I confini dell’identità

Trieste attraverso le generazioni nella storia di Alma, romanzo premio Campiello di Federica Manzon

In questi anni in cui la guerra è tornata a imperversare nel cuore dell’Europa, la trappola dell’identità è scattata ancora una volta. Oggi come sempre le controversie riguardano i confini: quelli fisici e geografici, che dovrebbero demarcare le rispettive sfere d’influenza tra gli stati o gli imperi, ma anche quelli identitari, costruiti dalla propaganda attorno alla contrapposizione tra buoni e cattivi, dove tutte le parti in causa credono naturalmente di essere dalla parte della ragione. L’accecamento nazionalista ha già colpito l’Europa in diverse fasi della sua storia, da ultimo nelle guerre dei Balcani degli anni Novanta. Allora si trattò di una serie di guerre civili, nate lungo i confini interni, fattisi più spessi dopo la fine della Jugoslavia, e opportunamente rinfocolate dai governi nazionalisti. La costruzione frettolosa di identità contrapposte si giustificava allora in funzione dell’odio per qualcun altro, dalle cui sorti si desiderava smarcarsi, anche a costo, nel peggiore dei casi, di procedere all’annientamento dell’avversario. La storia ha mostrato a che cosa conduca questa forma di fanatismo identitario.

Anche i personaggi del romanzo Alma di Federica Manzon, vincitore del Premio Campiello 2024, sono ossessionati dall’identità, in una Trieste tanto vicina al confine jugoslavo da venire lambita dagli orrori che si consumano pochi chilometri più in là. La protagonista Alma, a dire il vero, fa di tutto per sottrarsi al marchio dell’identità durante la sua intera esistenza. La sua vicenda è infatti un percorso di formazione discontinuo, che procede di fuga in fuga.
 

Lei non saprebbe dire dove sta la sua appartenenza, neanche la sua città lo sa: la chiamano “città di carta” perché si è pensata sempre parte di una nazione che non era la sua, immaginava l’Austria, sognava il regno degli slavi, e perfino la nazione garibaldina, ma poi è rimasta estranea a tutto e soprattutto a sé stessa.


Giornalista ormai cinquantenne, Alma ritorna per tre giorni a Trieste, dopo vent’anni di peregrinazioni lontano dalla città e dal confine, lontano dal passato. Non è un caso che proprio durante il passaggio in quella città «rimasta estranea a tutto e soprattutto a sé stessa» la aspetti un incontro impegnativo con la sua storia personale, che si intreccia costantemente con quella collettiva. Non sarà tuttavia Trieste l’approdo del suo viaggio, ma Brioni maggiore, l’isola principale dell’arcipelago istriano, su cui si svolgono sia il prologo che l’epilogo della vicenda, l’uno ambientato nel passato remoto e vago della sua infanzia, l’altro nel presente del racconto.

L’anello di congiunzione tra le diverse dimensioni temporali è la sfuggente figura paterna di Alma, un uomo egoista, ma anche un grande costruttore di storie. Il padre era un tempo incaricato di trascrivere i discorsi ufficiali del maresciallo Tito, il padre-padrone della Jugoslavia comunista morto nel 1980. Alma deve recarsi sull’isola per ricevere da Vili, un suo coetaneo serbo cresciuto nella loro famiglia a Trieste, un’inattesa eredità paterna. Vili era comparso nella loro vita quando il padre, che era solito trascorrere lunghi periodi oltre confine senza dare notizie, l’aveva portato con sé, perché i suoi genitori, due intellettuali comunisti serbi, avevano preferito affidarglielo per dedicarsi anima e corpo alla causa della Jugoslavia titina. Rivedere Vili, con cui il rapporto si era fatto negli anni sempre più intricato dopo il trauma della guerra in cui lui aveva parteggiato attivamente per i nazionalisti serbi, e rivederlo per giunta per ricevere un’eredità da parte del padre di cui lei sa in fondo pochissimo, scatena in Alma un flusso di ricordi. Il flashback occupa le tre sezioni centrali del romanzo, scandite secondo i giorni della liturgia pasquale ortodossa e corrispondenti ai tre giorni trascorsi da Alma a Trieste: La città (Venerdì Santo), La guerra (Sabato Santo), Patrimonio (Domenica di Pasqua).
 

