I corpi di Ducournau
Desiderio, violenza e post-umanità nel cinema della regista di Titane, Palma d'Oro al festival di Cannes
In Raw, lungometraggio d’esordio di Julia Ducournau, la sequenza che fa più accapponare la pelle, aprire e chiudere gli occhi dalla paura e contorcersi dal fastidio, è quella in cui a Justine (Garance Marillier) viene fatta una ceretta all’inguine. La macchina da presa non ci fa vedere il suo volto corrugato e intimorito procedendo invece lentamente lungo le linee e sinuosità del suo corpo fino a fermarsi all’altezza delle cosce divaricate; la sorella di Justine insiste perché la giovane si faccia fare questa ceretta brasiliana, quasi fosse un rito iniziatico, come la maggior parte delle cose che succedono nella scuola di veterinaria dove studiano entrambe – ad esempio, le matricole che devono mangiare rene di coniglio per farsi accettare dai più grandi. La scena della ceretta è decisiva per due motivi. In primo luogo, anticipa il turning point del film, il momento in cui Justine entra a contatto con le sue pulsioni cannibalesche; poi, chiarifica il modo in cui Ducournau gioca con la tensione, le aspettative e i desideri dello spettatore: lo sgradevole dettaglio del pezzettino di ceretta che non si stacca e i brividi e il fastidio che questo indugiare provoca, a livello epidermico, in chi guarda, trovano un corrispettivo in una scena di Titane altrettanto fondamentale. Alexia (Agathe Rousselle) resta incinta di una Cadillac e da quel momento sente crescere dentro di sé, oltre che un’altra creatura mostruosa, un implacabile istinto omicida. Alexia incontra Justine – di nuovo Garance Marillier – e sono l’una molto attratta dall’altra. Cominciano a scambiarsi effusioni e a un certo punto Alexia comincia a leccarle i capezzoli quasi volesse staccarglieli: di nuovo Ducournau sembra non voler distogliere lo sguardo da quel particolare inquietante e morboso, ravvicinato e fermo su quella porzione di inquadratura.
In quest’attitudine dello sguardo, la cineasta francese ricorda molto Claire Denis, regista di Cannibal Love; una storia i cui caratteri torneranno in film come Kotoko di Shin’ya Tsukamoto o Dans ma peau di Marina de Van e che esplora gli spazi e i confini della corporeità umana, negando allo spettatore il piacere di riflettersi nei corpi rappresentati, non normativi e vulnerabili, proprio come nei due lungometraggi di Ducournau. Nel film di Denis – in cui, per altro, la libido sessuale sfocia verso il cannibalismo, quasi fosse una versione meno pop e iper-definita di Raw – la sinuosità dei passaggi da una sequenza all’altra o delle improvvise manifestazioni di immagini orride e mortifere nella mente di Shane (Vincent Gallo) si riflettono nell’uso dei particolari e nei movimenti sensuali della macchina da presa: nel riprendere l’iconica scena in cui Coré (Beatrice Dalle) divora il volto di uno dei suoi amanti, Denis si situa a una distanza minima dai corpi dei protagonisti in modo tale da restituire tutta l’urgenza dell’immagine così com’è, senza tagli o ellissi che avrebbero spezzato il profluvio di sensazioni che fuoriescono dall’intera sequenza.
Quello di Ducournau è un cinema che fa leva sui sensi e su quanto di più pulsionale e immediato trasmettono le immagini. La sua è una forma di erotismo violenta, carnale, primitiva
Come Denis, anche Ducournau resta attaccata alle superfici dei corpi. Il suo è un cinema che fa leva sui sensi e su quanto di più pulsionale e immediato trasmettono le immagini. La sua è una forma di erotismo violenta, carnale, primitiva: in altre parole, reale. È un cinema che rifiuta lo psicologismo, così come tutte le teorizzazioni, i costrutti e le etichette che gli vengono affibbiate, specialmente a Titane, forse per circoscriverne l’estraneità, il suo essere volutamente fuori dagli schemi. Nel suo discorso di ringraziamento, dopo la vittoria della Palma d’oro al Festival di Cannes, Ducournau ha affermato con voce tremante di aver voluto lasciare spazio ai (suoi) mostri e demoni, soggetti non performativi, quelli che vivono nel gradino più basso della piramide sociale, costruendo, quindi, una storia in cui poter empatizzare proprio con questi “ultimi”. La medesima empatia che si prova guardando il personaggio di Coré in Cannibal Love, vittima, per l’appunto, di un virus che la condannerà a una ricerca incontrollata di piacere assoluto e cannibalistico.
