I migliori film del 2024
La top ten delle migliori pellicole uscite nelle sale italiane, tra Bonello e Almodóvar, Vermiglio e Povere creature!
In un anno in cui il cinema italiano fa fatica a riprendersi da una gravissima crisi di settore causata dalla riforma della legge cinema del governo Meloni, che ha tagliato fondi e sgravi fiscali senza criterio industriale occupazionale e artistico sotto i ministri Sangiuliano e Giuli, non mancano gli autori che continuano a confermare sul grande schermo la grande qualità del cinema italiano, sottolineata dai successi di pubblico e di critica. C’è Parthenope di Paolo Sorrentino, ma c’è soprattutto Vermiglio di Maura Delpero, in un exploit nazionale e internazionale che ha portato il film ad essere incluso nella shortlist delle 15 opere candidate al premio Oscar al miglior film internazionale per l’Italia. Seppure con maggiori difficoltà distributive, ci sono anche opere di grandissimo spessore come Invelle di Simone Massi e I dannati di Roberto Minervini, tra i migliori film italiani di questo 2024. Nella nostra classifica internazionale, che seleziona tutte le pellicole uscite nelle sale in Italia nell’anno solare, soltanto Vermiglio riesce a rientrare tra i primi dieci in un panorama variegato che va dalla Francia al Cile, dalla Turchia alla Romania, tra esordi fulminanti, il ritorno di maestri acclamati come Pedro Almodóvar e Wim Wenders, opere classiche come Racconto di due stagioni di Ceylan e sguardi contemporanei come quelli di Yorgos Lanthimos e Bertrand Bonello. Come da tradizione, la classifica della redazione di cinema de L’Eco del Nulla non è numerata, ma seleziona dieci film che non dovreste assolutamente perdere.
The Beast di Bertrand Bonello
Nel 2044, in una Parigi atomizzata e semi-deserta abitata dal fantasma di una pandemia, l’intelligenza artificiale ha sostituito gli esseri umani perfezionandone le azioni con la propria responsabilità e equità, a seguito di una catastrofe indefinita avvenuta nel 2025. Nel corso del procedimento per ripulire il proprio Dna dalle emozioni che limitano l’operato degli umani, Gabrielle rivive le sue vite precedenti incontrando più volte – nella Parigi della Belle Époque, nella Los Angeles degli anni Duemila – il giovane Louis, l’unico a cui ha confidato il suo particolare segreto: l’angosciante presentimento che qualcosa nel suo futuro la attende in agguato, come una bestia nella giungla. The Beast – poco comprensibile traduzione dall’originale La Bête, semplicemente “la bestia” – è un film di estrema attualità e di una grande eleganza estetica (nella fotografia, nelle scenografie, nei costumi) che esalta la bravura dei due protagonisti Léa Seydoux e George MacKay, così simili e così diversi attraverso le epoche. Lo sguardo di Bertrand Bonello riesce a mantenere la solidità formale pur nella sorpresa continua, tra messinscena classica e strumenti visuali e narrativi di grande freschezza (formati variabili, sequenze in green screen che si innestano nel struttura del racconto, immagini scomposte in migliaia di pixel) che danno al film un’originalissima matrice visuale. Oltre che un brillante adattamento contemporaneo del racconto La bestia nella giungla di Henry James, l’opera del regista francese è un apologo sul valore delle emozioni che trasfigura la semplicità del suo messaggio attraverso un immaginario fantascientifico di grande potenza e una narrazione tesa in cui la bestia, dovunque sia nel tempo e nello spazio, sembra sempre pronta a colpire.
Los colonos di Felipe Gálvez Haberle
Nella cornice selvaggia della Terra del Fuoco, che collega Argentina e Cile, il potente esordio Los colonos di Gálvez Haberle intreccia la brutalità della colonizzazione con l’epicità visiva di quello che è stato definito a tutti gli effetti un “western revisionista” in grado di ribaltare i codici del genere. Facendo perno su una vicenda storica realmente accaduta agli albori del Novecento e finita nell’oblio collettivo, il film segue l’ex militare scozzese MacLennan, incaricato da uno spietato proprietario terriero di aprire una tratta verso l’Atlantico con l’aiuto di un cowboy americano e un giovane indigeno ignaro della missione. In un paesaggio evocativo e violento, il viaggio dei tre, volto allo sterminio della popolazione indigena Selk’nam che abita il territorio, diventa un’esplorazione spietata della disumanità della conquista, con un approccio narrativo e registico che amplifica l’orrore di un passato che segna ancora il presente. Gálvez firma un cinema in cui la storia, nella sua crudeltà, è specchio di un’identità nazionale insanguinata. Premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard al 70º festival di Cannes, primo film cileno a ottenere questo riconoscimento.
