Guerra ai parassiti e lotta di classe
Parasite e il cinema di Bong Joon-ho, da Memories of Murder e Snowpiercer fino alla Palma d'Oro
Il cinema sudcoreano sin dai primi anni del ventunesimo secolo ha vissuto un’evoluzione artistica senza precedenti. La nascita di una nuova generazione di registi, dissimili per stile e tematiche, è riuscita a polarizzare su di sé l’interesse della critica e poi anche quello del pubblico garantendo notorietà al proprio cinema. Autori del calibro di Park Chan-wook – Mr. Vendetta (2002), Old Boy (2003), Lady Vendetta (2005) e Mademoiselle (2016) –, Kim Ki-duk premiato con il Leone d’oro al Festival di Venezia per Pietà (2012) ma già apprezzato con La samaritana e Ferro 3 - La casa vuota (entrambi del 2004); Kim Jee-woon, abilissimo nel districarsi tra i generi, e il poliedrico Lee Chang-dong che con il suo Burning – L’amore brucia (2018) ha incantato e affascinato il pubblico di Cannes. Ma di recente il regista che ha riscosso più successo è Bong Joon-ho che grazie al suo ultimo gioiello Parasite (2019) è stato il primo sudcoreano della storia ad aggiudicarsi la Palma d’Oro.
Il regista inizia a riscuotere consensi internazionali dal suo secondo lungometraggio, l’atipico poliziesco Memories of Murder (2003), storia del primo assassino seriale coreano, un thriller diretto magistralmente dove le atmosfere urbane fanno da coprotagoniste. Nei suoi lavori gli ambienti hanno un rilievo narrativo paritetico alla trama, questi luoghi sembrano inglobare e riflettere le emozioni dei protagonisti – in qualche caso persino capaci di contagiarli – e spesso racchiudono la chiave di lettura della storia. Questa peculiarità, seppur non sempre palesata, è stanziale nelle sue opere e determinante per far emergere quella critica e lotta sociale che onnipresente pervade i suoi film. Forse è proprio questo il tratto poetico che più affascina e rende sbalorditivi i lavori di Bong Joon-ho, la capacità di raccontare storie inconsuete, spesso su sfondo apocalittico, dalla trama incerta e mai scontata con incessanti richiami alle problematiche del mondo contemporaneo.
Nei lavori di Bong Joon-ho gli ambienti hanno un rilievo narrativo paritetico alla trama, questi luoghi sembrano inglobare e riflettere le emozioni dei protagonisti
Nel film The Host (2006) – campione di incassi in Corea del Sud – un mostro anfibio fuoriuscito dal fiume Han porta scompiglio, caos e vittime per la città. Il regista si serve del monster movie per avanzare una critica sull’autodistruzione umana perseguita tramite perpetrati danni ambientali (altra tematica ricorrente), infatti la creatura è parto di una mutazione genetica causata dall’incuria di scienziati che, ritenendola inutilizzabile, riversano nel fiume una grande quantità di formaldeide. Il tema analizzato non è certamente innovativo, questo genere conosce il suo splendore durante la guerra fredda con il dilagante timore di un imminente disastro atomico – pensiamo a Godzilla (Honda, 1954) o Il mostro del pianeta perduto (Corman, 1955) – ma quello che stupisce nell’opera coreana è come il mostro non venga costantemente percepito come antagonista, anzi, vi sono scene dove appare vittima della società in cui vive. In qualche sequenza sembra che gli uomini che lo combattono stiano intraprendendo una lotta contro una loro creazione, un mostro che non possono controllare e domare, come il collasso del nostro ecosistema. La città che fa da sfondo alla storia trasuda umidità, i grattacieli grigi della metropoli sono appena distinguibili tra nebbia e pioggia, mentre i cittadini che li abitano sono poveri e senza futuro, sospesi in un limbo di disillusione.
Nel 2017 l’autore tornerà nuovamente ad affrontare il tema della mutazione genetica con Okja (prodotto e distribuito da Netflix), che per sua stessa ammissione è strettamente connesso a The Host. Il protagonista del film (Okja, appunto) è un esemplare di una nuova razza di maiali scoperti di recente, in realtà questi sono frutto di terribili esperimenti genetici messi in atto da una multinazionale con il solo scopo di diffondere il prodotto sul mercato alimentare. L’opera sfugge da qualsiasi etichettatura di genere e pur mostrando degli elementi distopici e fantascientifici è molto vicina al nostro presente: le tematiche alimentari, i prodotti ogm, l’allevamento intensivo sono assolutamente attuali, da anni al centro di dibattiti, polemiche e lotte animaliste. L’opera è contraddistinta anche da aspetti favolistici, soprattutto nella prima parte, con paesaggi bucolici tipici dei film Disney, ma questi non impediscono al regista, con originalità e stravaganza, di mostrare gli orrori senza velature e censure, difendendo e divulgando un messaggio ecologista.
