I migliori film del 2023
La top ten delle migliori pellicole uscite quest’anno nelle sale italiane, tra Tár e Disco Boy, Mendes e Sorogoyen
In un anno florido per il cinema italiano, in cui C’è ancora domani di Paola Cortellesi ha sfondato al botteghino superando i 30 milioni di euro di incasso, le sale si sono popolate di esordi brillanti – tra i tanti Una sterminata domenica di Alain Parroni, Disco Boy di Giacomo Abruzzese, Non credo in niente di Alessandro Marzullo – e di opere di maestri affermati come Bellocchio e Moretti con Rapito e Il sol dell’avvenire che non hanno deluso le attese, senza dimenticare l’exploit di Andrea Di Stefano con L’ultima notte di Amore e il ritorno di Emma Dante con Misericordia. La nostra redazione ha premiato questa annata scegliendo ben tre film su dieci che battono bandiera italiana, accompagnati da equilibrati ospiti internazionali: Spagna, Francia, Romania, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, con un titolo a testa. Come da tradizione, la classifica della redazione di cinema de L’Eco del Nulla non è numerata, ma seleziona e segnala dieci film che, per noi, non dovreste assolutamente perdervi.
As bestas di Rodrigo Sorogoyen
In un paesino della campagna spagnola, i francesi Olga e Antoine, moglie e marito, lavorano al loro appezzamento di terra e alla ristrutturazione di alcune proprietà abbandonate, seguendo un’idea di sostenibilità sociale e ambientale. Le relazioni con i fratelli Xan e Lorenzo Anta, che li vedono solo come stranieri, sono inasprite dal voto contrario della coppia alla vendita dei terreni ad una società di impianti eolici, una prospettiva di ricchezza sfumata che gli Anta non riescono a digerire. Il loro risentimento cresce e dalle parole passa presto agli atti vandalici e alle minacce, rischiando di trasformarsi in qualcosa di più grave. Ispirato a fatti realmente accaduti nella cittadina di Santoalla, alla cui storia era già stato dedicato un documentario nel 2016, il film di Sorogoyen si addentra nello scontro tra due mondi e due modi speculari di vivere il lavoro rurale, con un passo lento che unisce il taglio documentaristico alla suspense tipica del thriller. Le oltre due ore di film, grazie alla scrittura attenta e puntuale, alle splendide interpretazioni di tutto il cast e allo sguardo intenso del regista spagnolo, immergono lo spettatore in una storia particolare che riflette molto più in grande il conflitto del mondo contemporaneo. Il dialogo al bar tra Xan e Antoine e la sequenza nel bosco autunnale, che echeggia l’addomesticamento dei cavalli raccontato in apertura, sono due dei più grandi momenti di cinema dell’anno. 9 premi Goya tra cui miglior film, regia, attori protagonista e non protagonista e sceneggiatura e premio César al miglior film straniero.
Empire of Light di Sam Mendes
In una città costiera del Kent dei primi anni Ottanta che sembra riflettere la sua solitudine vive Hilary Small, direttrice di sala dell’Empire Cinema, una sala un tempo gloriosa e oggi lontana dai fasti del passato. Le sue giornate scorrono monotone, tra il lavoro, una grigia vita domestica e i tristi rapporti sessuali nell’ufficio del suo capo, finché al cinema non viene assunto il giovane Stephen, che sembra darle nuova linfa. Dopo la magniloquenza degli 007 e di 1917, Sam Mendes firma un’opera monumentale nella messinscena – il suo sguardo ampio, la fotografia di Roger Deakins, le scenografie di Mark Tildesley – eppure intima, umana, delicata come forse non gli accadeva dai tempi di American Life (2009). Empire of Light è un film che vive di più anime, riuscendo con grande maestria a parlare di relazioni sentimentali e questioni collettive, di depressione e instabilità mentale, di razzismo e del conflitto sociale nell’Inghilterra di Margaret Tatcher. È, anche, un commosso omaggio al cinema come spazio fisico del sogno e come luogo dell’immaginario. Con una straordinaria Olivia Colman e un cast di prim’ordine nei ruoli di secondo piano: Colin Firth nella parte del capo Donald e Toby Jones in quella del proiezionista Norman.