Do Not Expect Too Much from the End of the World di Radu Jude
Ventiquattro ore (e un’inquadratura) nella vita di Angela, assistente di produzione che in auto per le strade di Bucarest per conto di una società romena che cura l’esecutivo di diverse produzioni internazionali. Un ingorgo dopo l’altro, va a prendere ottiche sul set, clienti in aeroporto, filma una serie di vittime di infortuni sul lavoro per uno spot per la sicurezza che si girerà nei giorni successivi, mentre lei stessa lavora sedici ore al giorno e si sente una schiava, tra gli straordinari mai pagati e il pericolo del colpo di sonno dietro l’angolo. Per sfogarsi, gira video volgari e destrorsi su TikTok mascherandosi con un filtro alla Andrew Tate. Con un originale utilizzo del montaggio alternato, Radu Jude intreccia la vita al volante della sua Angela – filmata in bianco e nero in 16mm – con l’omonima protagonista del film Angela merge mai departe (1981) di Lucian Bratu – girato a colori in pellicola 35mm –, storia di una tassista nella Romania di Ceauşescu. Tra video TikTok, lunghi piani sequenza a macchina fissa, incastri narrativi, sovrapposizioni di realtà e finzione – su tutti la protagonista del film del 1981 Dorina Lazar che riappare sullo schermo come personaggio, raccontando la trama del vecchio film come fosse il suo passato reale –, il film è un caleidoscopio meta-cinematografico la cui lente è puntata sul presente. Attraverso gli strumenti del cinema d’autore e la narrazione della storia di Angela, il regista romeno articola un complesso discorso politico e sociale, drammatico e potente, sulle ciniche diseguaglianze del mondo contemporaneo e sui cortocircuiti della società dello spettacolo. Premio della giuria al festival di Locarno.
Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan
Samet, disincantato professore di educazione artistica in un remoto villaggio dell’Anatolia da cui non vede l’ora di fuggire, vive una vita di isolamento emotivo e intellettuale. Divide la casa con un giovane collega, Kenan, con cui si contende ambiguamente Nuray, insegnante militante che ha perso una gamba in seguito a un attentato terroristico. Samet ha inoltre intessuto un rapporto di grande complicità con la sua allieva Sevim, il cui volto di bambina svela già i primi albori dell’adolescenza. Dopo una delusione della ragazzina, Samet e Kenan vengono accusati di comportamenti inappropriati e questo innesca un cortocircuito personale e sistemico incorniciato nel brutale paesaggio innevato: spietato nell’innevare anche i sentimenti di tutti personaggi messi in scena, prima di lasciar loro lo stacco netto delle erbacce secche dell’estate – “Sulle erbe secche” è il titolo originale. Ceylan torna così a esplorare l’animo umano nella sua fragilità tramite un racconto visivo potente che, come già accadeva in Winter Sleep – Il regno di inverno, fa uso incalzante di lunghi dialoghi e della parola, nelle cui insenature l’uomo finisce con lo smarrire se stesso. Racconto di due stagioni è un’opera trascendente dal respiro dostoevskijano, che affronta magistralmente le contraddizioni del presente, interrogando il valore dell’agire individuale e collettivo in un mondo che sembra sfuggire a ogni definizione.
