I fiori calpestati

Gezi Park, la Turchia un anno dopo

È passato un anno da quando la scintilla delle rivolte di piazza Taksim ha squarciato il buio della Turchia di Recep Tayyip Erdogan , catapultando per alcuni giorni tutta Istanbul in quel mondo di resistenza e di gioia insurrezionale che le telecamere dei telegiornali ci raccontavano attraverso le immagini della città libertaria che era in quei momenti Gezi Park. È giusto parlare di scintilla, perché è partita dal niente. Cosa rappresentava in fondo la protesta di una cinquantina di attivisti a presidio dell’ennesimo punto verde spazzato via da un ennesimo centro commerciale? Assolutamente nulla. E per questo non ha preoccupato il governo, che della speculazione immobiliare aveva fatto quasi un punto programmatico. D’altra parte tutti gli episodi simili a questo verificatisi negli anni non avevano portato a sollevazioni popolari di particolare entità e non si vedeva per quale motivo Gezi Park avrebbe dovuto rappresentare un’eccezione a questa regola. Tanto più che la Turchia era nel 2013 in piena crescita economica e su questa prosperità (in larga parte garantita proprio dalla speculazione edilizia) l’AKP di Erdogan aveva fondato potere e stabilità elettorale.
Questo dato in particolare ha lasciato disarmati molti commentatori  davanti agli eventi di piazza Taksim: in tanti si chiedevano come fossero possibili movimenti di piazza di grande portata davanti a una situazione di benessere molto diversa, per esempio, da quella dei paesi interessati dalla Primavera araba. In realtà l’avanzamento economico turco presentava grandi limiti strutturali, essendo l’impennata del PIL basata sulla crescita senza controllo del debito estero e sulla divaricazione sociale (la Turchia era nel 2013 tra i paesi più diseguali secondo l’OCSE). La rabbia e l’impazienza davanti all’arrogante governo di Erdogan si gonfiavano più rapidamente degli indicatori economici.

Nel maggio del 2013 lo sgombero violento degli attivisti da parte della polizia non ebbe come riscontro l’indifferenza della popolazione: nel giro di pochissimo una manifestazione di cinquanta militanti si trasformò in un’imponente mobilitazione di massa di centinaia di migliaia di persone. Gli attivisti politici non erano che una goccia in questo oceano, dove differenze e odi antichi sembravano aver perso d’importanza: nello stesso corteo curdi e aleviti sfilavano insieme a turchi con tanto di bandiere raffiguranti Ataturk; militanti della sinistra rivoluzionaria marciavano a fianco di membri del Partito Repubblicano; addirittura tifoserie da sempre rivali si trovavano unite in cori antifascisti. Lo sciovinismo fu messo da parte in quelle giornate e solo questo rese possibile la compatta resistenza che i manifestanti dimostrarono per giorni davanti alle forze repressive dello Stato.
L’intervento del presidente della Repubblica Gul che invocava “moderazione” non riuscì a calmare la protesta, e sortì effetti incendiari la pretesa di Erdogan di accompagnare alla costruzione del centro commerciale l’edificazione di una moschea e di una caserma ottomana: la richiesta di un governo finalmente laico si aggiunse alle rivendicazioni agitate dalla piazza e trovò ampia risonanza nei social network. Proprio Facebook e Twitter si rivelarono preziosi strumenti per i ribelli, in quanto mezzi di informazione liberi dalla censura del governo e utilizzabili anche come centro di coordinamento. Tutti gli occhi dell’informazione mondiale erano puntati su Istanbul: in quei giorni anche la Turchia sembrò contagiata dallo stesso movimento rivoluzionario che tra il 2010 e il 2011 aveva coinvolto il Mediterraneo, un movimento non estraneo a contraddizioni e a oscurità, ma che sembrava legittimare un sentimento di speranza per quei Paesi da troppo tempo ridotti a pedoni in una scacchiera sempre uguale a se stessa, sospesi tra le pretese imperiali statunitensi e l’oscurantismo religioso.

Ma se è giusto parlare di scintilla è anche perché, quasi con la stessa velocità con cui era iniziato, il movimento di Piazza Taksim è finito senza portare a nessun risultato importante. Nonostante il generoso sforzo della piazza dopo giornate e giornate di lotta logorante le forze di polizia hanno avuto ragione dei manifestanti, a prezzo di otto morti e di quasi ottomila feriti. Il governo da quei giorni ha proibito ogni tipo di manifestazione a Taksim così come in piazza Kizilay ad Ankara, l’altro luogo caldo della rivolta. Gli abitanti di Istanbul hanno provato a commemorare l’anniversario di Gezi Park con i loro libri e i loro fiori, ma hanno dovuto retrocedere davanti alla dura risposta delle forze dell’ordine, che nelle operazioni di sgombero hanno ferito anche giornalisti americani e italiani. Il potere di Erdogan e del partito islamista AKP è uscito rafforzato dalle elezioni amministrative di marzo, nonostante i tanti scandali accumulati nel corso del suo mandato. 
È difficile quindi tracciare un bilancio complessivo di quanto è accaduto: l’impressione è quella di una storia ancora tutta da scrivere ma che ha poche possibilità di seguito se non a fronte di un cambio di strategia generale del movimento. La composizione eterogenea del fronte anti-Erdogan ha rappresentato indubbiamente un qualcosa di molto positivo per la protesta, ma nell’assenza di obiettivi a lungo termine che non fossero quelli della caduta del governo si è rivelata essere anche un punto di oggettiva debolezza. Come coordinare forze tanto diverse? E come incanalare una partecipazione popolare così massiccia, che proprio per le sue dimensioni e la sua spontaneità è una variabile impossibile da controllare? Per riuscire a rapportarsi con successo a queste problematiche e alle aspettative che ha suscitato il movimento deve prima prendere atto della sua sconfitta. Sembra una costante della tante e diversissime mobilitazioni, più o meno di massa, che si sono susseguite negli anni zero, in Europa come in Africa come negli USA: necessarie, entusiaste ma condannate a vittorie di Pirro o a dissolvenze più o meno in nero. Questa è (per ora) la sorte dei çapulcu di Piazza Taksim, questa rischia di essere la sorte di Occupy Wall Street o del movimento degli Indignados spagnoli: rapide scintille di fiamma, in attesa dell’incendio.


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