Gus Van Sant e la miniserie per Gucci tra fluidità di genere, isolamento e futuro del cinema
L’intervista del Guardian al regista americano su “Ouverture of Something That Never Ended” con Silvia Calderoni
È il re della Hollywood underground. Allora perché ha fatto una miniserie per Gucci? Il regista ci parla della sua vita in isolamento, del suo progetto su un presidente gay e della morte del grande schermo. Gus Van Sant, re della Hollywood underground, durante il lockdown era nella sua casa in California e, come tutti, ha passato il tempo facendo binge-watching su Netflix. «Ozark mi è piaciuta, anche se è un po’ macabra», dice della serie sugli autentici e americanissimi Byrdes che, in una tranquilla cittadina in riva al lago, riciclano denaro per uno spietato cartello messicano. L’ultimo progetto di Van Sant, al contrario, è spiccatamente glamour. Si tratta di una miniserie di sette episodi per Gucci girata in collaborazione col direttore creativo del marchio, Alessandro Michele. Ouverture of Something That Never Ended segue Silvia, interpretata da Silvia Calderoni, in un’astrusa giornata tipo, da quando si sveglia e indossa delle ciabatte dorate col tacco. Fa la pipì vestita con pantaloni alla zuava di pizzo nero, e fa la fila alle poste accanto a una donna in caftano con una palla da basket sotto braccio e un ragazzo con una maglietta da football che trasporta un canarino in gabbia. Va al bar, a delle prove di danza e passeggia per le strade di Roma indossando una tenuta diversa per ogni attività. Il film funge anche da sfilata online per la nuova collezione di Gucci, con dieci look della nuova stagione a formare il guardaroba di ogni episodio. C’è persino un cameo di Harry Styles – e di Billie Eilish, Florence Welch, Achille Bonito Oliva.
Dopo venti giorni di riprese in Italia, Van Sant è appena tornato nella sua casa di Los Angeles sulle colline di Los Feliz, da cui si può vedere l’insegna di Hollywood e l’Osservatorio Griffith. Doveva videochiamarmi da Roma, ma l’intervista è stata rimandata, quindi ci sentiamo al telefono: è comprensibile, visto che a Los Angeles sono le sette di mattina e a quell’ora non è il caso di mostrarsi su Zoom. «Non è un problema, sono ancora abituato agli orari italiani», ripete con educazione. Ma la voce impastata, che prova a schiarirsi, mi fa pensare che rispondere alla mia chiamata sia stata la prima cosa che ha fatto da quando si è svegliato.
Un film finanziato da una casa di moda di lusso e disseminato di pochette da migliaia di dollari non è ciò che ti aspetti da un influente autore d’essai il cui ultimo lavoro è stato Don’t Worry, una commedia basata sulla biografia del vignettista tetraplegico John Callahan. Ma la carriera di Van Sant è fatta di colpi di scena. Dopo i poetici e indipendenti Drugstore Cowboy e Belli e dannati, ha fatto un’inversione a U verso la satira asciutta e brillante di Da morire e ha sfornato il grande successo al botteghino Will Hunting – Genio ribelle prima di ricomparire con la stravange commedia (sic) minimalista Gerry e col controverso Elephant, ispirato al massacro della Columbine High School avvenuto nel 1999. E questa resistenza alle categorizzazioni lo accomuna a Michele, fashion designer rockstar che si veste come un intellettuale parigino disegnato da Karl Lagerfeld, che ha affermato di essersi ispirato ai costumi di scena di Elton John e agli scritti di Martin Heidegger per una recente sfilata di Gucci.
La cosa di maggior tendenza in Ouverture non sono le tute da lockdown in raso rosso e nemmeno lo stile gender-fluid, quanto la struttura a episodi
Nonostante i loghi di Gucci siano ovunque, la cosa di maggior tendenza in Ouverture non sono le tute da lockdown di alta moda in raso rosso e nemmeno lo stile gender-fluid (un giovane elegante guida una bici in pantaloncini, calzini sportivi e una pochette bianca a tracolla), quanto la struttura a episodi. Come i film, le sfilate di moda sono tradizionalmente eventi autoconclusivi. Ma con l’ascesa dei cofanetti e dei premi assegnati a serie tv lunghissime, la suddivisione in capitoli non relega più la cultura allo status di soap opera. Nel 2020, cofanetti is the new black. Van Sant non ha tempo per tutte le lamentele di Hollywood sulla morte della cultura cinematografica. «Questa struttura c’è sempre stata, se sapevi dove cercarla. L’idea delle storie a puntate c’è dai tempi in cui Oliver Twist veniva pubblicato sui giornali. James Bond era a episodi. Star Wars era a episodi. Solo che tra un film e l’altro passavano uno o due anni. Non è una cosa che mi preoccupa».
Fra tutte le leggende di Hollywood con cui il regista ha lavorato, Sean Connery, diretto nel 2000 in Scoprendo Forrester, è stata la più importante. Van Sant aveva dieci anni quando Connery interpretò il suo primo Bond: «Per una persona della mia età, Sean Connery è James Bond. E, ovviamente, sono cresciuto guardando quei film». Connery, che nella pellicola del 2000 vestì i panni di un autore geniale e solitario, era «proprio una brava persona», dice Van Sant. «All’epoca era già una leggenda e un attore infaticabile che conosceva tutti i trucchi del mestiere».