Con l’ultimo Parasite Bong Joon-ho torna a raccontare la lotta di classe, tematica centrale del suo Snowpiercer, dove la storia si svolgeva sopra un treno in cui ogni vagone rappresentava una diversa classe sociale
Lo stile narrativo muta drasticamente con l’ultimo Parasite, dove Bong Joon-ho torna a raccontare la lotta di classe, tematica a lui molto cara e già portata al cinema nel fantascientifico Snowpiercer (2013) – il suo esordio in lingua inglese (nella foto sopra, ndr) – dove la terra sta attraversando una nuova era glaciale causata da esperimenti falliti che avrebbero dovuto interrompere il riscaldamento globale. Ma se nel caso di Snowpiercer la storia si svolgeva sopra un treno, in cui ogni vagone rappresentava una diversa classe sociale, nel suo ultimo lavoro siamo nella Corea del Sud di oggi e le protagoniste sono due famiglie agli antipodi. La famiglia di Kim Ki-taek vive in un seminterrato umido e stretto guadagnandosi da vivere con lavori domestici, mentre quella dei Park Dong-ik appartiene all’élite societaria e vive in una lussuosa abitazione in stile minimalista nella zona ricca. Questi due mondi apparentemente incompatibili entrano in contatto quando il giovane Ki-woo, primogenito di Kim Ki-taek, viene assunto come insegnante d’inglese della figlia di Park Dong-ik. Da questo momento entra in atto la macchinazione del ragazzo che con cinismo e astuzia riesce a far assumere l’intera famiglia al loro servizio, la madre come governante, il padre come autista e la sorella come insegnante d’arte, senza svelare il loro legame di sangue.
Quella che inizialmente può ricordare la trama de Il servo (1963) di Joseph Losey improvvisamente cambia registro quando si scopre che nello scantinato della casa si cela un enorme segreto, questo avvenimento annienta le nostre convinzioni e le nostre incaute previsioni sull’epilogo del film si sgretolano inesorabilmente. Come dichiara il regista «la capacità del film di cambiare tono in un attimo fa in modo che lo spettatore non sia mai sicuro di cosa succederà dopo». In tutti questi turbolenti avvenimenti noi spettatori siamo inermi e seguiamo la trama senza avere più certezze, in attesa della successiva metamorfosi narrativa. Niente nel film è stabile, la cinepresa di Bong Joon-ho si aggira tra le stanze e i corridoi asettici, si passa dalla forte illuminazione del primo piano alla flebile ed evanescente luce dello scantinato mentre si salgono e si scendono le scale. L’architettura della casa scandisce il ritmo del racconto e si fa coprotagonista arrivando a decretarle come simbolo di questa salita e discesa sociale – lo stesso Bong Joon-ho in un’intervista definisce Parasite come un «film di scale».
Bong Joon-ho definisce Parasite un «film di scale», in un moto incessante di salite e discese che ci dà la sensazione di trovarci nella litografia Su e giù di Escher
Questo moto incessante di salite e discese contribuisce a disorientare lo spettatore e accresce il senso di inquietudine e incertezza, abbiamo la sensazione di trovarci nella litografia Su e giù di Escher dove l’aspetto prospettico e cognitivo viene messo costantemente in dubbio. Ma non solo all’interno dell’edificio la scala assume un rilievo narrativo determinante, anzi, la sequenza dove questo aspetto si fa più interessante è quando la famiglia di Park Dong-ik torna nella loro povera abitazione durante un nubifragio. Una scena che somiglia ad una calata negli inferi, dove la discesa centripeta tra le strade della città ricorda quella tra le bolge dantesche mentre l’acqua che inonda i marciapiedi sostituisce il magma. La macchina da presa riprende in campo lungo la famiglia che gradino dopo gradino si affretta a raggiungere la propria abitazione, le strade sono deserte e inquiete – molto simili a quelle già filmate dal regista nell’episodio Shaking Tokyo nel film Tokyo! (2008) –, il montaggio si fa sempre più lento e i movimenti di macchina sono quasi impercettibili. Quando la famiglia arriva a casa tutto è sommerso, quello che avevano costruito è perso, la loro casa, così come la loro lotta per assurgere ad una posizione agiata, sembra essere stata spazzata via dalla catastrofe naturale. Resta solo disperazione, rabbia e la rassegnazione di vivere in una società ingiusta dove non si possono ribaltare le gerarchie, nella quale gli equilibri sono fragili e le scale (sociali), per il ceto povero, sono percorribili solo in discesa. Tutta questa ira ha un effetto deflagrante nel finale dove al limite del surreale questo conflitto sociale assume una tinta orrorifica.
Parasite è il film che consacra il talento di Bong Joon-ho e quello in cui le tematiche a lui più care si intrecciano ripetutamente, inserendosi perfettamente in una storia che suggerisce più di quanto mostra e che affronta senza timore le disuguaglianze del mondo contemporaneo. Nel film i poveri vengono disegnati come cannibali, sanguisughe della società che si aggirano per il proprio appartamento in cerca di una Wi-Fi a cui connettersi ma anche abili nello sfruttare l’ingenuità dei ricchi arrivando quasi a sostituirsi a loro pur disprezzandoli. I ricchi invece vivono tra lusso e comfort e pur detestando l’odore dei poveri – come dichiara Park Dong-ik «l’odore della gente che prende la metropolitana» – non possono fare a meno di loro e se ne servono per garantirsi uno stile di vita agiato. Un dualismo che inevitabilmente porta allo scontro, ad una carneficina che non mette in opposizione solo poveri contro ricchi ma anche i poveri tra loro. Il regista evidenzia con grande eleganza la caducità della nostra struttura sociale, dove il dislivello sempre più ampio conduce all’odio e alla violenza che sfocia inevitabilmente in lotta, ma come tutti i grandi autori non ha la pretesa di dare soluzioni ma di scuoterci con degli interrogativi. E se qualche spettatore, dopo la visione del film, si chiedesse: "Chi sono i veri parassiti della società?". La risposta, sembra dirci Bong Joon-ho, dipende da quale prospettiva la guardi.
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