I peccati del Salvatore
La serie SanPa, la criminalizzazione della droga e gli abusi di Vincenzo Muccioli nella comunità di San Patrignano
Le tematiche delle dipendenze e più in generale delle sostanze psicoattive sono in Italia, come in molti altri paesi, enormi tabù. Non è una novità, è così da almeno cinquant’anni. La situazione attuale è il frutto di decenni di propaganda mediatica e politica che hanno portato ampie fasce della cittadinanza a rapportarsi alternativamente in due modi alle droghe e a chi ne fa uso: con timore e cieca collera, come si fa col Demonio e altri metafisici nemici della specie umana, oppure più semplicemente ignorandone deliberatamente l’esistenza. Ciclicamente, però, notizie di cronaca o prodotti mediatici riportano questi argomenti al centro del dibattito pubblico, pronti per essere mistificati e militarizzati attraverso un antico sistema di falsità retoriche e ideologiche.
Questo stesso copione è stato innescato dall’uscita della docu-serie sulla vicenda di Vincenzo Muccioli e la comunità di recupero per tossicodipendenti di San Patrignano, da lui fondata. SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano (distribuita con il meno equivocabile titolo SanPa - Sins of the Savior per il mercato internazionale), prodotta da Netflix e dalla neonata società milanese 42, ha riaperto un dibattito che da 25 anni si era notevolmente affievolito, quasi dimenticato, e con spiacevole sorpresa ci ha reso noto che non ci siamo mossi di un millimetro. Fiumi di parole sono già stati scritti su ogni parte di questa storia: sul primo Muccioli, sul secondo Muccioli, sui ragazzi, su Red Ronnie, sul metodo SanPa, senza lasciare indenni ovviamente autori e produttori della serie, a turno incensati come pionieri di un nuovo modo di fare televisione o denigrati in quanto propalatori di critiche e notizie false a scapito del buon nome della comunità. Ma cerchiamo di farci strada eliminando un po’ di rumore di fondo: SanPa è una serie originale Netflix sviluppata da Gianluca Neri, fondatore nel 2018 della società di produzione 42; prima di cimentarsi in questa esperienza, Neri era già noto per aver creato nel 2000 il blog Macchianera e per essere uno degli sceneggiatori di Camera Cafè. Proprio alla celebre sitcom degli anni 2000 aveva lavorato insieme a Carlo Gabardini, scelto per scrivere SanPa con Paolo Bernardelli e lo stesso Neri. Gli autori hanno svolto un lavoro monumentale, durato più di due anni, per attingere a decine di archivi e ricostruire una storia attraverso documenti, riprese video, atti processuali e 180 ore di testimonianze.
Gli autori hanno svolto un lavoro monumentale, durato più di due anni, per attingere a decine di archivi e ricostruire la storia di San Patrignano
La regia di Cosima Spender e il montaggio di Valerio Bonelli restituiscono infine un prodotto di cui è impossibile negare le qualità: si prende una vicenda ambigua e fumosa, indubitabilmente interessante, e la si fa raccontare non da una voce narrante, ma dai personaggi che l’hanno vissuta, dai telegiornali dell’epoca, da commentatori in varia misura coinvolti. Questa è una delle principali novità importate in Italia da SanPa: segue una tendenza già affermata all’estero – specialmente negli USA – che abbiamo visto negli ultimi anni in documentari come LA92 o docu-serie come la messicana 1994. SanPa è già stata più volte paragonata a Wild Wild Country, l’originale Netflix del 2018 che racconta la controversa figura del guru Osho, e lo stesso Gianluca Neri ha dichiarato di essersi ispirato a Making a Murderer, la prima serie con cui Netflix si impose nel mondo del documentario. L’assenza di un narratore non è un dettaglio tecnico, ma una precisa scelta di stile e di contenuto: se da una parte richiede maggiori sforzi di scrittura, regia e montaggio affinché la fruizione dello spettatore scorra liscia e senza difficoltà di comprensione, dall’altra garantisce una notevole immersione nel contesto della storia e nelle vite dei personaggi, e soprattutto permette di attribuire all’opera un alone di imparzialità. Un intento dichiarato, sottolineato in varie interviste: l’obiettivo è presentare i fatti nella maniera più accurata possibile, attraverso fonti diverse e punti di vista opposti, in maniera tale che possa essere lo spettatore a formarsi un’opinione sui fatti.