I grandi schermi erano una necessità dell’industria. E adesso c’è un nuovo modo, perché abbiamo tutti un dispositivo che possiamo tenere in mano e dove possiamo guardare film: si chiama telefono
Il rituale di andare al cinema è pressoché sacro nella mitologia hollywoodiana, ma Van Sant non è davvero affezionato a una tradizione ora ferma in favore di un intrattenimento casalingo. «Il grande schermo e le persone che vanno al cinema sono ormai un’immagine romantica, ma non è sempre stato così». Se ci fosse stata una tecnologia capace di creare delle “macchinine” dalle quali guardare i film l’intera storia del cinema sarebbe diversa, afferma. «I grandi schermi erano una necessità dell’industria. Si adattavano al modello di distribuzione ideato per mostrare un film a più persone possibili. E adesso c’è un nuovo modo, perché abbiamo tutti un dispositivo che possiamo tenere in mano e dove possiamo guardare film: si chiama telefono». Eppure c’è ancora qualcosa di nuovo e bizzarro nel modo in cui nel 2020 il cinema è stato «risucchiato nello schermo di un computer» insieme al resto delle nostre vite. «È strano guardare un film sullo stesso schermo dove facciamo la spesa», dice ridendo.
Ouverture è un prodotto commerciale con un’atmosfera d’essai. La romantica palette pistacchio e fucsia porta la firma di Michele, mentre il modo in cui idee ed emozioni scorrono sotto la superficie senza essere necessariamente pronunciate è puro Van Sant. Gerry ed Elephant sono stati fatti senza una vera e propria sceneggiatura, ma con «paragrafi o frasi che indicavano a grandi linee quello che doveva succedere»; nel primo episodio di questa miniserie non c’è dialogo se non quello del filosofo trans e punk Paul B Preciado, che in un programma televisivo parla di genere e identità. Se sembra un territorio insolito per un brand che ha fatto dei suoi classici mocassini e delle sue pochette senza tempo la nobile uniforme dei salotti d’alta classe, è bene ricordare che con Michele al comando Gucci ha assunto una posizione decisamente progressista sulle questioni di genere e di identità. Dal 2017 l’abbigliamento maschile e quello femminile vengono presentati in un’unica sfilata. Le atmosfere del Gucci di Michele sono in armonia con quelle di Van Sant, talmente a suo agio con l’ambiguità da rispondere alle mie domande in maniera imperscrutabile. «Quando Alessandro mi ha raccontato le sue idee per il progetto ho pensato, sì, queste cose fanno per me», dice Van Sant. Per anni le sue opere hanno ritratto relazioni e personaggi al di fuori del canone amoroso eterosessuale. Fu dopo quindici anni dalla stesura della sceneggiatura di Belli e dannati, quando convinse River Phoenix e Keanu Reeves ad accettare i ruoli principali, che riuscì a ottenere i finanziamenti per una storia su omosessualità, amore non corrisposto e marginalità che faceva storcere il naso all’establishment hollywoodiano. Per Van Sant, il fatto che Gucci abbia assegnato la parte di protagonista in Ouverture a Silvia Calderoni, la cui fluidità di genere è stata paragonata dal New York Times all’argento vivo, riflette «quanto, in tutto il mondo, le differenze vengano sempre più accettate. Al contrario della marginalizzazione delle identità di alcune persone».
Van Sant prima di passare alla scuola di regia è stato uno studente di belle arti, dipinge nel tempo libero fin dagli anni Settanta e l’anno scorso ha tenuto la sua prima mostra d’arte a New York
Per un regista progressista che vive in America, negli ultimi anni la direzione dei viaggi culturali non è stata semplice. Giunta nel momento di massima tensione dell’era trumpiana, la pandemia è stata «quasi come uno strano sugo che condiva tutto il resto», dice Van Sant. L’inizio delle riprese di un film basato sul saggio di Michael Chabon sulla sua visita alla fashion week di Parigi, che il regista ha impiegato diciotto mesi ad adattare per lo schermo, è stato rimandato ad aprile. «Ma io vivo da solo, quindi la quarantena è stata molto simile alla mia vita di tutti i giorni», afferma Van Sant. «Per quanto riguarda il lavoro, è andato tutto come al solito». Nel frattempo ha dipinto molto. Van Sant, che prima di passare alla scuola di regia è stato uno studente di belle arti, dipinge nel tempo libero fin dagli anni Settanta – è suo il dipinto sul muro nell’ufficio di Robin Williams in Will Hunting – e l’anno scorso ha tenuto la sua prima mostra d’arte a New York. Ha anche lavorato ad alcune sceneggiature, tra le quali c’è una serie che parla di un presidente gay, pur essendo stato, afferma, un periodo difficile per inventarsi qualcosa sul tema, visto che «c’era l’ombra della vera presidenza, talmente estrema da far impallidire l’immaginazione di chi scrive. Abbiamo vissuto un periodo folle a livelli mai visti». Negli scorsi mesi, dice, si è concentrato sulla stessa storia su cui si sono concentrati tutti – le elezioni presidenziali che hanno visto Joe Biden vincere contro Donald Trump. «Sai, per lo più ho guardato la CNN».
Jess Cartner-Morley è una giornalista britannica, fashion editor del Guardian. Questo articolo è stato pubblicato sul Guardian il 24/11/2020 ► Gus Van Sant: 'We are living in a wilder time than anything we could imagine' | Traduzione di Francesco Cristaudo
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