L’anello di congiunzione tra le diverse dimensioni temporali è il padre di Alma, un tempo incaricato di trascrivere i discorsi ufficiali del maresciallo Tito



Nel romanzo l’identità dei tre personaggi principali – Alma, il padre e Vili – non è mai data una volta per tutte. Non solo per lo sforzo della memoria, che sfuma i contorni delle cose e degli eventi, ma per un atteggiamento esistenziale che Alma eredita dai genitori e soprattutto dal padre. Quest’uomo, apparentemente ligio alla promessa comunista ma irrequieto nella sua vita privata, le ha trasmesso la passione per il superamento dei confini, ma anche l’incapacità di legarsi davvero ai luoghi e alle persone. Solo molti anni più tardi, nel ricordo, i frammenti cominciano a comporsi in un quadro unitario, che richiede una riscrittura integrale della storia familiare cui Alma ha creduto fino a quel momento. Se Alma ragazzina pensava di essere molto più simile ai nonni materni, ultimi esponenti di una Trieste mitteleuropea fortemente idealizzata nel libro attraverso il ritratto di una borghesia tutta intenta a leggere lo Zeit in vecchi caffè d’atmosfera viennese, la donna divenuta adulta capisce di avere molto più in comune con le figure instabili dei suoi genitori, che a quell’ordine borghese si erano ribellati o avevano cercato di sottrarsi. La Trieste monumentale diviene metafora del fardello di un passato opprimente e falsificato, come testimonia il culto dei poeti e degli scrittori legati alla città, Svevo, Joyce, Saba e tanti altri, di cui il padre le parla quando è ancora ragazzina.
 

“Ecco, ci sono quelle targhe perché qui sono nati importanti scrittori e poeti. Ma è successo tanti anni fa. Quando erano vivi nessuno li considerava, li disprezzavano, poi sono morti e tutti si sono messi a ricordarli e a dedicargli statue. Li studiate a scuola. Vi insegnano che sono dei classici. Voi studiate e studiate, e se per caso vi viene in mente di scrivere un racconto vostro, di fantasia, subito vi dicono che dovete prima studiare quei grandi scrittori, che sono la vostra eredità. A forza di dire così non sono più nati grandi scrittori in città. Il passato li ha schiacciati tutti”.
“Li ha schiacciati?”
“Sì, proprio morti, stecchiti”.
“Papà?”.
Lui si era messo a ridere: “Bisogna fuggire dalle eredità, zlato. Darsela a gambe levate”.


Accanto al monolite delle tradizioni e dell’identità, rappresentato dai nonni, Trieste apre però finestre su un’anormalità destabilizzante: in primis la “città dei matti”, la concretizzazione dell’utopia di Franco Basaglia, in cui la madre di Alma è impiegata. E poi il confine, che penetra fin dentro la città con il Narodni dom, la casa del popolo slovena di piazza Oberdan, e le chiese di rito ortodosso. Per questo le guerre balcaniche riguardano Trieste più che qualunque città italiana; per questo e per la sua attrazione per Vili e per la figura paterna anche Alma si ritrova nel mezzo del conflitto. Poco più che ventenne, si reca in veste di reporter nella Belgrado di Milosevic, ai tempi degli scontri con la Croazia e con la Bosnia Erzegovina protrattisi tra il 1991 e il 1995. Alma capita significativamente a Belgrado, dalla parte del torto, per così dire, e non nella città martire di Sarajevo, proprio perché il suo istinto e la voglia di seguire Vili, che nel frattempo è rientrato in patria, la spingono a esplorare il lato più oscuro di un conflitto intricatissimo. Quel soggiorno segna anche l’apice e la fine del suo rapporto con Vili, di cui la disgusta la cieca adesione alla causa nazionalista serba. Almeno in apparenza.
 


Gli scontri durante la protesta di Belgrado del 9 marzo del 1991 contro il governo di Slobodan Milosevic



Nell’universo del romanzo, le cose non stanno mai ferme, tutto cambia continuamente e stava già cambiando quando invece sembrava cristallizzato. È successo alla Jugoslavia della fragile unità titina, sbriciolatasi dopo la fine del maresciallo; è accaduto anche alla vita di Alma e alle sue poche e confuse certezze. La guerra in Jugoslavia rompe un equilibrio, che si scopre essere stato illusorio per chi ci aveva creduto: svela anche, va da sé, la vaghezza del concetto di identità, che va in frantumi sotto i colpi della storia. Ma soprattutto le vicende di quegli anni mostrano ad Alma il vero motore della vita e delle vicende umane, che è il tradimento, di contro all’integralismo della propaganda. È più facile accettare il tradimento se si vive a ridosso di una kraijna, un confine, perché l’attraversamento e l’abbandono sono pratica quotidiana. È la stessa ragione per cui, specularmente, i conflitti spesso scoppiano presso i confini, laddove la chiarezza delle idee e delle distinzioni cozza contro l’opacità del reale che tutto rimescola. Quando un’idea definitoria di identità prende il sopravvento sulla naturale coesistenza delle cose e delle persone, allora si innesca la guerra. Il tradimento non è quindi di per sé connotato in senso negativo, quando esso rappresenta un’apertura verso l’alterità, o ancor meglio uno spazio nascosto in cui l’essere umano trova rifugio dal rigore dell’ideologia e dalla violenza del potere. Come Alma scoprirà alla fine, quando riceverà da Vili una scatola contenente fotografie e documenti illuminanti sul passato della sua famiglia, il tradimento diventa addirittura un elemento salvifico, anche se il suo portato non può essere compreso nel momento in cui si svolge.
 