La stanza accanto di Pedro Almodóvar
Ingrid, una scrittrice di successo, e Martha, ex corrispondente di guerra malata di cancro, sono unite da un’amicizia profonda e sincera nonostante le loro vite abbiano preso strade molto diverse. Quando Martha, ormai consapevole della propria morte imminente, decide di porre fine alla sua vita, chiede a Ingrid di restarle vicino nei suoi ultimi giorni, in una stanza accanto alla sua di un’elegante casa di villeggiatura. Almodóvar si confronta per la prima volta con un lungometraggio in lingua inglese, senza mai rinunciare alla sua inconfondibile visione cinematografica, affrontando con grande pudore il tema della morte e della scelta di quando e come dire basta alla vita, a partire da un’intima riflessione sull’umano bisogno di essere visti e amati al di là di ogni cosa. Con una mano registica rigorosa e visivamente geometrica, il cineasta spagnolo crea uno spazio sospeso dove il dolore e il desiderio di connessione si intrecciano, intrecciando al contempo la conflittualità dei corpi delle due interpreti, Julianne Moore e Tilda Swinton, capaci di portare sullo schermo un’incredibile umanità perfettamente incorniciata dalle scelte compositive e cromatiche che riflettono le emozioni e la solitudine delle due donne. Leone d’oro alla 81ª Mostra del cinema di Venezia.
Perfect Days di Wim Wenders
Hirayama, solitario impiegato delle pulizie dei servizi igienici di Tokyo, trascorre la sua esistenza tra le ore di lavoro, vecchie audiocassette soul, blues e rock ascoltate alla guida del suo furgoncino e classici acquistati in librerie dell’usato letti la sera a lume di lampada. Le sue giornate tutte uguali sembrano parte di un’esistenza equilibrata e serena, ma la vita si rivela piena di sofferenze e sfumature che inafferrabilità. Nato come documentario sul progetto di riqualificazione urbana The Tokyo Toilet, Perfect Days segna un successo di pubblico e critica che nel cinema di finzione Wim Wenders non ritrovava da vent’anni. Con una messinscena solida e minimale, una colonna sonora formidabile che annoda la narrazione – The Animals, Nina Simone, Van Morrison, Kinks, Otis Redding fino al brano di Lou Reed che dà il titolo al film – e il fondamentale contributo poetico e cromatico della fotografia di Franz Lustig e delle scenografie di Tawako Kuwajima, il regista tedesco compone un’opera di grande lirismo, in grado di far ritrovare allo spettatore il tempo dell’uomo e della natura, persino nelle intricate strade della capitale giapponese. Premio al miglior attore al 76° festival di Cannes per Kōji Yakusho, in un’interpretazione delicata ricca di profondità e sfumature.
Vermiglio di Maura Delpero
Vermiglio, 1944. È inverno e una famiglia addormentata inizia a prendere vita un po’ alla volta, con la stessa delicatezza e calma con cui Maura Delpero fa entrare lo spettatore in Vermiglio. Cesare Graziadei, patriarca della famiglia, è il maestro di scuola del villaggio, ha una moglie, Adele, costantemente incinta, rappresentante della maternità accettata e indiscutibile. Dieci figli da educare e crescere, tra loro Ada, obbediente, strana e oscura con il suo quaderno pieno di espiazione, Flavia, intelligente e studiosa, la prescelta dal padre, e poi Lucia, la figlia più grande. La loro vita cambia quando danno rifugio a Pietro, un disertore silenzioso, sconvolto dalla guerra di cui porta i segni. Un giorno gli sguardi di Pietro e Lucia, si incrociano, nasce una passione, elementare e inarrestabile. Delpero compone l’elegia di un luogo appartato e arcaico, un’epopea intima, fatta di rigore e moderazione, di dettagli minuscoli, piccoli e grandi gesti, sentimenti terrigni e delicati. Con il suo stile sobrio, Vermiglio è un dramma illuminante e pieno d’anima, compassionevole, compatto e struggente sull’essere donna in un mondo costruito da altri. Leone d’argento alla 81ª Mostra del cinema di Venezia, Gran premio della giuria, e candidatura italiana agli Oscar dove è entrato nella shortlist dei 15 migliori film internazionali.
