I migliori film del 2016

Da Tom Ford a De Angelis, da Ken Loach a Mainetti, da Iñárritu a Xavier Dolan

La classifica dei migliori film usciti in Italia nel 2016 per i redattori della sezione Cinematografo de L'Eco del Nulla è arrivata. Una top ten da non perdere, dal raffinatissimo Animali notturni di Tom Ford al caciarone Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, con qualche piccola chicca in chiusura. Tutto rigorosamente non numerato: nessuna classifica, soltanto dieci titoli dell'anno appena passato che non dovreste assolutamente perdervi.

Animali notturni di Tom Ford
Seguendo l’intreccio narrativo di un libro scritto e fattole recapitare dal suo ex (J. Gyllenhaal), Susan (A. Adams) ripercorre spontaneamente i ricordi della loro ormai tramontata storia d’amore, trovandosi con l’amaro in bocca dietro ogni svolta narrativa, seguendo il filo delle memorie intrise di una glaciale e congenita violenza, nel libro come nella realtà. Secondo film dell’ormai non più esordiente Tom Ford, all’anagrafe Thomas Carlyle Ford, stilista che rilanciò il marchio Gucci e possessore dell’omonimo brand Tom Ford attivo nel settore della moda; sei anni dopo A Single Man (2009) il regista d’origini texane mette in scena un thriller d’ordinaria ferocia, alternando l’elaborazione del dolore di chi ha subito un trauma e cerca di espiarlo nella letteratura, al tragico rimorso di chi ha inferto quei colpi e non sarà mai in grado di dimenticare. Con occhio da sarto Ford cuce l'abito del film con regia meticolosa e costumi e scenografie eleganti quanto algide, come i sentimenti di Susan che la pellicola racconta.

Il figlio di Saul di László Nemes
Al suo film d’esordio il cineasta ungherese László Nemes – scuola Béla Tarr – soffoca dentro al formato 1,33 (il classico 4:3 televisivo) l’orrore della Shoah, eliminandone ogni volgare spettacolarizzazione. La macchina da presa mostra, pur senza omissioni, il punto di vista del protagonista Saul, che sente più che vedere l’inferno in cui è intrappolato, un mondo crudo e privo di umanità affollato da corpi accatastati, rumori assordanti, brandelli di carne e sangue senza nome, rappresentati in una lucida regia che nei confini di un quadro cinematografico opprimente nega ogni via di fuga. Il punto di fuga per Saul, tra i deportati “speciali” sonderkommando addetti alle operazioni di rimozione dei corpi dalle camere a gas e a quelle di cremazione, diventa così una paradossale e irragionevole ricerca d’umanità, una sorta di missione ossessiva: salvare il cadavere di un ragazzino, che crede essere suo figlio, dalla cremazione, per assicurargli la degna sepoltura e la pace che merita. Grand Prix Speciale della Giuria al 68º Festival di Cannes, Oscar come miglior film straniero 2016.

The Hateful Eight di Quentin Tarantino
In un West invernale otto personaggi poco raccomandabili rimangono bloccati insieme in una taverna a causa di una tempesta di neve. Sfruttando uno dei canoni cinematografici che hanno reso famoso il suo cinema, Tarantino mette in scena un gigantesco stallo alla messicana dove i protagonisti sono gli hateful eight, con otto interpreti in gara di bravura, da uno straordinario Samuel L. Jackson a un sotterraneo Tim Roth passando per la diabolica Jennifer Jason Leigh, sempre sopra le righe. Meravigliosamente scritto, sontuosamente fotografato da Robert Richardson, elegantemente raccontato (con annessa suddivisione in capitoli come da tradizione tarantiniana) con il passo lento del grande cinema. Colonna sonora di Ennio Morricone.

Indivisibili di Edoardo De Angelis
Viola e Daisy sono sorelle, cantanti neomelodiche che si esibiscono a Castelvolturno e dintorni con al seguito tutta la famiglia, che vive sulle loro spalle grazie alla particolarità delle ragazze. Viola e Daisy infatti non sono soltanto sorelle: sono gemelle siamesi; ma la loro vita cambia quando un medico rivela loro, al contrario di quello che la famiglia gli aveva sempre detto, che con un’operazione chirurgica si possono separare. Edoardo De Angelis, già regista di Perez. e Mozzarella Stories, modella con fango campano le gemelle Daisy e Violet Hilton – vere siamesi protagoniste di Freaks di Tod Browning – e le intride di passione e conflitto, con la propria famiglia che le vuole possedere e tra l’una e l’altra per definirsi come singoli. Una storia di muscolare poesia che scava nella melma e ne tira fuori attimi di straordinaria bellezza.
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Revenant - Redivivo di Alejandro González Iñárritu
La storia vera di Hugh Glass, già trasposta in Uomo bianco, va’ col tuo dio! del 1971 di Richard C. Sarafian con Richard Harris, trova nella pellicola di Iñárritu un adattamento non fedelissimo alle vicende storiche, più che altro basato sulla versione dell’omonimo romanzo The Revenant di Michael Punke, del 2002. Il risultato è un’esperienza cinematografica totale. Il cineasta messicano costruisce insieme al suo fidato direttore della fotografia Lubezki un’estetica imperiosa in cui la macchina da presa è presente, fluttua, giustificatamente invade, irrompe nello schermo fino a sporcarsi di sangue, macchiandosi del respiro di Glass, quel respiro che lo tiene sospeso, animato attimo dopo attimo dal calore animalesco e viscerale dell’amore, della vendetta e del brutale istinto del sopravvivere. Oscar alla miglior regia, alla miglior fotografia e al miglior attore protagonista per DiCaprio.
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Io, Daniel Blake di Ken Loach
Daniel Blake, lavoratore di Newcastle ormai quasi sessantenne, chiede un sussidio allo Stato a causa di una grave crisi cardiaca in seguito alla quale gli è stato severamente proibito di lavorare. L’uomo però, nell’attesa che venga approvata la sua richiesta d’indennità per malattia, rimane avvinghiato nei complessi e paradossali meccanismi del sistema burocratico britannico per i quali sarà costretto a dover cercare comunque un lavoro, rischiando peraltro una rigida sanzione. Torna imperante il cinema di Ken Loach che, nell’algidità di uno sguardo disincantato, riesce a far emergere lucidamente la brutalità del reale e le sue contraddizioni. La dimensione è ancora una volta quella sociale entro la quale restano vittime impotenti i poveri lavoratori che, pur inghiottiti in un meccanismo più grande di loro che spesso svilisce e annienta le loro vite, difendono ad ogni costo la dignità umana e la solidarietà reciproca che li fa esistere come individui: “Io, Daniel Blake”. Palma d’Oro al 69º Festival di Cannes.

