Il bambino e il formicaio

‘Divagazioni e capricci’ sul significato delle parole

 

È nel discorso, attualizzato in frasi, che la lingua si forma e si configura.
A questo punto comincia il linguaggio.

ÉMILE BENVENISTE


C’è un filo sottile, remoto, quasi invisibile, che lega un qualsiasi bambino alle formiche. È un filo magico.
Rimane imbambolato per ore a osservarle. Sbucano con impeto raro dalle fessure dei mattoni leggermente sollevati del giardino, o dalle spaccature delle pareti esterne. Sono tantissime e formano una chiazza nera sul muro o per terra, e trasportano molliche, pezzettini di legno, anche molto più grandi di loro.
Rapide, si muovono in simbiosi, con un’organizzazione incredibile, come una squadra di calcio degna del miglior Barcellona: una squadra di fenomeni, con un bravissimo allenatore, una squadra che gioca a memoria.
In maniera del tutto leggera e incosciente, il bambino ha una vaga percezione di un lavoro globale, che permette di oltrepassare dei limiti oggettivi, un lavoro incredibilmente faticoso che, portato avanti insieme, culmina sempre nel superamento dell’ostacolo: le formiche alla fine ‘riescono a’, e questo riuscire ha a che vedere con un qualche fare.
Poi, per caso, ne prende due, tre e le porta con sé dentro casa, chiuse dentro un barattolo di plastica; butta qualche mollichina dentro, aspettandosi chissà quale reazione, come se avesse chiuso Baggio, Del Piero e Zidane dentro una stanza di vetro, con un pallone tra i piedi. Altro che fenomeni! Le molliche rimangono sul fondo e le formiche si muovono sulle pareti del barattolo in maniera sgraziata, casuale, priva di senso, sembrano girare a vuoto, sembrano proprio non saper giocare. Forse, con pazienza certosina, avrebbe dovuto cercare la formica che ‘allena’ quella squadra incredibile? Ma chi allena le formiche?

Se qualcuno gli chiedesse quale sia il significato del loro muoversi così e così in quel barattolo, di certo il bambino risponderebbe “nessuno”. Beh, del resto qualcosa è intuitivamente priva di senso proprio in virtù di ciò che, comunemente, un senso ce l’ha: e per lui il muoversi di quel formicaio significa.
È presto detto poi che afferrare una qualsiasi entità come dotata di significato sia assai più facile dell’effettivo spiegare perché essa ‘significhi’. Affascinante, misteriosa, opaca, la domanda su cosa sia il significato sembra dunque essere molto vicina a quella su come le formiche costruiscano ponti.

Embrionalmente, ciascuno di noi coltiva l’idea per lo più intuitiva secondo la quale immaginiamo che la parola significhi qualcosa, e che dalla composizione dei significati delle parole si generi il significato delle espressioni più complesse. Potremmo altrimenti dire che alla radice – in quella che è una reale e ben consolidata prospettiva teorica basata sul cosiddetto principio di composizionalità - vi stia l’idea secondo cui il valore della ‘parte’ determina il valore del ‘tutto’, così facendo, della parola, l’unità minima del discorso.
Insomma: come dire che una formica, grazie a delle sue peculiari caratteristiche, sia determinante per la costituzione delle proprietà del formicaio.
In realtà, i formicai, così come la maggior parte dei sistemi complessi, presentano caratteristiche complessive diverse e non riducibili a quelle delle singole formiche. Chi allena le formiche? Nessuno, ma, virtualmente, il formicaio.
La formica, di per sé, è ‘cognitivamente’ ottusa e dispone di una memoria ristretta, nonché di un’enciclopedia locale. L’intelligenza, non deducibile né generabile dalle singole formiche, sta pertanto nel formicaio, dotato di un’identità strutturale e di una memoria di livello globale (macrolivello). Il formicaio presenta delle proprietà sistemiche, emergenti: nuove. Ancor meglio, è la formica stessa a dotarsi di senso nel suo operare sistemico - interagendo con le altre all’interno del formicaio - e proprio in ciò sta l’assunzione di un ‘nuovo’ status ontologico.

È in una dimensione analoga che il linguaggio nasce, emette il suo primo gemito e respiro, configurandosi come (super)organismo vivente, dotato di un’identità strutturale di tipo regolativo-organizzativo. La parola[-formica] assume così il suo ‘status ontologico’ vero e proprio (il suo significato) solo all’interno di una realtà di livello superiore: la proposizione.
L’attenzione teorica così si sposta verso un più sofisticato gioco di relazioni complesse proprie del nostro agire enunciativo e ciò significa parlare di processi, vale a dire di intrecci di interazioni reciproche tra parti e tutto, da cui emerge, dinamicamente, una realtà di volta in volta nuova, in un perfetto equilibrio tra integrazione e autoasserzione. Sotto questa luce, la contestualità stessa assume un senso più ricco e notevolmente rafforzato.
La piccola formichina, che nei barattoli dell’infanzia si muoveva - priva di senso - sulle pareti trasparenti, ‘torna’ a essere intelligente e a saper giocare se rigettata nel formica(io), come ivi emergesse il suo ‘Io’.
E se al visto della memoria resta ancora qualche frammento ingenuo di quegli esserini così strani, impresso pur nella più semplice e candida forma del gioco, che sulle nostalgie di quel ricordo ciascuno s’interroghi, daccapo, sul significato di ciò che dice, di ciò che pensa e di ciò che fa.


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