La sala professori di Ilker Çatak
Carla Nowak insegna matematica e educazione fisica in una seconda media di un buon istituto tedesco. È preparata, coinvolgente, amata dalla classe. Il conflitto nasce quando nella scuola avvengono dei piccoli furti e si deve scoprire il colpevole. Da qui comincia la battaglia, prima sorda, poi fragorosa. Costruito con una sceneggiatura attenta, scritta dal regista Ilker Çatak e da Johannes Duncker, talmente ben annodata da sembrare una matassa inestricabile, La sala professori è un dispositivo narrativo lucidissimo, in grado di provocare un senso di claustrofobia profondo e straniante. Alla base c’è un meccanismo implacabile che sovverte ogni regola, anche grazie alla suspense (impossibile non pensare a Hitchcock), esplicitato dalla costruzione estetica dell’immagine: il formato quadrato in 1,33:1 da cui è difficile fuggire, il colore virato al grigio proprio per evidenziare la gravità delle vicende, l’uso dei primi piani e le riprese dall’alto. A diventare campo di battaglia è la classe stessa, luogo dove esplode tutto, specchio e potente analogia tra società e scuola: così, attraverso il linguaggio universale delle dinamiche scolastiche, emerge ciò che siamo. L’opera fotografa lo stato di un’istituzione in crisi e lo sguardo di Çatak è in grado di raccontare un microspazio, entrare nelle maglie del tessuto e allargarle: con una grande cautela e un’estrema lucidità, sostenute da una colonna sonora asciutta, chi guarda cade così nella spirale del tutti contro tutti, ma continua imperterrito ad opporre resistenza a ciò che si svolge davanti ai suoi occhi.
La storia di Souleymane di Boris Lojkine
Souleymane, giovane rider guineano, sfreccia in bicicletta tra le strade di Parigi in attesa del suo incontro con l’ufficio immigrazione, che determinerà se avrà o meno il diritto di rimanere in Francia. Nei tre giorni che precedono il fatidico colloquio, tra corse contro il tempo per le consegne, sistemazioni provvisorie e un’identità precaria – che fa eco alle preoccupazioni per la madre e la fidanzata rimaste nel paese d’origine –, il ragazzo impara malamente una storia fittizia della sua vita, che gli è stata affibbiata in maniera del tutto anonima con l’intento di ingannare il sistema e farsi quindi accogliere nonostante le reali difficoltà personali. Boris Lojkine immerge lo sguardo filmico nel caos quotidiano di un migrante che lotta per ottenere l’asilo e che deve fare i conti con una burocrazia che sembra averlo già condannato. Il racconto è asciutto, serrato, e il filtro registico, che sta addosso alla disperazione di Souleymane in ogni istante del suo percorso, diventa grido di denuncia sulle ingiustizie sociali della contemporaneità: un grido che sveglia lo spettatore dal sonno dell’indifferenza, costringendolo a confrontarsi con un mondo di cui è forse complice. Premio della Giuria e al miglior attore Abou Sangare nella sezione Un Certain Regard al festival di Cannes.
Povere creature! di Yorgos Lanthimos
Giovane con il cervello da neonato o neonata con il corpo di donna, Bella è frutto di uno degli esperimenti di un eccentrico scienziato, Godwin Baxter, padre e dio per lei – God, appunto. Partendo dal grado zero pur essendo in un corpo adulto, all’inizio si comporta come una bambina, grugnendo, lanciando piatti, ballando. Il verso della sua esistenza cambia quando percepisce il desiderio di uscire dal guscio, entrare nel mondo, solo così potrà essere sempre più vicina a sé stessa. Povere creature! segue e insegue il viaggio interiore ed esteriore della sua protagonista (espresso perfettamente anche dagli abiti che indossa) da ingenua, infantile bambina, in balìa degli uomini che incontra, a donna sessualmente e politicamente liberata che sa perfettamente chi è e cosa vuole diventare. Yorgos Lanthimos, regista complesso, per certi versi unico nel suo genere, padre di un cinema feroce e disilluso, narratore di un’umanità crudele e violenta, incapace di provare sentimenti, porta al cinema Povere creature! a partire sull’omonimo romanzo di Alasdair Gray. Il cineasta, creatore di storie grottesche e al limite del fantastico, di fiabe nere che stupiscono e spaventano, demiurgo di opere-dinamite, compone un film mondo, stratificato e ricchissimo come lo è la sua protagonista, Bella Baxter, una Frankenstein steampunk retro-futurista e iper-femminista, una strepitosa Emma Stone che dà corpo alla ricerca di libertà e indipendenza del suo personaggio. Leone d’oro alla 80ª Mostra del cinema di Venezia.
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