Fuocoammare di Gianfranco Rosi
«Durante le notti passavano le navi militari, era tempo di guerra», racconta la nonna al nipotino Samuele, spaventato dal clamore delle nubi. «Le navi lanciavano i razzi luminosi in aria e a mare c’era… sembrava ci fosse fuoco a mare». «Fuoco a mare?». «Diventava rosso, il mare», risponde la nonna, «Tempo di guerra». Così sono i tempi di Lampedusa, l’isola siciliana da vent’anni al centro del fenomeno migratorio che Rosi decide di filmare testimoniando con regia spoglia e antiretorica la straordinarietà dei soccorsi in mare e la quotidianità della vita dei suoi seimila abitanti attraverso gli occhi (uno sano, l’altro pigro) del giovane Samuele. Nello sguardo dei soccorritori, le tute bianche a scoprire i soli occhi, che a braccia conserte e mani sui fianchi guardano rassegnati il mare pallido con ai piedi i corpi senza vita di chi non ce l’ha fatta, Fuocoammare trascende la dimensione documentaristica e si fa cinema puro e potente. Orso d’Oro a Berlino.

È solo la fine del mondo di Xavier Dolan
Sono dodici anni che Louis (G. Ulliel), drammaturgo di successo, manca da casa e ora vi torna per rivelare alla famiglia un segreto, la propria malattia. Ad attenderlo l’abbraccio avvolgente ma distaccato della sorella Suzanne, del fratello Antoine, della cognata Catherine e della madre, sempre pronti a recriminare, parlare di sé, non ascoltare. Xavier Dolan, traendo ispirazione dalla pièce di Jean-Luc Lagarce, torna al cinema con È solo la fine del mondo, una storia di ritorno e partenza, piena di primi piani, urla e pianti. Dentro a quella casa il regista toglie l’aria, eppure si respira a pieni polmoni, toglie la vita ma questa pulsa forte nelle vene, non dà pace perché ci si trova in “guerra”. È solo la fine del mondo è disequilibro, dissonanza e incomunicabilità capace di sgretolare muri, pura (im)perfezione nella sua esasperata ridondanza. Grand Prix Speciale della Giuria al 69º Festival di Cannes.
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La ragazza senza nome di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Nel loro ultimo film i fratelli Dardenne si addentrano con il loro stile inconfondibile e disadorno nelle fitte trame della detection, raccontando la storia di una giovane dottoressa la cui algida deontologia viene improvvisamente minata da una terribile leggerezza. In un paradossale ribaltamento rispetto a ciò che la medicina le chiede, quella stessa dottoressa si ritrova così a essere responsabile della morte di qualcuno: una ragazza africana uccisa dopo aver suonato invano alla porta del suo ambulatorio e trovata senza vita e senza documenti in grado d’identificarla. L’ossessione per la ragazza sconosciuta finisce col possedere completamente la protagonista che cercherà a tutti i costi di portare a termine quella sorta di missione risarcitoria volta a restituire un nome alla ragazza e l’agognata serenità alla propria coscienza.
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Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti
Un giorno Enzo Ceccotti, accattone pieno di romanità a cui Claudio Santamaria dona chili di troppo, inadeguatezza e indolenza, si getta nel Tevere per sfuggire alla polizia e ne esce dotato di poteri straordinari. Gabriele Mainetti conquista pubblico e critica con l’opera prima Lo chiamavano Jeeg Robot, film sui supereroi contaminato da azione e ironia. Da Tor Bella Monaca allo Stadio Olimpico si concretizza una laica cosmogonia in cui il mito dell’uomo qualunque, fattosi super uomo, si slabbra e diventa qualcosa di più. Mainetti, attraverso i piccoli furti di Enzo, infarcito di budini e porno, l’ossessione di fama e successo dello Zingaro suo antagonista (L. Marinelli), Joker disperato e violento, e il volto di Alessia (I. Pastorelli), una principessa piena di ferite, mostra disagio e solitudine di un’intera società che custodisce al suo interno il germe della redenzione.

Nella nostra nota a margine per il cinema italiano ricordiamo alcuni film fuori classifica: Veloce come il vento di Matteo Rovere, Antonia di Ferdinando Cito Filomarino sulla poetessa Antonia Pozzi (leggi l'intervista a Filomarino qui ► Immaginare la poesia), lo sguardo giovane e sconclusionato di The Pills - Sempre meglio che lavorare, e l'anglofono Mine del duo Fabio Guaglione/Fabio Resinario, un compatto thriller filosofico di ambientazione bellica sulla scia di Buried. Segnaliamo anche Un padre, una figlia del romeno Cristian Mungiu, autore di Oltre le colline, finito per un soffio fuori dalla top ten.


Parte della serie I migliori film dell'anno

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