Anatomia di una caduta di Justine Triet
La vita di Sandra, scrittrice tedesca trasferitasi in una cittadina francese di montagna per amore del marito Samuel, viene stravolta quando il figlio Daniel, di ritorno da una passeggiata, trova il padre senza vita nella neve. La strana dinamica della caduta, la casa isolata e l’assenza di altre persone oltre ai tre componenti della famiglia fanno ricadere presto i sospetti su Sandra, che chiama un suo vecchio amico avvocato a difenderla in tribunale. Facendo eco al classico di Otto Preminger Anatomia di un omicidio (1959), Triet mette in scena la dissezione legale degli avvenimenti che conducono alla morte di Samuel, sfruttando la corte come luogo per esplorare le crepe intime del contesto familiare dei protagonisti. Un film sui fili sottili che uniscono i componenti di una famiglia, sul conflitto tra fatti e emozioni, tra realtà e rappresentazione, sul significato della verità. La proliferazione di immagini – il piano cinematografico, i video delle ricostruzioni degli investigatori, il piano onirico dell’immaginazione di Daniel, le vecchie fotografie della famiglia – moltiplica i punti di vista e restituisce la frammentazione del reale che manda fuori strada il figlio e gli spettatori, trascinati in un prisma di fatti e di ipotesi altrettanto plausibili oltre le quali, come dice il film stesso, non si può far altro che scegliere. Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Disco Boy di Giacomo Abruzzese
Due guerrieri provenienti da due mondi opposti si scontrano all’ultimo sangue sul delta del fiume Niger. Aleksei, un clandestino bielorusso in fuga dal suo passato, si è arruolato nella Legione Straniera a Parigi, disposto a combattere in guerre che non gli appartengono pur di ottenere un passaporto e una nuova identità. Jomo, un ribelle africano dagli occhi eterocromi, pratica la lotta armata contro gli abusi delle compagnie petrolifere ed è pronto a sacrificarsi a ogni costo per difendere la sua terra. Il punto di contatto ultra-sensoriale fra i due combattenti sarà Udoka, sorella di Jomo, che vorrebbe invece lasciare il paese. L’opera prima di Giacomo Abbruzzese ha un’identità autoriale solida e matura, che plasma l’estetica del film con scelte visive forti, incentrate sulla fisicità delle immagini che, a specchio dei protagonisti, mostrano una danza di corpi che si scontrano e impastano fra loro, confondendo il confine tra vittime e carnefici. In questo scontro privo di giudizio etico e di vincitori morali, la camera termica diventa il mezzo per raccontare il conflitto notturno tra Aleksei e Jomo, i cui corpi si mescolano in colori accesi e forme indefinite. Ciò che rimane è un fantasma, quello della guerra e della morte, e uno sguardo bi-colore: un punto di vista sulla realtà che non potrà mai essere unitario. Orso d’argento al miglior contributo artistico (la fotografia di Hélène Louvart) alla 73ª Berlinale.
Aftersun di Charlotte Wells
Anni Novanta. Callum e Sophie, padre e figlia, sono in vacanza in una località turistica sulla costa turca. Tutto sembra perfetto, tra escursioni, buffet in hotel e ore pigre in piscina, vivono quest’estate con sottile e profonda malinconia. Callum è padre giovane – appena ventenne alla nascita di Sophie – ormai separato dalla madre di sua figlia e questa vacanza, prima dell’inizio dell’anno scolastico, è un luogo pieno d’amore e affetto, iperreale e onirico, uno spazio magico in cui il tempo sembra non avere coordinate. Padre e figlia documentano ogni istante di quei giorni ma resta sempre qualcosa ai margini, magma tenero e silenzioso, uno sguardo, un pianto. Questo racconta Aftersun, opera prima della 35enne Charlotte Wells, che si costruisce come un ricordo personale, intimo, immerso in una nebbia di memoria e immaginazione di Sophie che ripensa a ciò che è stato. È come sfogliare un album delle vacanze, i diari intrisi di ricordi in cui tutto è bello. In ogni momento, lite, sorriso c’è un meraviglioso e doloroso senso di mistero che percorre un film affascinante e delicato come una lenta e amorevole carezza. Wells coglie la realtà densa e complessa del legame tra Callum e Sophie, registra le rapide e impalpabili fluttuazioni, i piccoli e grandi terremoti tra un padre e una figlia, interpretati meravigliosamente da Mescal e Corio, leggeri, sofferenti, talmente adorabili da sentirli vicinissimi, talmente naturali da sembrare protagonisti di un documentario. Chi guarda è trascinato nella costa turca, tra le pieghe e gli abbracci, tra i video della vacanza, nella cronistoria di un amore che esiste oltre l’inquadratura.
