Guardare oltre il visibile

Il cinema fuori dallo schermo secondo Abbas Kiarostami, Jafar Panahi e Steven Knight

Quando il 6 ottobre del 1927 venne proiettato il primo film sonoro, Il cantante di jazz di Alan Crosland, ebbe inizio una rivoluzione che dette nuova vita all’arte cinematografica. Con la fine del cinema muto si perse l’attitudine a raccontare tramite immagini, con la conseguente perdita di stile e indebolimento semiotico. Alfred Hitchcock definiva il cinema muto come la forma più pura, asserendo che l’introduzione della parola aveva comportato «la perdita totale della fantasia». Le critiche del maestro erano molto severe nei confronti del sonoro, la sua idea di cinema – come spiega nella celebre intervista con François Truffaut – era basata su una ricerca estetica, subordinata e sacrificata all’azione, mantenendo divisi «gli elementi di dialogo e gli elementi visivi», privilegiando, quando possibile, i secondi sui primi. Nel cinema moderno e contemporaneo ci sono dei film che, in netta opposizione alle parole di Hitchcock, riescono a “mostrare” tramite la parola. Il vigore di queste opere sta nella forza comunicativa dei dialoghi e nell’espressività attoriale che permettono a paesaggi e storie di prendere vita e forma dentro la mente di ciascuno spettatore in maniera diversa. In particolare un trittico di film con la particolare caratteristica di essere ambientati dentro automobili, una sorta di road movie senza destinazione che reinventano l’approccio al genere.

Il primo dei tre è Dieci (2002) del regista iraniano Abbas Kiarostami, scomparso poco più di un anno fa. Il titolo si riferisce alle dieci storie raccontate nel film, tutte ambientate dentro una macchina guidata da una donna iraniana. Nell’opera vengono trattati conflitti sociali, prostituzione, religione, problematiche matrimoniali e il difficile rapporto tra madre e figlio. Queste tematiche vengono portate in scena con estremo realismo recitativo, risultato di un metodo di lavoro che rendeva gli attori ignari delle battute pronunciate dall’altro, creando in tal modo una discussione spontanea. Kiarostami relega la storia alla sola forza del dialogo – nel film sono pochissime le inquadrature che mostrano il paesaggio al di fuori dell’abitacolo – con l’intera narrazione che si svolge all’interno di un unico spazio, creando un’esperienza cinematografica dove, anche se non viene mostrata, la realtà esterna al filmico acquista una precisa forma. Tutto il cinema di Kiarostami era caratterizzato da un’ossessiva ricerca del non mostrato; la sua avversione nei confronti del cinema narrativo lo incentivava a ricercare un nuovo linguaggio visivo, nel quale l’incompleto dovesse rappresentare l’elemento di maggiore interesse. Questa scelta può essere giudicata ostile, ma l’intento del regista era quello di stimolare la nostra creatività: lasciando volutamente questi luoghi e personaggi senza un’identità, si dà allo spettatore la possibilità di darne forma e aspetto a seconda della propria singolare immaginazione. Il cineasta sosteneva che eventi e situazioni che non appaiono sullo schermo riescono ugualmente ad essere percepite e rese vivide tramite un suono o uno sguardo dell’attore nel fuori campo. Questa idea è stata al centro di numerosi studi neurologici, ed è stato dimostrato – come si legge nel libro di Vittorio Gallese e Michele Guerra Lo specchio empatico – come il nostro cervello (tramite i neuroni specchio) osservando gesti e movimenti eseguiti da altre persone, sia in grado di simularli nel proprio sistema motorio. Questa scoperta rivoluzionaria, chiamata simulazione incarnata, ha ampliato i propri studi arrivando a comprendere che il rispecchiamento non sia solo motorio ma si estenda a movimenti oculari e ad azioni sonore. Questa funzionalità neuronale applicata alla visione di un film ci permette di comprendere e assimilare azioni di qualcuno o di qualcosa celate nel fuori campo. In Dieci il regista prosegue la sua ricerca formale giungendo a sperimentare un tipo di racconto nel quale i protagonisti, che parlando incessantemente tra loro trasformano il veicolo in un luogo di confessione, in un paese dove la libertà di espressione, soprattutto per le donne (in maggioranza nel film) è estremamente limitata. Le idee di Kiarostami sono state di ispirazione per molti altri registi, ma c’è un film che più di tutti ne rappresenta un esplicito omaggio: Taxi Teheran (2015) del connazionale Jafar Panahi.
 

