I sommersi e i salvati

Il Pd canta vittoria e intona “Bella ciao”. Per Pdl e M5S resta il canto del cigno

Qualcuno si sente in dovere di intonare persino “Bella ciao”, dalle parti di Roma. Qualche incertezza sul ritmo, un momento di titubanza sulle parole, ma poco importa. I sostenitori di Ignazio Marino, i simpatizzanti, i fedelissimi, forse spinti da puerile incoscienza, oppure inebriati da un profumo di presunta vittoria pressoché sconosciuto, tornano a farsi coraggio. Sventolano bandiere, si lasciano andare ad applausi liberatori. Strette di mano, sorrisi. Basta poco per essere contenti. In fondo, qualche ardito c’è sempre.
L’incertezza che ha caratterizzato gli ultimi appuntamenti con le urne si conferma anche alle amministrative testé concluse. Puntualmente, appena le scientifiche ed asettiche percentuali diventano definitive, si lascia spazio alle più fantasiose speculazioni. Le stringate metafore sportive da titolo di prima pagina incoronano il Partito democratico, e trascurano la complessità dello scenario politico. Ma tra gli spumanti stappati e le lacrime versate, i mea culpa e le polemiche sussurrate, poco si comprende dei contorni di queste elezioni, in cui non è chiaro chi ha vinto e chi ha perso.

L’astensionismo, in fondo, è l’unica certezza. Di cui, tuttavia, pochi parlano. Eppure continua a crescere in maniera evidente, esplicitazione della disaffezione per la politica. Un richiamo per l’intera classe dirigente, fino ad adesso largamente trascurato. A poco giovano, infatti, le rassicurazioni di qualche esperto, secondo cui si tratta di un processo fisiologico, quasi naturale. Ancora meno conforta il fatto che l’Italia, comunque, resta uno dei Paesi europei con la più alta percentuale di votanti attivi. I dati sono inequivocabili. Tre milioni di astenuti non sono certo briciole. Considerando che, questa volta, non c’erano nemmeno irrinunciabili partite di calcio in televisione, oppure soleggiati litorali romani presso cui adagiarsi.
Appare netta la differenza rispetto al Febbraio scorso. La sensazione è che siamo già lontani da quel passato così recente in cui il dissenso esasperato vedeva la propria speranza nelle luccicanti stelline di Beppe Grillo. Complici sicuramente le vicende nazionali, che hanno visto un Movimento alle prese con dissidi interni e espulsioni, non c’è nessun eclatante exploit. L’antipolitica diviene semplice astensione, disinteresse, disfattismo. Si sceglie di non esprimersi, pur volendo conservare il diritto alla querimonia. Soprattutto in Sicilia, dove sembrano ormai un ricordo confuso i tempi in cui i pentastellati, con grande stupore della stampa, raggiungevano quasi il trenta percento. Adesso la tenebrosa Lidia Adorno, maestra precaria candidata a Catania, raggiunge a stento il tre percento. Altro che teoria della decrescita.

È Roma, comunque, il punto caldo delle amministrative. È qui che Ignazio Marino, chirurgo dall’aspetto sincero, riesce a porre fine al quinquennio Alemanno, viziato da scandali, adunate, promesse clamorosamente disattese e copiose nevicate. Dalla Capitale, nel primo discorso da sindaco, Marino afferma che “è da qui che dobbiamo assumere il ruolo di guida morale per il Paese”. Un chiaro monito anche al suo stesso partito, ancora sperso, ancora in cerca di una guida credibile a livello nazionale. Per dimostrare che il centrosinistra è ancora in grado di farsi valere. Alleato con Vendola, in memoria dei vecchi tempi. L’entusiasmo della vittoria capitolina fa cessare anche le polemiche interne, ed è acuito dai successi che interessano l’intero Belpaese. Senza esitazioni, anche Letta propone la propria lettura dei dati elettorali: una conferma delle larghe intese. Ma, più che altro, si tratta di un profondo radicamento nel territorio, tipico del centrosinistra. Che può vantare elettori molto più fedeli del Popolo della Libertà. Persino a Siena, dove nonostante lo scandalo del Monte dei Paschi il Partito democratico conferma il proprio sindaco, seppure di estrazione renziana. Grazie all’entusiasmo post-elettorale, le reali problematiche interne al partito restano irrisolte. In primo luogo, quello di una leadership nazionale vincente.

La disfatta più clamorosa è quella del centrodestra. Giustificata con garbo e cautela. “Nessuna conseguenza sul governo, adesso bisogna ripartire”, assicura il Cavaliere. Quello che più preoccupa, infatti, è proprio il riflesso delle consultazioni sull’esecutivo. Una convivenza forzata che adesso, a fortiori ratione, non può che essere tacitamente assecondata dal Popolo della Libertà, che necessita di tempo per ricostituirsi dopo la débâcle. Nessuno, tra le fila dei berlusconiani, si mostrerebbe pronto a tornare al voto immediatamente. Nonostante i continui placati diktat nei confronti dell’esecutivo Letta. Tuttavia si vocifera e si auspica un ritorno ai fasti del passato, magari anche a Forza Italia, sempre rimasta nei cuori dei berlusconiani più convinti, anche dopo la realizzazione del grande progetto del Popolo della Libertà, ormai in bilico tra i fedelissimi del Cavaliere, che ancora inseguono lo spettro del comunismo, e i reazionari post-fascisti traditi, che continuano a inseguire lo spettro della globalizzazione e dell’immigrazione.

Ma è dalle parti di Treviso che la sconfitta ha un sapore davvero agro. Perché l’ottantaquattrenne sindaco sceriffo, leghista nell’animo, Giancarlo Gentilini, ha capitolato. Inaspettatamente. Cedendo la patria della purezza del Nordest al rottamatore Giovanni Manildo, con il cinquantacinque percento dei consensi e quaranta’anni di meno dello sceriffo. Dopo l’evidente sconfitta trevigiana, nella Lega Nord ci si interroga sul futuro. Il partito del Nord ha perduto il radicamento sul territorio che da sempre ne è stato la forza. Si scontano tutti insieme i vani proclami ultraventennali di una secessione mai avvenuta, nell’utopia del sogno separatista del Nord, insieme agli scandali di rimborsi elettorali e alle fallimentari crociate contro lo straniero. Oltretutto, risulta evidente il dissenso nei confronti della deriva filoberlusconiana e centralista imposta da Maroni. Osteggiato in particolare dalla classe dirigente più vicina a Bossi, relegato in un ruolo di secondo piano, ma ancora capace di manovrare il partito indirettamente.
I dati che continuano ad animare il dibattito politico, tuttavia, restano quelli delle elezioni. Quelli economici, diffusi nel frattempo dall’ISTAT, rimangono in secondo piano. Eppure denunciano con chiarezza che la produzione industriale crolla di quasi il cinque percento rispetto ad Aprile dello scorso anno. Ma questa, in fondo, è un’altra storia. Questa è l’Italia reale, che preoccupa, e non appassiona.


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