Il Baro - I
In tanta tamque corrupta civitate
D IVNIO SILANO L LICINIO MVRENA CONSVLIBUS (62 a.C. 5 Gennaio – tarda notte)
NONIS IANVARIIS TERTIA VIGILIA
I dadi rotolavano. Correvano sul tavolo e si fermavano, schioccando, contro una scodella vuota. Li riprese fra le dita. Sentiva i bordi netti e le facce levigate solleticargli i polpastrelli. Li agitò nel palmo della mano, indugiando per un momento; poi lasciò la presa e i dadi tornarono a rullare sul legno. Tentava d’intuire il numero scelto dal caso, ma invano. Catilina non l’indovinava mai. Il sonno tardava quella notte; forse non sarebbe giunto che dopo l’alba del giorno dopo. Forse, allora, sarebbe venuto per restare. Ma non ancora. Così Catilina, solo nella sua tenda, scacciava il tempo giocando ai dadi.
Un alito di vento entrò sibilando, portando gli odori dell’inverno. Catilina rabbrividì sotto l’armatura già indossata. Il respiro del cielo trasse a sé la debole luce della lampada, invitando l’oscurità ad entrare. Catilina stava per gettare di nuovo i dadi, ma si trattenne. Non era un tipo, lui, con cui giocare ai dadi al buio. La penombra si annerì del suo sorridere improvviso.
M TVLLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSVLIBUS (63 a.C. 8 Novembre – ore 10)
VI ANTE IDVS NOVEMBRES HORA QVINTA
«E tuttavia costui vive».
Il tempio vibrò della voce del console. Levata in alto come pronta a calare, spada di boia, su un collo colpevole, la sua mano fendeva l’aria con la grazia innata degli uccelli in volo. In quelle geometrie aeree gli auguri avrebbero scorto presagi nefasti per colui che il potente indice del console puntava. I padri dei Quiriti ascoltavano le alate parole del magistrato, tremanti di rabbia e paura di fronte all’uomo tanto esecrato. Questo, dal canto suo, immerso nel violento silenzio degli astanti, solo come un picco in mezzo alla pianura, sentiva le sue dita, sotto la candida veste listata di porpora, stringersi intorno ad un coltello fatale. Ma si tormentava di quel dubbio che avrebbe salvato il superbo Creso, se fosse stato meno ebbro di doppi oracoli, alla volta della battaglia. Si tormentava, più non sapendo se ciò che del coltello lambiva era il manico o la lama.
«E noi, i potenti, riteniamo d’aver fatto abbastanza per la patria, se riusciamo a sottrarci all’odio e ai pugnali di costui». Scacciando le incertezze che incrinavano la dignità del suo volto, l’accusato rimestava, nella mente, i torbidi propositi che il console andava distillando lentamente, uno ad uno. Dardeggiava di sguardi penetranti i vecchi padri, grattando via dai loro volti incartapecoriti l’insopportabile patina del tragico e del fasullo che il tempo, il nome e l’autorità vi avevano calato sopra.
«A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare, per ordine del console; su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno».
Cicerone continuava a dar fiato alla sua bocca. La sua foga era tanto ridicola che Catilina s’aspettava di vederlo, da un momento all’altro, travolto dai conati, e piegato a vomitare tutto il fiele che aveva in corpo. Il Senato avrebbe visto da che brodo velenoso salivano quelle epiche parole, ma Catilina sospettava che non l’avrebbero biasimato. Era un pasto che ogni giorno imbandiva le loro mense ricchissime. Il console continuava il suo splendido discorso, descrivendo misfatti d’ogni genere, appellandosi alle forze dello Stato, invocando l’intelligenza e il buonsenso, la spietatezza e il rigore. A sentire lui, sembrava che Catilina fosse l’oscura origine di ogni male. Si chiedeva quando l’avrebbe accusato di aver scatenato le Guerre Puniche. Il console pretendeva di sapere tutto di lui. Sapeva chi era e da dove veniva, ma questo lo sapevano tutti; sapeva dei crimini commessi sotto Silla; sapeva che aveva dato a suo figlio una morte futile e ignobile. Ma anche questo lo sapevano tutti: forse lo temevano per niente? Cicerone sapeva di ogni sua trama, di ogni suo accordo, di ogni suo movimento. Catilina non sapeva se sarebbe riuscito a sopportare fino alla fine tanta indignata insolenza. Avrebbe voluto sgonfiare quel petto tronfio con la punta della spada, come si farebbe di un otre con uno spillo. Il riso gli saliva ai denti continuamente e con cura Catilina lo ricacciava giù per la gola: davvero credevano i padri che gl’importasse l’accusa di uno spazzapollai?