L’autore Carlo Gabardini (a sinistra) e la regista Cosima Spender (al centro) durante le riprese di SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano
Questa necessità di non prendere posizioni si porta dietro ovviamente i suoi risvolti negativi: uno su tutti, la campagna di marketing che ha accompagnato il lancio della serie, caratterizzata da tagline come «Quando cerchi la verità, puoi trovarne più di una», e la domanda attorno alla quale gira forse tutto l’arco narrativo, «Quanto male puoi fare per fare del bene?». Negativi perché, seppur funzionali alla dinamica televisiva della pretesa obiettività, non riescono in definitiva nel tentativo di coprire domande più importanti, e che ogni spettatore inevitabilmente si pone. Cosa è successo davvero a San Patrignano? Quello che è stato fatto era lecito, o meglio, quanto si è sconfinato nell’illecito? E soprattutto: sì, d’accordo, ma alla fine è stata davvero un’opera di bene? Fortunatamente, sebbene schiere di edotti commentatori abbiano provato a convincerci che il vero atto di coraggio sia sospendere il giudizio e delegarlo all’Altissimo, assolvendo a tutti gli effetti i protagonisti di questa vicenda al motto di un anacronistico non sum dignus, alcune risposte ci sono. Non tutte, ma alcune.
All’inizio, nella Rimini degli anni Settanta, c’era un signore che ha tentato di fare il ragioniere, l’assicuratore, l’allevatore di cani, l’allevatore di polli, l’albergatore; in ognuna di queste carriere è fallito o ha desistito. Come è arrivato a gestire una comunità di recupero che ospitava migliaia di persone? «Il mio padrone di casa, Luciano Rossi, mi invitò a delle sedute medianiche. Aveva più di 80 anni, io ci andai scettico. Poi... poi un giorno mi disse: “Sento delle vibrazioni in te. Potresti essere un buon medium”. Provai». La svolta si chiama Cenacolo, il gruppo in cui Muccioli organizza sedute spiritiche e lavora con agopuntura, pranoterapia, omeopatia; sostiene di poter evocare l’Energia, di essere posseduto dal Raggio Cristico e da altre entità soprannaturali. Questo lato della vita di Vincenzo Muccioli, per ovvie ragioni meno noto, non serve soltanto a caratterizzare il personaggio, a capire l’aura di devozione che per tutta la vita lo circonderà, perché senza il Cenacolo, semplicemente, San Patrignano non sarebbe mai esistita. È proprio attraverso le sedute medianiche che Muccioli conosce per la prima volta i coniugi Moratti, Gian Marco e Letizia, il cui ruolo nella comunità sarà determinante per più di quarant’anni e lo è ancora oggi.
Dopo la diffusione dell’eroina e la chiusura dei manicomi, l’ingresso in scena di Muccioli sembra quasi inevitabile: loro, i drogati, cercavano un salvatore; lui, il Raggio Cristico, cerca un esercito di persone da salvare
La famiglia Moratti si era arricchita nel secondo dopoguerra grazie alla raffinazione del petrolio, fino a diventare una delle più influenti della borghesia milanese, e rappresenta fin da subito un rubinetto costante di finanziamenti per i progetti di Muccioli. La ragione di questa inscalfibile lealtà è difficile da individuare, ma tutti concordano su un punto: i Moratti erano come stregati dalle idee, dalle parole, dalla figura di Vincenzo Muccioli. Mentre a Rimini si evocano le Energie, tra il 1974 e il 1975 la diffusione degli oppiacei si fa davvero massiccia: nel giro di poco tempo, le piazze italiane si svuotano progressivamente di hashish e anfetamine – queste ultime messe fuori legge solo nel 1972 – e vengono inondate da eroina a prezzi bassi o bassissimi, il che non tarda a produrre i suoi risultati. Pochi anni dopo la legge 180 del 1978, meglio nota come legge Basaglia, sancisce la chiusura dei manicomi, che dal 1954 erano la destinazione prevista per i tossicodipendenti in caso di arresto. Presentato così l’antefatto, l’ingresso in scena di Muccioli sembra quasi inevitabile: loro, i drogati, cercavano un salvatore; lui, il Raggio Cristico, cerca un esercito di persone da salvare. In effetti questa teleologia è stata ripetuta da molti apologeti della figura di Muccioli, secondo i quali certo, lui ha commesso degli errori – chi non ne ha commessi? – ma in definitiva il suo operato è stato necessario, fondamentale, inevitabile in un paese che non offriva alcuna alternativa a chi soffriva di dipendenze.