Quando un’idea definitoria di identità prende il sopravvento, allora si innesca la guerra


Dalla scatola dei ricordi emerge una narrazione diversa da quella che i suoi protagonisti raccontavano per ingannare sé stessi e il prossimo, dietro la parvenza del ruolo sociale, dell’appartenenza ideologica, della missione da compiere. Caduto il paravento delle ideologie, si apre lo spazio di una concretissima, benché concettualmente indefinibile, umanità. Nelle vite umane tutto si muove, nulla rimane fermo, neppure l’identità, neppure il tentativo di afferrare la verità.
 

Alma aveva sentito che tutti i suoi anni ora stavano scivolando su di lei e le gravavano sulle spalle. I suoi genitori l’avevano protetta dalla memoria caparbiamente, fino a farne una nevrosi, e questo l’aveva lasciata crescere leggera, senza pesi alle caviglie. Però adesso quei frammenti di Storia, schegge che rimandavano a un intero di cui poteva solo intuire la forma, erano lì ed erano qualcosa di pesante ma anche di favoloso: avrebbe voluto fermarsi a rimirarli come si fa con un cristallo d’ambra. Invece camminavano, perché è nel cammino che il racconto va avanti.


La verità è in cammino, per cui non basta seguire gli eventi dal vivo per comprenderne il significato. Lo chiarisce bene un ammonimento del nonno materno, quando Alma, in crisi rispetto a ciò che dovrà scrivere sulla guerra sul giornale per cui lavora, gli telefona e si sente rivolgere l’invito a leggere i libri, anziché i giornali; a raccontare ciò che vede, per dare voce alle persone che incontra e che stanno vivendo quegli orrori. Il consiglio del nonno è di non accontentarsi dell’effimera presa di posizione quotidiana di chi pretende di spiegare la realtà secondo la facile contrapposizione tra buoni e cattivi. Al contrario, la esorta a sforzarsi di conoscere le vicende, intrecciate e multiformi, che compongono la Storia.


La rivolta di Trieste del novembre 1953 quando la città, sotto amministrazione militare alleata tra il 1947 e il 1954 e minacciata dalle mire della Jugoslavia di Tito, rivendicava la volontà di essere riconosciuta italiana



La scatola dei ricordi è destinata ad Alma quanto lo è alle lettrici e ai lettori del romanzo. Innanzitutto, la scatola suggerisce che alla Storia non si sfugge, perché la Storia non finisce: l’illusione che fosse sospesa fino a data da destinarsi viene smentita ogni giorno dagli eventi. La soluzione che il romanzo propone è di non affrettarsi a giudicare quanto accade in termini astratti, per sentirsi dalla parte della ragione e giustificare sé stessi o la propria fazione, specialmente quando si parla della guerra: come ammoniva Cesare Pavese, ogni guerra è guerra civile, perché accettandone la possibilità fallisce l’umanità stessa. Quando Alma è reporter a Belgrado e sente l’urgenza di far sapere al mondo quello che sta succedendo nei Balcani, le parole del nonno la invitano alla calma, per non cadere, anche in buona fede, in pregiudizi utili solo a rinfocolare l’odio: «Ricordati che i politici che hanno scatenato questo finimondo hanno fatto proprio così, sono andati indietro a guardare il passato e l’hanno ricostruito come volevano loro. Chi controlla il passato può controllare il presente». A tanti anni da quegli avvenimenti, grazie al contenuto della scatola, ad Alma diventa chiaro che il suo non è un passato che può controllare e che il tassello mancante per comprenderlo non era un ricordo, ma una persona. La memoria è una dimensione collettiva, realizza la donna, consapevole infine che nessuna storia è indipendente da quella degli altri e che nessuno è pienamente padrone del proprio destino, perché «il proprio destino è sempre anche nelle mani di qualcun altro».

 

 

In copertina, i confini delle regioni di Friuli, Karstia, Carniola, Istria e Windorum Marchia secondo la mappa di Mercatore nella versione di Willem Janszoon Bleau, 1635-1645 ca


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