I mille aromi della paura

Cosa accade quando violenza e paura diventano la tua identità? Foreste, cloni e figure misteriose nel romanzo Aliena

Una lunga variazione sul tema della paura, su ciò che la genera e su ciò che la cura, in una Francia rurale minacciata dalla brutalità, umana e non. Così potrebbe essere riassunto Aliena, secondo romanzo della scrittrice e traduttrice franco-americana Phoebe Hadjimarkos Clarke, opera vincitrice del premio Livre Inter, pubblicata in Italia da Atlantide Edizioni con la traduzione di Maria Sole Iommi. La protagonista di Aliena è Fauvel, una ragazza la cui vita, dopo una giovinezza di grandi promesse e aspettative, sta andando alla deriva. Le ragioni sono molte, e le approfondiremo tra poco. Per ora ci basta sapere che Fauvel sente il bisogno di cambiare, e che per soddisfarlo scappa dai ritmi battenti della città per rifugiarsi a Cournac, un paesino immerso nelle campagne francesi.
 

Il tutto si svolge nella cittadina di Cournac, circondata da una foresta labirintica abitata da animali selvaggi, cacciatori che li predano, figure misteriose e forse aliene


Ha trovato lavoro come dogsitter (lei non è una dogsitter, anzi chiarisce da subito che i cani nemmeno le piacciono) e si dovrà prendere cura per qualche tempo di Hannah, la cagna di Luc, un uomo che a causa di una grave malattia vuole giocarsi bene le ultime carte che gli restano girando il mondo. Hannah è una cagna particolare: si tratta di un clone della prima Hannah (non per niente il nome è un palindromo, mentre quello di «Fauvel», già che ci siamo, è inventato dalla protagonista stessa, e in francese suona come diminutivo per «fauve», «belva»). Per attenuare il senso di perdita di Luc per il primo animale ormai deceduto, l’amica Hélène gli ha regalato questa nuova versione artificiale, identica nelle fattezze e nelle movenze ma non nell’identità – è molto più aggressiva della Hannah originale, e più imprevedibile. Il tutto si svolge nella cittadina di Cournac, desolata e solitaria come solo certe cittadine di campagna sanno essere, circondata da una foresta labirintica abitata da animali selvaggi, cacciatori che li predano, figure misteriose e forse aliene che si muovono nella nebbia. Sullo sfondo, uno stabilimento di acqua minerale rumoreggia con il suo suono da fabbrica.


Caccia notturna (1470) di Paolo Uccello, Ashmolean Museum, Oxford

 

Fauvel si trova quindi a Cournac per fuggire. Ma la domanda è: fuggire da cosa? La protagonista ha partecipato alle manifestazioni dei gilet gialli, e durante uno dei tumulti di piazza un poliziotto le ha sparato una flash ball (i proiettili di gomma in dotazione alla gendarmerie) colpendola in un occhio e rendendola cieca a metà. Questo episodio, che ha calcificato la sua condizione di timore e ostilità verso il mondo, è inserito all’interno di una visione sistemica, generalizzata, che non riguarda solo Fauvel. La paura, per Hadjimarkos Clarke, è infatti uno stato delle cose generato dall’esercizio della brutalità – psicologica o fisica – che ognuno subisce (o agisce) vivendo nel mondo. Nonostante l’autrice si riferisca ad alcuni eventi specifici della vita di Fauvel, come i soprusi verbali del compagno della madre o quelli fisici della polizia, il discorso oltrepassa la protagonista stessa. La violenza si accende ovunque, è impalpabile e diffusa come l’aria che respiriamo, e produce una sensazione di paura altrettanto intangibile, che sta sempre lì ad aleggiare sopra le nostre teste.
 