La chimera di Alice Rohrwacher
Il litorale tirrenico è disseminato di tombe etrusche e Arthur, “l’inglese”, possiede il dono di individuarle a colpo sicuro. La patina è quella degli anni Ottanta e i suoi amici tombaroli che ne sfruttano le abilità da mago rabdomante sono in cerca di guadagni facili tramite la vendita dei reperti al mercato nero. Il rapporto di Arthur con il sottosuolo e i tesori dell’antichità sepolti nella terra, però, è ben più profondo e il giovane uomo cerca in realtà una connessione con l’aldilà con Beniamina, il suo amore perduto. Con La chimera Alice Rohrwacher torna a costruire i suoi mondi sospesi tra reale e fiabesco, presente e passato mantenendo quell’impronta autoriale intima, personale, libera che da sempre contraddistingue il suo cinema. Un cinema che sa essere garbato e allo stesso tempo potente, che insegue ostinatamente quella che per il protagonista Arthur è solo una “chimera”, cioè il sottile filo rosso che unisce eternamente la vita e l’oltre-vita, il visibile all’invisibile.
Io capitano di Matteo Garrone
Seydou e Moussa, due cugini senegalesi adolescenti, mettono da parte un buon gruzzoletto lavorando di nascosto e intraprendono clandestinamente un viaggio epico attraverso il deserto del Sahara, le prigioni libiche e le insidie del Mar Mediterraneo, per realizzare il loro sogno di diventare stelle della musica in Europa. La lunga avventura si rivela atroce e i due giovani si ritrovano ad affrontare furti, violenze e soprusi non preventivati, che a poco a poco però aprono una finestra di estrema umanità sull’età adulta, la solidarietà reciproca e la responsabilità del proprio agire. Col suo Io, capitano Matteo Garrone inverte l’ormai logoro punto di vista europeista sui migranti, fornendo il controcampo di chi sceglie di partire. La sua opera, magnificente dal punto di vista visivo seppur asciutta in termini registici, offre una visione pura e autentica su un tema delicatissimo affondando le radici del racconto nella struttura del viaggio omerico. È una parabola sulla dignità umana in cui l’eroe, timoniere e “capitano”, è Seydou; il suo sguardo limpido guarda alle atrocità del mondo con coraggio e sincerità, restituendo empatia e coinvolgimento anche allo spettatore più disincantato. All’ombra del senso di colpa nei confronti della madre – abbandonata con l’inganno nonostante i ripetuti avvertimenti –, il ragazzo ne sente profondamente la mancanza che quasi compensa prendendosi cura degli altri, non solo per sopravvivere ma anche per preservare il ricordo di coloro che non riusciranno mai a raggiungere l’agognata meta. Leone d’Argento per la miglior regia e Premio Mastroianni come miglior attore emergente a Seydou Sarr a Venezia.