CN PAPIRIO CARBONE C MARIO IVVENE CONSVLIBUS (82 a.C. 21 Marzo circa – mezzogiorno)
CIRCA X ANTE KALENDAS APRILES MERIDIE
Catilina trascinò Gratidiano fin sulla tomba del console Catulo e lo sbatté sulla lapide. Il figlio di Catulo, circondato da una schiera di seguaci, lo incitava, invocando vendetta per il padre. Catilina sguainò la spada e la mostrò ai presenti, chiamandone le grida e l’entusiasmo. «Allora, Gratidiano, ti compiacevi del maiale che la plebe ti ammazzò come per i Compitalia, come fossi un dio?» Gratidiano taceva, il volto devastato dal terrore. «Allora, Gratidiano, ti compiacevi delle libagioni che la plebe ti levò, come fossi un dio, secondo le antiche usanze?» Il clamore della folla cresceva. «Sì, Gratidiano, ti compiacevi; ora, secondo le antiche usanze, anch’io ammazzerò un maiale, e offrirò del vino». Catilina abbatté la lama su Gratidiano. Il sangue gli inondò il volto e la veste. Gratidiano lo fissava selvaggiamente, tanto stravolto dal dolore e dall’adrenalina che non sapeva più se gridare o boccheggiare. Catilina gli tolse la vita un pezzo alla volta. «Offro questa carne di maiale agli dei, che proteggano il povero console che tu e la tua famiglia di ribelli avete spinto alla morte». Trascinò il tronco d’uomo, ancora vivo e palpitante, intorno alla lapide di Catulo. Disegnò un cerchio di sangue sul terreno, come quello che i pontefici tracciano nel Campo Marzio per la purificazione della città. «Offro questo vino ai nobili lignaggi di cui il console fu primo virgulto, tagliato come il fiore dall’aratro della plebe, Gratidiano, tu e Mario, e tutti i vostri gregari». Ebbro del sangue e delle altissime grida della folla, cacciò le dita nelle orbite di Gratidiano e gli cavò gli occhi. «Trova ora i tuoi falsari, Gratidiano: cerca ora le monete cattive». Sollevò ancora la spada e gli mozzò la testa. La prese tra le mani irrorate di sangue e corse giù dal Gianicolo fino al Foro, dove la gettò ai piedi di Silla. Il dittatore scoccò uno sguardo compiaciuto al già morto trofeo e si rivolse a Catilina sorridendo. «Gli dei ti avranno in gloria, Lucio Sergio, per questo tuo sacrificio. Oggi hai reso un grande servizio all’Urbe». Catilina alzò il capo, fiero del gesto magnifico, e cercò tutt’intorno gli occhi dei padri dei Quiriti, grati a Silla per aver immerso lui le mani nel sangue che loro avevano chiesto. In mezzo a loro trovò lo sguardo di un giovane di Arpino, che aveva servito con lui sotto Strabone nel Piceno, durante la Guerra Sociale; a Catilina si spense il sorriso sulle labbra, quando si accorse di non capire se era vero sdegno quello nascosto sotto il velo di terrore che gli copriva il volto.
