulliano. Ai tempi del minore dei Gracchi, un suo avo aveva rischiato la vita per la patria. Era nelle fila del console Lucio Opimio, il più acerrimo nemico di Gracco, e fu ferito. Lucio Opimio aveva raso al suolo Fregelle e sterminato migliaia di cittadini romani. Ma per questo gli era stato reso grazie infinite volte e l’avo di Lentulo era stato additato alle generazioni successive come l’esempio del cittadino onesto e coraggioso. Lentulo sapeva che l’unica sua colpa era stare dalla parte sbagliata. Gracco aveva impugnato la legge in difesa dei miserabili e per questo i Padri e i potenti lo chiamavano traditore della patria e corruttore eterno dei costumi; i suoi nemici erano eroi. Cicerone aveva impugnato la legge in difesa dei magnati e per questo i Padri e i potenti officiavano in suo onore una cerimonia di ringraziamento agli dei. I suoi nemici erano nemici della patria: ma allora cos’era la patria? Cartagine, Numanzia, Atene e Gerusalemme erano per Roma come il muro di cinta del cortile di casa; ma nessuno di questi luoghi potevano chiamarlo patria. Per secoli i devoti contadini avevano sarchiato le terre d’Italia con le povere zappe e avevano nutrito Roma; i devoti contadini avevano preso le armi per lei e le avevano donato prima l’Italia, poi il mondo. Adesso i loro campi erano divorati dai latifondi della stirpe dei loro generali, erano lavorati senza cura da una schiatta di schiavi; potevano chiamare patria quei campi sottratti dall’arbitrio degli avidi? E Roma era l’emporio del mondo, dove si vendeva e si comprava ogni cosa, compresa la giustizia. Non potevano chiamarla casa. E la Fortuna, che tanta parte aveva nella vita di Roma, portava al cielo e mandava in rovina con la stessa sorridente ingenuità. Ai tempi d’oro e di sangue di Silla molti dei congiurati erano stati grandissimi per ricchezza; poi divennero grandissimi per sperpero. Ora soffocavano di debiti e le dita del boia quasi ne stringevano il collo.
D GIVNO SILANO L LICINIO MVRENA CONSVLIBUS (62 a.C. 5 Gennaio, all’alba)
NONIS IANVARIIS ORIENTE LVCE
Dopo le None di Dicembre si erano dileguati in molti, uomini spregevoli che si erano uniti a lui più per comodo che per vera convinzione. Catilina avrebbe voluto ripiegare in Transalpina attraverso segrete scorciatoie da imboccare sui monti di Pistoria; ma il pretore Quinto Cecilio Metello Celere gli sbarrava la strada dal Piceno, forte di tre legioni. Il console Antonio, suo vecchio camerata, imperversava in Etruria con l’esercito consolare, pronto a coglierlo di sorpresa non appena si fosse distratto. Catilina ormai s’era fatto una ragione dello stato delle cose. Da Roma non sarebbero più giunte buone notizie. Chi stava sopra di lui era probabilmente migrato verso più miti consigli; quel corpo vigoroso che ancora c’era nella Repubblica avrebbe dovuto fare a meno del suo capo. Sarebbe rimasto a guidarla quello debole e decapitato; tanto peggio per Roma. Tanto meglio per lui. La morte leva ogni affanno a chi la incontra. Cesare glielo ripeteva spesso.
Catilina aveva fatto piantare le tende dove il Reno accoglieva le acque del Maresca. C’era una spianata che gli avrebbe lasciato spiegare le sue legioni, ma avrebbe impedito a quelle di Antonio di accerchiarlo. In realtà erano stati i nemici ad averlo costretto in quella strettoia; alle spalle di Catilina c’era una scarpata. Lui lo sapeva, ma non aveva più importanza. Tirava un vento più freddo dell’inverno nordico. Manlio, suo braccio destro, lo raggiunse là fuori sull’erba coperta di brina.
«Cosa siamo venuti a cercare qui, Lucio?» Catilina rispose solo dopo una lunga attesa, incredulo di sentirsi così nell’intimo toccato da quanto stava per dire.
«Un campo di battaglia». Manlio sorrise. Rivide come in sogno il campo di Porta Collina, quando Silla vinse i seguaci di Mario, sotto il consolato di Carbone e Mario il Giovane. Fu una vittoria strepitosa, l’inizio dei tempi del sangue e dell’oro; tempi ormai lontanissimi. Allora Marco Licinio Crasso guidò l’ala destra dello schieramento sillano e li condusse alla vittoria.
«Non ci resta altro che questo, Manlio. Chiama Furio, il fiesolano. Sveglia le legioni».