Il cielo brucia di Christian Petzold
Gli amici Felix e Leon raggiungono la casa al mare del primo per trascorrere un periodo di relax, ma scoprono che la casa è già occupata da Nadja, ospite non annunciata della madre di Felix. La presenza di Nadja e di un bagnino locale con cui la ragazza ha una relazione ambigua, mentre Leon lavora al suo secondo romanzo e Felix a un portfolio fotografico per l’Accademia, altera la serenità e le dinamiche tra ognuno di loro. La tensione cresce di pari passo all’incedere degli incendi che minacciano la zona e alla connessione tra Nadja e Leon, vittima della sua mente nella lotta con l’abulia e la revisione del suo romanzo. Maestro nell’ancorare le traiettorie relazionali ed esistenziali dei suoi personaggi all’ambiente che li circonda e talvolta sovrasta, Christian Petzold torna al grande schermo con un’opera che fa dialogare natura e uomo, ironia e tragedia, parola e immagine. Nel cinema del regista tedesco, e in questo film ancor più esplicitamente, la dimensione letteraria e quella visiva si incontrano per dischiudere la problematicità dei rapporti umani e della rappresentabilità del reale mentre il paesaggio, portavoce dei sentimenti, prende le tinte rossastre di un cielo che brucia. Ancora una volta, come già in Undine e La scelta di Barbara, il perno narrativo ruota attorno a una figura femminile, la bravissima Paula Beer, già alla terza collaborazione con Petzold, che qui traghetta e incanala inconsapevolmente il destino emotivo di Leon. Gran Premio della Giuria alla 73ª Berlinale.
Tár di Todd Field
Lydia Tár è un talento straordinario, direttrice e compositrice di livello mondiale. È sposata con la sua prima violinista, con cui ha una figlia, e ha un ego gigantesco che va di pari passo con la sua reputazione. È chiaramente Lydia il centro di Tár del regista Todd Field che mette in scena la caduta del mito, la cancellazione di lei e di ciò che rappresenta. È magnifica direttrice certo, ma è una persona mostruosa, una narcisista capricciosa che affascina e irretisce stelle nascenti, umilia chi la pensa diversamente perché nulla esiste che lei non voglia. Fin dall’incipit si comprende che il film è il corpo attoriale di Cate Blanchett, teso a spiegare tutto, talento e ombre profonde e spaventose della sua protagonista. È lei ad accompagnarci nella storia, a conquistare l’uditorio, affascinando il pubblico parlando di temi complessi. Blanchett cura gesti, voce, presenza nello spazio e Lydia è enorme, complessa, sfaccettata, crudele, si muove con eleganza imperiale e imperiosa fermezza. Per Tár iniziano i problemi a causa di un atteggiamento pericoloso, lei è una predatrice, gestisce un programma di borse di studio per donne e le voci secondo cui la direttrice usa il proprio ruolo per ottenere favori, anche sessuali, dalle allieve sono molte, troppe. E allora tutto crolla, va in pezzi, e lo fa anche Lydia. Tár è un’opera che discute e analizza la questione del potere, incarnato da una donna che mutua gli atteggiamenti maschili reiterandone la violenza strutturale in una parabola di mito e caduta che coinvolge e sconvolge. Coppa Volpi alla migliore interpretazione femminile alla Mostra del Cinema di Venezia per un’incredibile Cate Blanchett.
Animali selvatici di Cristian Mungiu
Durante il periodo natalizio, la comunità di una cittadina multiculturale tra le montagne della Transilvania viene scossa dall’arrivo di alcuni lavoratori dello Sri Lanka nel panificio locale. Mentre gli animi si scaldano Matthias, appena rientrato dalla Germania, cerca di consolidare il rapporto con il figlio Rudi, che ha smesso di parlare dopo aver visto qualcosa nel bosco, e di gestire il conflitto con la moglie Ana e con l’amante Csilla, direttrice del panificio. Il titolo originale R.M.N. sta per “risonanza magnetica nucleare”, l’analisi a cui si sottopone Otto, il padre di Matthias, speculare a quella di Mungiu, che analizza le complesse dinamiche del conflitto interno di un paese. Il film conduce lo spettatore in un viaggio pieno di contraddizioni come la comunità che racconta, in un percorso di analisi sociologica che lentamente diventa anche riflessione antropologica, filmata con grande eleganza formale e con un estremo realismo visivo macchiato di slanci onirici. Basato – come lo speculare As bestas di Sorogoyen – su avvenimenti reali che hanno coinvolto la cittadina rumena di Ditrău, Animali selvatici è l’ennesimo esempio contemporaneo (si potrebbero citare anche Gli orsi non esistono di Panahi e The Old Oak di Ken Loach) di un cinema che tenta di approfondire senza manicheismi i limiti dell’integrazione di un mondo globalizzato e di addentrarsi nel conflitto apparentemente irrisolvibile che nasce dallo scontro tra comunità.
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