La realtà è un po’ diversa; di alternative ce n’erano, e se ovviamente erano tutte imperfette, vale la pena di menzionarle per restituire un po’ di quel contesto che non poteva avere spazio in una docu-serie in 5 episodi. Già dall’inizio degli anni Settanta, nell’ambito della tossicodipendenza si costituiscono due progetti di matrice cattolica caratterizzati da metodologie molto diverse da quella vista in SanPa: a Torino il Gruppo Abele, associazione fondata da don Luigi Ciotti e dedicata al trattamento della tossicodipendenza e di altre forme di emarginazione sociale; a Genova la comunità di recupero di San Benedetto al Porto, nata dagli sforzi di don Andrea Gallo. Entrambe le organizzazioni esistono e svolgono tutt’oggi le loro funzioni, ma ispirandosi a principi e propositi del tutto diversi: la Comunità San Benedetto cita come riferimenti teorico-pratici, tra gli altri, i lavori del pedagogista brasiliano Paulo Freire e del già menzionato psichiatra e neurologo rivoluzionario Franco Basaglia. Nello stesso anno della fondazione di San Patrignano, il 1978, a Milano due diciottenni vengono assassinati con otto colpi di pistola: sono Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, che tutti conoscono come Fausto e Iaio, militanti di sinistra che frequentano il centro sociale Leoncavallo. Lì, i due ragazzi si occupavano di controinformazione, e in particolare stavano raccogliendo dati e notizie per pubblicare un dossier sul traffico di eroina a Milano. Le indagini si concluderanno anni dopo con l’archiviazione del caso «pur in presenza dei significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolari degli attuali indagati», cioè i neofascisti Claudio Bracci e Mario Corsi, e Massimo Carminati dei Nar, poi coinvolto negli affari della Banda della Magliana e di Mafia Capitale. E infine certo, c’è lo Stato: nel 1978 nasce il Servizio Sanitario Nazionale, preceduto nel 1975 dall’istituzione dei Cmas (Centri Medici per l’assistenza sociale, che diventeranno poi i SerT) per il trattamento delle dipendenze, con tutti i limiti raffigurati anche nella serie, dall’approccio eccessivamente farmacologico alla medicalizzazione del tossico, visto solo come un malato. Le somministrazioni di metadone, in quegli anni, non sono neanche regolate da un protocollo nazionale, e contribuiscono all’evidente inefficacia di queste istituzioni.
Dall’altra parte c’è la comunità di San Patrignano, sul cui sito campeggia ancora la scritta: «Per noi, nessun ragazzo tossicodipendente è un malato o un irrecuperabile». E se la seconda parte è senz’altro vera, il rifiuto di trattare gli ospiti (anche) come affetti da una condizione patologica provoca piuttosto rapidamente le sue conseguenze. Ma quindi qual è il metodo di Vincenzo Muccioli? «La mia terapia è fare il padre di famiglia!», e bisogna riconoscergli che probabilmente è un’ottima sintesi. Come un vero patriarca, pretende un’autorità incontrastata sui figli, offrendo in cambio amore, educazione, formazione, protezione dai pericoli del mondo esterno. È sicuramente contenuto in questa formula ciò che moltissimi hanno visto di buono nel suo operato, e anche ciò che del suo operato ha effettivamente aiutato i ragazzi di San Patrignano. Per chi ha fatto esperienza del dolore della dipendenza, e dei conseguenti stravolgimenti familiari, delle difficoltà economiche o con la giustizia, è indubbio che sia stato positivo essere improvvisamente inondati di attenzioni e di affetto, essere circondati da coetanei che hanno vissuto situazioni analoghe, aver avuto la possibilità di studiare o sviluppare competenze lavorative, poter dare in poche parole uno scopo nuovo alla propria vita. Probabilmente, anzi, proprio questo sta alla base dei numerosi casi di successo, purtroppo impossibili da quantificare.