La piccola Alexia subito dopo l’intervento in cui le viene impiantata la placca di titanio in Titane (2021)
È facile congelare in un’interpretazione univoca e statica un film che per converso tende a diramarsi verso i temi e le prospettive più svariate, un racconto assolutamente non programmatico che, come pure ha sottolineato Xena Rowlands su I 400 Calci, non vuole dimostrare nulla, dal momento che la fluidità, la queerness di cui tanto si sta parlando a proposito di Ducournau, sono «le acque in cui si tuffa per inseguire una storia che non ha alcuna intenzione di farsi prendere né tantomeno di farsi imprigionare». La fluidità del film riguarda, quindi, non tanto l’aspetto – che resta esclusivamente estetico – della protagonista, su cui si è molto insistito: Alexia è un biological freak, per dirla con Linda Williams, metà donna e metà macchina, ibrida, post-umana, volutamente indefinita. La sua queerness è puramente esteriore, è evidente e chiara, ma non veicola una reale istanza politica e culturale, che invece emerge dall’estetica del film, dal suo osare attraverso le immagini, manipolandole, distorcendo codici e forme prestabilite.
La fluidità del film riguarda non tanto l’aspetto della protagonista – la sua queerness è puramente esteriore, è evidente e chiara, ma non veicola una reale istanza politica e culturale, che invece emerge dall’estetica di Titane
E non c’è niente di più politico e urgente di un discorso che guarda alla creazione di uno spazio estetico, cinematografico, in questo caso, sismico in cui poter rivedere, se non addirittura smontare e rimontare, canoni ormai consolidati. Consideriamo, infatti, la parola queer: persino l’etimologia mantiene l’ambiguità stessa del termine, che ha radici comuni con il germanico quer (“obliquo”), con il latino torquere (torcere) e con l’inglese athwart (“di traverso”). La ricchezza teorica della parola sta proprio nel suo essere problematica, aperta e fluttuante, trasversale e in continua ridefinizione. Qualcosa da ridefinire di continuo perché è infinitamente aperto, proprio come la porosità dei confini che avvolge Titane e Raw. Due film “fluidi” perché guardano a una pluralità di generi – body horror, storia di formazione – e temi e li fanno propri, in un gioco di rimandi e citazioni esposto.
Garance Marillier è Justine in Raw - Una cruda verità (2016) di Julia Ducournau, premio FIPRESCI a Cannes
Attraverso la metafora del cannibalismo e tutte le iperboli che questa scelta si porta dietro, a livello sia tematico che stilistico, Raw lascia trapelare tutta la carica violenta del sesso, o meglio, della scoperta del sesso in una fase di transizione, quella adolescenziale. Justine scopre una duplice pulsione: eros e cannibalismo si fondono per dare vita a una creatura libera di esplorare la propria identità e i propri desideri (sessuali) fuori norma. In The Monstrous-Feminine: Film, Feminism and Psychoanalysis, Barbara Creed analizza le figure femminili mostruose, i “mostri femminili” presenti in numerose pellicole horror, sostenendo che la teoria femminista si sia interessata troppo poco a questa tipologia di personaggi, focalizzandosi invece sulle figure di vittime femminili. Justine e Alexia sono tutto fuorché vittime: diventano padrone dei propri corpi a poco a poco, seppure con esiti diametralmente opposti; sono spaventose, repellenti agli occhi degli altri, mettono a disagio, non si conformano a un ideale né a una caratterizzazione specifica. Inoltre, Creed sottolinea come tutte le società governate dal patriarcato presentino una concezione propriamente tipica della donna-mostruosa, evidenziando, quindi, l’importanza del genere nella costruzione della mostruosità: specialmente Alexia è, in questo senso, una Gorgone contemporanea, per metà umana e per metà creatura mostruosa.
Julia Ducournau si appropria della materia cinematografica, rendendo sempre, e ironicamente, chiarissimo l’artificio
Consapevole che nel discorso culturale contemporaneo nulla si dà in forma pura – per cui ogni esperienza si svolge attraverso una pluralità di generi, codici, stilemi espressivi, in una specie di magma intersemiotico, di intreccio, cioè, di diversi canali cinematografici e non, in cui la componente visuale ha assunto un ruolo preponderante – Julia Ducournau si appropria della materia cinematografica, rendendo sempre, e ironicamente, chiarissimo l’artificio. C’è un importante lavoro sulla forma, sul riuso di un codice estetico e sulla sua scomposizione e trasmutazione in un’altra dimensione, in un altro mondo: il nostro. Ducournau inquadra il discorso sul corpo, su un corpo in transizione (Raw) e su un corpo non-umano e ibrido (Titane), per parlarci di desiderio, maturazione, di identità.
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