M TVLLIO CICERONE C ANTONIO HIBRIDA CONSVLIBUS (63 a.C. 1 Giugno circa – tarda sera)
CIRCA KALENDAS IVNIAS SECVNDA VIGILIA
Per la terza volta Catilina si candidava al consolato. La prima fu estromesso, col pretesto di molti processi pendenti; la seconda l’aveva vinto, con la truffa e l’inganno, l’odioso arrivista arpinate; ora era tempo di far sua la scorta dei littori. Radunò ancora una volta gli accoliti che lo seguivano con volubile entusiasmo da lunghi anni o brevi giorni. Patrizi decaduti, rapinatori sillani, accaparratori falliti, faccendieri corrotti, avidi doppi e audaci. C’erano Corneli, nipoti di Silla, un discendente di Porcio Leca tribuno, rivali di Cicerone e suoi vecchi compagni di scuola, l’ultimo dei Calpurni, senatori espunti dallo stilo dei censori. Uomini in chiaroscuro, gli occhi segnati dalla decadenza, da un’ombra più lunga del tempo vissuto, più scura delle molte primavere viste sfiorire. E lui, Catilina, ombra fra le ombre. Si ritirarono nei luoghi più nascosti del palazzo di Catilina, dove forse aleggiavano vigili e taciti i Penati della gente Sergia, ammutoliti dall’inverno della casata, o vergognosi delle pareti stillanti sangue. Catilina impose il silenzio e levò la voce nel vuoto. Le fiaccole tristi che ardevano ai lati non rischiaravano la sala, l’adombravano; erano forse il nocciolo splendente di orbite oscure, più che lanterne di fuoco. Lo Stato, diceva Catilina, era vecchio decrepito e corrotto. L’abitavano schiere di avidi carrieristi sprovvisti di un briciolo di onore e di giustizia, tanto incapaci di sostenere il peso della libertà che preferivano lasciarla sprofondare sottoterra. Facevano terra dov’era il mare e mare dov’era la terra, ma erano tanto vergognosamente ricchi che nemmeno rovesciando la natura riuscivano ad esaurire il loro denaro. E loro, al contrario, erano costretti alla miseria più nera, costretti a percorrere vie traverse sudice e maledette per raggiungere la libertà. Loro pativano la sconfitta di un’idea, di un progetto politico, quello di Silla, per cui avevano dato il corpo e dannato l’anima; pativano l’inevitabile sferza della Fortuna; la disonestà altrui. Ma se Catilina fosse diventato console, allora avrebbe piegato con diritto la forza dello Stato a loro favore, restaurando il giusto e naturale equilibrio. A nessuno di loro, allora, sarebbero mancati onori e ricchezze. Ovunque nei territori dello Stato e nelle province erano disseminati suoi complici e alleati; non c’era che da dire di sì. Quando la sua voce si spense, dopo aver sciolto ogni dubbio dei suoi, comparve dal nulla una donna bellissima, Sempronia, che portava una coppa degna di Attalo. Alle narici di molti giunse un odore di vino ben invecchiato, misto a un noto sentore di ferro che tuttavia non si lasciava intuire dai sensi, come se volesse rimanere segreto, e godere della forza che hanno le cose vicine e inaccessibili. Catilina fece passare la coppa da una mano all’altra, invitando ciascuno a bere il sigillo del vino. «Beviamo insieme questo vino» disse con una voce smorzata, cadenzata e lugubre «bagniamoci le labbra con questo sangue». Molti occhi si alzarono su di lui, schiariti da una punta di sorpreso orrore, col sospetto del vero. Ma Catilina si negò, chiudendo gli occhi. «Ci dovremo forse bagnare le mani nel sangue, fratelli; ma se gli dei lo vorranno, ce le puliremo nel vino».
VI ANTE IDVS NOVEMBRES SECVNDA VIGILIA (63 a.C. 9 Novembre – tarda notte)
Quando Catilina lasciò la città, lanciato sulla Cassia come un dardo avvelenato, le sue minacciose parole riecheggiavano ancora nell’aula del tempio di Giove Statore. Ma alla lunga il tonante eco di Cicerone le sopraffece, e lo spavento, nei cuori dei padri, lasciò il passo alla rabbia: già lo coprivano d’insulti da nemico dello Stato qual era. Non restavano che le armi, balenanti nel buio dei vicoli e nelle nebbie dei campi di battaglia; e l’incendio dell’Urbe, che tutti l’accusavano di voler scatenare, l’incendio che ora avrebbero rivolto contro di lui, lui l’avrebbe spento con le rovine.
(Continua)
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