Fare il padre di famiglia significa anche sottoporre una persona a torture psicologiche e contenzioni fisiche, sfruttare la manodopera di migliaia di persone o impiegarle in traffici internazionali di cani e cavalli di razza
Certo, fare il padre di famiglia significa pure tirare «qualche sganassone», ma di volta in volta può significare anche mortificare e insultare una singola persona davanti a tutti – questo tipo di umiliazione era detta del «ciocco» – o sottoporla a torture psicologiche e contenzioni fisiche, sfruttare gratuitamente la manodopera di migliaia di persone o impiegarle nei propri traffici internazionali di cani e cavalli di razza, delegare o più semplicemente permettere che avvengano sistematici pestaggi e violenze sessuali. Di testimonianze di questo tipo se ne trovano a dozzine; il gruppo La Mappa Perduta si dedica da anni a repererirne e raccoglierne, a partire da libri, interviste e deposizioni processuali. Alcuni dei membri del gruppo sono ex ospiti della comunità apparsi anche in SanPa, come Paolo Negri e Paolo Severi, altri sono legati alla collina dalle tragedie accadute in quegli anni, come Sebastiano Berla e Giuseppe Maranzano. Ma a smontare la retorica degli «episodi sbagliati» contribuiscono anche figure slegate da questo impegno strutturato, come quella di Piero Villaggio. «Se uno vuole uscire, sta dando i numeri e va a rischiare la propria vita, va benissimo dargli due ceffoni e impedirgli di andare; questo è una cosa. Chiuderlo in una botte per venti giorni, scusami, è un’altra», ricorda intervistato da Red Ronnie nel 2016. «Quando c’ero io crearono il gruppo della manutenzione, gestito da un certo Peppino Capogreco, che non faceva altro che violentare le ragazze che erano dentro e che gli erano state affidate». Chissà che avrebbe pensato Muccioli di queste accuse, considerata la sua curiosa tesi dell’inesistenza dello stupro enunciata nell’agghiacciante metafora dell’anello: «Se l’anello si sposta, la matita non può entrare», spiegava ai giornalisti che gli chiedevano conto delle violenze all’interno della comunità.
Se è impossibile arrivare qui alle conclusioni di una vicenda così complessa, di certo si può valutare l’impatto che ha provocato l’incontro tra una tale concentrazione di potere – economico, mediatico, politico – e una grossolana incompetenza sociosanitaria, riconoscibile in due diversi filoni: uno è quello fin qui documentato, del trattamento dell’individuo nel segno dell’inosservanza di qualsiasi terapia farmacologica o di accompagnamento dell’astinenza – salvo poi sperimentare sugli ospiti sieropositivi il “beverone”, un frullato di carni bianche e chissà cos’altro, ritirato una volta che aveva cominciato ad aggravare la salute dei ragazzi; l’altro, con effetti meno immediati ma non per questo meno gravi, è quello dei rapporti con la politica e dell’influenza sull’opinione pubblica riguardo alle sostanze e ai loro effetti. A differenza del “metodo San Patrignano”, che negli anni si è indubbiamente evoluto, soprattutto con la dipartita del fondatore nel 1995 e con la turbolenta estromissione del figlio Andrea nel 2011, le posizioni della comunità sui temi delle droghe e delle politiche da adottare sono rimaste in quarant’anni più o meno le stesse. Si tratta naturalmente di un proibizionismo feroce, lo stesso che conosciamo bene perché tutt’oggi domina incontrastato il dibattito pubblico: chi è cresciuto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Dieci è stato martellato, praticamente senza soluzione di continuità, da quella retorica che vuole equiparare una canna a una dose di eroina, che mette tutte le sostanze sullo stesso piano, quello di un Male innominabile e da non avvicinare. Questo apparato ideologico mette le sue radici da una parte nel trauma nazionale dell’epidemia di oppiacei degli anni Ottanta e Novanta e dalla genuina paura che questa ha diffuso nella popolazione, dall’altra nello sforzo costante e organizzato di una parte di società di individuare il fondamento di questo problema nella sostanza, che è quindi da demonizzare e proibire, e non nelle ragioni sociali che ne hanno permesso l’incontrollata diffusione.