I cacciatori sono la versione campagnola delle forze dell’ordine cittadine: si organizzano come loro, sono rabbiosi come loro, e come i poliziotti si muovono immersi nella nebbia


Personificazione della violenza, oltre alla polizia, sono i cacciatori che infestano la foresta intorno a Cournac, con i quali Fauvel entra in conflitto a più riprese. Nella cittadina si verificano dei misteriosi massacri di animali, attribuiti alternativamente ai cacciatori, alla cagna Hannah (che alcuni considerano troppo pericolosa per abitare lì) o a presenze oscure ed extraterrestri. I cacciatori sono dei redneck in salsa francese, la versione campagnola delle forze dell’ordine cittadine. Similitudine che l’autrice evidenzia in più occasioni: si organizzano come loro, sono rabbiosi come loro, e come i poliziotti si muovono immersi nella nebbia (che per i cacciatori è la nebbia della foresta, mentre per la gendarmerie il fumo dei lacrimogeni). Fauvel si sente preda di tutti questi agenti della violenza: selvaggina per i cacciatori, rivoltosa per i poliziotti. Le due figure sono talmente intrecciate che dopo la prima prova di forza dei redneck riaffiorano nella protagonista i ricordi degli episodi di piazza.

La sensazione che si prova leggendo il romanzo di Hadjimarkos Clarke è che Fauvel scappi da una paura per entrare in un’altra. La violenza ne risulta non solo sistematizzata, ma anche interiorizzata. Non è tanto l’evento pericoloso in sé, quanto la possibilità che si verifichi ad atterrire la protagonista. Avere paura della paura è uno di quei loop da cui non si esce illesi, che può scendere talmente in profondità dentro di noi da assumere una forma fisica, un odore.  
 

La voce grossa, la rugosità delle mani, la stranezza di quell’uomo che non le era legato da nient’altro che dall’imprevedibile irruzione dei suoi accessi d’ira. Quando andava in collera, sempre per ragioni incomprensibili, emanava un odore strano e disgustoso, l’humus di piante morte, lo zolfo delle uova marce, la punta di ferro del sangue o dello stronzo malato. Eppure, secondo lui, era l’odore di lei a porre un problema.


In Aliena, non è solo la paura a prendere corpo – l’autrice, descrivendone le sfumature, parla di «mille aromi della paura» – ma anche l’inquietudine e l’ingiustizia. Allo stesso modo, però, lo possono fare anche la collera e la rivalsa. La scrittrice franco-americana insiste molto su questo concetto, di ingiustizia e giustizia come atto fisico, sottolineando come l’unico modo per scongiurare il terrore sia l’azione, il proverbiale faccia a faccia col mostro (che sia un cacciatore, un poliziotto, se stessi). Non è un caso che l’autrice utilizzi il verbo «incarner» nei momenti in cui Fauvel prende le decisioni più lucide, quando si sente nel proprio corpo e può tornare a interagire con la realtà senza temerla. Un esempio su tutti: «Enfin on est incarnés», ovvero «Finalmente ci si incarna».


Il giardino delle delizie (1480-90) di Hieronymus Bosch, conservato al Museo del Prado di Madrid. Un dettaglio della rappresentazione della Creazione (a sinistra del trittico) è la copertina italiana di Aliena


Il legame corpo-paura ritorna anche nelle pagine dedicate ai presunti contatti con gli alieni. Alcuni cacciatori confidano a Michel – un ragazzo impegnato in una tesi sugli avvistamenti Ufo nella foresta, con cui Fauvel fa amicizia – di essere stati rapiti dagli extraterrestri. Nonostante l’esperienza li abbia traumatizzati, per qualche oscura ragione aspettano con ansia il loro ritorno. Julien, il cacciatore-capo, racconta che gli alieni hanno compiuto su di lui operazioni brutali, prelevando i suoi organi e passandoli al vaglio, ma che questa brutalità aveva un che di seducente, sensuale, piacevolmente fisico.
 