Catilina rimase solo. Sentiva i calzari di Manlio che sbriciolavano la brina sul terreno indurito dall’inverno. Ripensò al rumore che facevano quelli di Marco Tullio Cicerone, il giorno lontano in cui l’aveva conosciuto. Da allora non era più riuscito a vincere al gioco. Aveva perso la sua bravura nella morra, anche perché aveva scoperto che tagliare le dita era meglio che indovinarle. Ma si era affezionato ai dadi, per quanto non ricambiato. Da allora aveva avuto in odio le regole. A cosa servivano, se portavano alla sconfitta? E ogni volta che s’era rassegnato a seguirle aveva perduto di nuovo. Per di più i suoi nemici, i cosiddetti tutori della legge, s’arrogavano il diritto di infrangerla. Così era stato per Cicerone vent’anni prima; così ancora per Cicerone le None di Dicembre. Allora i suoi camerati l’avevano messo a nudo e gli avevano scagliato contro i suoi dadi truccati. Un giorno o l’altro, Catilina lo sapeva, qualcuno avrebbe di nuovo rivolto contro Cicerone i suoi sporchi trucchi. E allora, come vent’anni prima, a Cicerone sarebbe toccato scappare con la coda tra le gambe.
Catilina parlò ai suoi soldati. Ovunque volessero andare, c’era da aprirsi un varco con le spade. Ogni dubbio, ogni incertezza, ogni timore sarebbe stato dissolto dall’inattaccabile purezza delle armi. In un mondo piagato dalla menzogna e dalla finzione, l’unica sincerità, l’unica chiarezza era quella della lama. La lama non si interpreta, non si interroga, non viene messa ai voti; non parla, non rivela, non denuncia. La lama non sa il tuo nome né il tuo capitale; non promette e non tradisce. Avrebbero avuto davanti schiere di miserabili che combattevano per lo strapotere di pochi; loro si sarebbero battuti per la patria, la libertà e la giustizia. Memori dell’antico valore, in un modo o nell’altro, avrebbero strappato una vittoria al nemico.
L’esercito nemico comparve in fondo alla spianata. Catilina, schierato al centro tra i suoi, distinse in mezzo ai legionari il legato Marco Petreio, che doveva essere il brillante autore dell’accerchiamento. Di Antonio non c’era traccia. La scusa della gotta era sempre pronta, quando il vecchio camerata si vergognava di quello che doveva fare. Catilina fece portare in prima fila l’aquila d’argento che da tempo serbava come una reliquia; sotto di essa Silla aveva schiantato i Cimbri ai Campi Raudii.
Si venne allo scontro. I legionari si rovesciarono sui ribelli come un’ordinata valanga di ferro; ma Catilina e i suoi, che dovevano piegarsi come fuscelli, resistettero come grandi alberi antichi. Petreio ne fu stupefatto, ma vacillò per un momento soltanto. «Coorte pretoria al centro della battaglia. Tagliamo la testa al serpente». A destra cadde Manlio, a sinistra morì il Fiesolano. Al centro Catilina combatteva e soccorreva, giustiziava e salvava. Si immerse in una nebbia di sangue e lampi d’acciaio. Quando si trovò solo in mezzo ai nemici, sorrise un’ultima volta: sarebbe morto dov’era vissuto tutta la vita.
Poco dopo le lame tacevano. Allora i legionari vollero guardare in faccia i barbari che avevano sfidato Roma. Si stupirono di trovare nei loro volti le sembianze di un amico, di un parente, di un vecchio camerata. Non fu facile lavare il sangue nell’acqua del fiume. Catilina lo trovarono sepolto tra i cadaveri. Ancora un filo d’anima lo teneva in vita. Quando morì, gli rimase sul viso quella ferocia che aveva avuto da vivo. Molti l’avrebbero chiamata fierezza, ma se lo tennero per sé.
M TVLLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSVLIBUS (63 a.C. 5 Dicembre, ore 16)
NONIS DECEMBRIS HORA VNDECIMA
Cicerone montò sui Rostri, nel Foro, e pregò forte gli dei che gli concedessero ancora tre sillabe; poi sarebbe rimasto muto volentieri, anche per tutta la vita. Roma lo guardava: ogni piazza, ogni via, ogni portico brulicava di uomini e donne, senatori e plebei. Appoggiò le mani sulla balaustra e gli sembrò di sentirle viscide. Prese un lungo respiro e si sporse per parlare.
«Vissero».
Roma riecheggiò del boato di gioia dei suoi cittadini. Ora che i congiurati erano morti, loro erano salvi. Quel giorno la morte sembrò il più bel dono degli dei. Cicerone lasciò i Rostri con la consapevolezza che presto avrebbero cambiato idea. D’un tratto gli sovvenne il pensiero di Catilina, se lo immaginò morto, e sentì un gran senso di vuoto.
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