Nonostante la tendenza di consumo di eroina e di morti per overdose fosse in costante calo, la legislazione sulle droghe si è fatta con gli anni più repressiva. Dati Istat-Ministero dell’Interno
Così non tardano ad arrivare gli esponenti politici a San Patrignano, a partire da Bettino Craxi, presidente del Consiglio dal 1983. Craxi aveva scelto di importare dagli Stati Uniti la war on drugs di Ronald Reagan, introducendo a sorpresa la proposta di punire non solo gli spacciatori ma anche i consumatori di sostanze; un lungo e acceso dibattito nella seconda metà degli anni Ottanta porta all’approvazione nel 1990 della legge Iervolino-Vassalli, ai tempi detta anche, più eloquentemente, decreto Muccioli. Il fondatore di San Patrignano era infatti il più strenuo sostenitore delle politiche craxiane sulla droga, volte alla repressione del traffico e dell’utilizzo attraverso sanzioni amministrative e penali. Qui nasce il concetto di “quantità modica”, quella cioè destinata all’uso personale, per cui la detenzione di un quantitativo superiore alla dose considerata giornaliera faceva automaticamente scattare il reato di spaccio. Con gli anni Novanta, che portano in dote il primo governo Berlusconi e la nomina di Letizia Moratti a presidente della Rai, la Iervolino-Vassalli, combinata alla recente legislazione sull’immigrazione, decreta l’inizio di un processo di incarcerazione di massa in Italia, mentre continua la militarizzazione del dibattito pubblico sulle droghe. Nonostante la lenta ma costante diminuzione di morti per overdose e consumo di droghe pesanti, le posizioni della politica e di una parte del mondo del volontariato si inaspriscono: a San Patrignano le visite di socialisti come Craxi o democristiani come Russo Iervolino lasciano il posto a quelle di esponenti post-fascisti come Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri; nel frattempo, la morte di Muccioli nel 1995 porta il figlio Andrea alla guida della comunità.
Nel 1990 vengono approvate la legge Iervolino-Vassalli sulle droghe e la legge Martelli sull’immigrazione, nel 2006 viene approvata la legge Fini-Giovanardi. Dati Istat-Ministero dell’Interno
È proprio Fini che dal suo posto di vicepremier sta preparando nei primi anni Duemila una nuova legge per la repressione delle droghe e dei drogati. I prodromi nel 2005, con l’inaugurazione di un carcere speciale a Castelfranco Emilia: una “casa di reclusione a custodia attenuata”, dove cioè sono rinchiusi tossicodipendenti e pazienti psichiatrici che hanno scontato la propria pena, ma sono ancora ritenuti socialmente pericolosi. Nel gennaio dell’anno successivo l’approvazione della legge Fini-Giovanardi apre un nuovo capitolo di questa storia. Un colpo di spugna cancella la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti: la cannabis è trattata allo stesso modo di eroina e cocaina, le sanzioni amministrative sono ridotte al solo uso personale, è introdotta la possibilità di vietare al consumatore la frequentazione di locali pubblici e la conduzione di veicoli a motore. Il sovraffollamento in carcere schizza alle stelle, sono gli anni della morte di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, di Aldo Bianzino. L’unico modo per scampare al carcere in seguito a questa legge è, curiosamente, entrare in comunità: l’affidamento terapeutico a realtà come San Patrignano è esteso alle pene fino a 6 anni, e per le strutture private è ora possibile certificare lo stato di tossicodipendenza, fino a quel momento una prerogativa del servizio pubblico. Pochi mesi dopo Letizia Moratti, concluso il suo incarico di ministra dell’istruzione, è eletta sindaca di Milano: «Sosterremo solo realtà che operano per il recupero integrale della persona. Non finanzieremo più politiche di riduzione del danno, basta con la distribuzione di siringhe sterili». Protestano le comunità di don Ciotti e don Gallo, protestano gli studenti, protestano i 7000 operatori dei SerT contro quella che definiscono una “iperprivatizzazione” dei servizi di cura delle tossicodipendenze. Protestano inutilmente.