Secondo Kiarostami eventi e situazioni che non appaiono sullo schermo riescono ugualmente ad essere percepite e rese vivide tramite un suono o uno sguardo dell’attore fuori campo


Il film si presenta come un affresco di vita nella capitale iraniana, nel quale un tassista (interpretato dallo stesso Panahi) giuda per le strade cittadine interagendo e confrontandosi con donne e uomini di diverse età. L’idea del taxi rimanda subito al Jim Jarmusch di Taxisti di notte (1991), ma anche se in entrambi troviamo situazioni divertenti sono ben pochi gli elementi che i due film condividono. Panahi è stato assistente alla regia di Kiarostami, sviluppando fin da subito una propria identità cinematografica, premiata sin dai suoi primi lavori nei maggiori festival internazionali (il suo primo film, Il palloncino bianco, vinse la Caméra d’Or al Festival di Cannes nel 1995). Taxi Teheran, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino, è girato interamente all’interno di un taxi, ma a differenza di Dieci non ha solo la funzione di mostrare la vita in Iran ma anche raccontare gli ostacoli e gli impedimenti incontrati per fare cinema. Infatti, come altri suoi connazionali, anche Panahi, dopo aver partecipato a manifestazioni popolari, è stato condannato nel 2010 a sei anni di arresti domiciliari con il divieto di girare film per i prossimi vent’anni. Gli impedimenti del governo però non hanno intimorito il cineasta, che ha continuato a lavorare girando clandestinamente ben tre film: This is not a film (2011), Closed Curtain (2013) e quest’ultimo. Taxi Teheran è stato girato con pochi mezzi (tre videocamere, una macchina fotografica digitale e uno smartphone) e con un cast di attori non professionisti, tra i quali figura la nipote del regista. La ragazzina, che appare in scena per tutta la seconda parte del film, è il personaggio cardine della storia, e dalle sue innocenti parole vengono a galla incoerenze e assurdità sociali. In una delle ultime sequenze chiede allo zio di suggerirle un soggetto da filmare, elencando le regole – dettate a scuola dalla maestra – da non trasgredire per creare un prodotto distribuibile, una sorta di Codice Hays iraniano dal quale emerge la volontà di impedire che la realtà venga filmata. Il film di Panahi, come quello di Kiarostami, si affida al dialogo per dipingere nella mente dello spettatore vite e storie appena accennate, così facendo la narrazione prende vita fuori della vettura, con volti e paesaggi che spesso rimangono nascosti e lontani dal mezzo di ripresa. La lunga corsa del taxi per le strade cittadine ricordano i film di Zavattini e De Sica, nei quali il continuo peregrinare dei personaggi svelava la Roma decadente del dopoguerra. Nel film di Panahi invece la città prende forma fuori dallo schermo dove, suggestionati dai racconti dei passeggeri, immaginiamo quello che non vediamo.
 

A differenza dei due film iraniani, il viaggio di Locke non avrà alcun ospite, l’intero film è retto dall’interpretazione magistrale di Tom Hardy che interloquisce con il mondo esterno tramite le continue telefonate in vivavoce


Due anni prima del film di Panahi usciva Locke (2013) del regista britannico Steven Knight. Il film si apre con una ripresa aerea che raccorda con un campo medio davanti la macchina di Ivan Locke, capo cantiere in una ditta di costruzioni, che dopo una giornata di lavoro sale in automobile e si mette alla giuda. Durante il tragitto il telefono inizia a squillare e iniziano i problemi: Bertah (una donna con cui ha avuto un rapporto) sta per avere un figlio da lui, la moglie e i due figli lo aspettano a casa e il suo capo lo licenzia dopo aver saputo che il giorno seguente non sarà presente a lavoro, durante la fase più delicata di un progetto nel quale sono stati investiti moltissimi soldi. A differenza dei due film iraniani, il viaggio di Locke non avrà alcun ospite, l’intero film è retto dall’interpretazione magistrale di Tom Hardy che interloquisce con il mondo esterno tramite le continue telefonate in vivavoce. Lo squillare del telefono, che con l’avanzare della storia diviene sempre più frequente, crea un climax narrativo che termina in una sequenza finale priva di certezze, lasciando lo spettatore in balia di molteplici situazioni lasciate in sospeso. Il montaggio veloce e il continuo spostamento della macchina da presa tra esterno e interno dell’abitacolo rendono la narrazione vorticosa, mentre il buio della notte e il riflesso delle luci sul vetro accentuano la sensazione di isolamento. La drammaticità e l’ansia sprigionata dal film creano una forte empatia nei confronti del protagonista, costretto ad affrontare un viaggio (che coincide temporalmente con gli avvenimenti filmati) colmo di tensione. Le continue telefonate e l’alternarsi degli interlocutori portano lo spettatore a plasmare un universo immaginario variegato, dove vengono attribuite specifiche caratteristiche a ciascun personaggio con cui Locke si relaziona. Il regista inglese – famoso per le sceneggiature di Piccoli affari sporchi e La promessa dell’assassino e per aver creato la serie tv britannica Peaky Blinders – mette in scena una claustrofobica corsa contro il tempo carica di suspense, differenziandosi nettamente dai due film iraniani, contraddistinti da un ritmo rilassato e contemplativo, perché  ciò che li mette in relazione non sta nel modo in cui sono girati ma nella forza che riescono ad esprimere senza mostrare. Forse è proprio questa la vera magia del cinema: un’arte per sognatori capaci di immaginare e dare forma anche a ciò che non viene filmato.


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