Il mio uccello e i miei coglioni, insomma tutto il pacchetto, è stato un’altra cosa ancora, be’, se devo parlare francamente avevo l’impressione che mi facessero una sega ma era una cosa molto più eccitante, sentivo che il mio uccello si spingeva in profondità infinite come se tutto passasse attraverso la cruna di un ago verso il fondo dell’universo, era veramente bello ma mi faceva anche dare di matto.


Le pagine dedicate al contatto con gli alieni sono anche quelle in cui il romanzo prende la via dell’ambiguità, giocando sui chiaroscuri in cui la paura si può annidare e sviluppare. A volte gli alieni sembrano esistere, altre no, a volte sono la spiegazione di tutto, altre il frutto di un’allucinazione collettiva. Hadjimarkos Clarke gestisce bene questa ambivalenza, che solo in pochi casi risulta fine a se stessa, escamotage narrativo per mantenere vivo il mistero.

La foresta d’inverno al tramonto (1846-1867) di Théodore Rousseau, MET, New York


La paura è anche, e soprattutto, una questione di ambienti, di luoghi in cui nasce o si estingue. Per Fauvel la città rientra nel primo insieme, mentre la foresta di Cournac nel secondo. Da quest’«ultranatura» lei vorrebbe quasi farsi assorbire, evolvendosi tramite una metamorfosi vegetale.
 

Fauvel pensa che le basterebbe tendere la mano per toccare gli organismi segreti che le fluttuano intorno, che la penetrano impercettibilmente, copulando sulla sua pelle o all’apertura dei suoi orifizi. I suoi stessi polmoni le sembrano dei coralli estranei, venuti da non si sa dove, e che le abbiano invaso il petto. Il suo occhio cattivo è una grotta che inghiotte mostri marini.


Ma la voce narrante – una voce molto vicina a Fauvel, che resta però una terza persona – descrive l’ultranatura di Cournac non solo con uno sguardo affascinato ma anche in termini di pericolo, abitata com’è da cacciatori che si muovono silenziosi col favore della nebbia. Proprio la nebbia è un’altra protagonista del romanzo, motore narrativo – quando Fauvel sembra scoprire qualcosa, la nebbia è lì che rimescola le carte – e sensoriale, causa di spaesamento e di una certa opacità. Se vogliamo spingerci un po’ oltre, la nebbia è anche uno stato mentale: Fauvel fuma molta erba, e scivola dentro stati di ottundimento in cui le paure si amplificano e i mezzi per contenerle si assottigliano. Quindi, di nuovo, la soluzione è aspettare che tutto passi e sparire.

Tramonto tra i cedri a Darien, Connecticut (1872) di John Frederick Kensett, MET, New York



Il romanzo di Hadjimarkos Clarke porta a chiedersi però se non esista un’altra strada. Se nascondersi non sia solo una parte del percorso, e se per superare lo stallo non serva qualcos’altro. In questo senso la cagna Hannah gioca una parte centrale. Il suo ruolo è sì quello di condurre Fauvel dentro la foresta, ma per aiutarla a combattere ciò che la abita. Fauvel deve misurarsi a Cournac con un conflitto lasciato in sospeso in città: non importa se si tratta di poliziotti o cacciatori, la sostanza è sempre la stessa, l’esercizio della violenza e la paura che genera. Fronteggiare i secondi vorrà dire chiudere i conti anche con i primi, ma per farlo Fauvel dovrà abbandonare la gabbia delle abitudini costruite per disinnescare la paura e accettare l’imponderabile, con tutti i potenziali pericoli che comporta. Detta in un altro modo, dovrà uscire dal giardino della casa di Cournac per entrare nella foresta, spingendosi lì dove iniziano tutte le storie: alla soglia di un mondo conosciuto, verso un mondo sconosciuto. E, finalmente, superarla.

 


In copertina un dettaglio del lato destro del trittico Il giardino delle delizie (1480-90) di Hieronymus Bosch, che rappresenta l’Inferno, conservato al Museo del Prado di Madrid


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