La strada che da quel momento ci porta ad oggi è caratterizzata per certi versi da passi avanti, in controtendenza col periodo di cui abbiamo parlato, per altri dall’ulteriore esacerbarsi di condizioni già inaccettabili. Nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario e i trattamenti degradanti subiti dai detenuti; nel 2014 la Corte costituzionale italiana ha dichiarato illegittima la Fini-Giovanardi per via delle modalità della sua approvazione. Oggi le sostanze stupefacenti sono disciplinate dal decreto Lorenzin, frutto di un compromesso tra le diverse posizioni interne al governo Renzi: si è reinserita la distinzione tra droghe leggere e pesanti e si è favorito l’accesso a pene alternative, come i lavori di pubblica utilità. Tuttavia, prosegue senza sosta il connubio tra droga e carcere: sono in aumento costante il tasso di tossicodipendenti tra i detenuti, intorno al 28%, e il numero di ingressi in carcere per violazione delle leggi sugli stupefacenti che si sono succedute; si tratta del 35% circa delle persone attualmente detenute. Sembra inarrestabile anche il trend di privatizzazione della sanità italiana: ad oggi le strutture private gestiscono quasi un terzo dei posti letto ospedalieri, e più del 20% della spesa pubblica per l’assistenza sanitaria. Dopo un anno di pandemia e più di 80mila morti, Letizia Moratti è stata nominata pochi giorni fa assessora alla sanità della regione Lombardia. San Patrignano ora è osservata più da vicino dai suoi finanziatori, e a capo del comitato di gestione siede Franz Vismara, da quarant’anni nell’amministrazione della comunità. Negli ultimi anni Vismara ha partecipato, per conto di San Patrignano, sia alla convention di Italia Protagonista – la fondazione e associazione politica di Maurizio Gasparri – sia al congresso nazionale di Fratelli d’Italia, preoccupandosi di ringraziare gli ospiti per il lavoro portato avanti insieme sulla legge Fini-Giovanardi e auspicando un ritorno a quel tipo di normativa.
L’isolamento dell’individuo è imprescindibile nel caso di San Patrignano, proprio per via dei lati più violenti e rischiosi che possono essere messi in atto solo quando nessuno sta guardando. SanPa, invece, ci costringe a guardare
Il quadro che si delinea è quello di un’istituzione totalizzante, che riesce – anche se non ci è dato sapere quanto – nel tentativo di guarire i propri ospiti dalla tossicodipendenza solo grazie a un controllo disciplinare autoritario, solo attraverso il lavoro coatto e gratuito, solo sostituendo la dipendenza dalle sostanze con la dipendenza da San Patrignano. I cittadini sono stati e sono ben contenti di esternalizzare, come facevano con Muccioli, la gestione di questi emarginati; l’isolamento dell’individuo dalla propria comunità, dal proprio contesto di appartenenza, è notoriamente di ostacolo al suo percorso di guarigione ma è imprescindibile in questo caso, proprio per via dei lati più violenti e rischiosi del metodo, che possono essere messi in atto solo quando nessuno sta guardando. SanPa, invece, ci costringe a guardare e ad entrare nelle maglie di un tema polarizzante mostrando una realtà piuttosto chiara: San Patrignano non ha rappresentato semplicemente un’alternativa a un servizio pubblico insufficiente o assente, con gli anni si è mostrata invece sempre più impegnata nel contrastare attivamente approcci farmacologici e psicologici supportati dalla scienza, sostenendo l’iniziativa privata in opposizione alla sanità pubblica, con l’appoggio del mondo politico e giornalistico conservatore e la complicità di una società che l’ha presa a modello, rifiutandosi di vederci più chiaro. Almeno finora.
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