Grigorij Rasputin
Pokrovskoe, 21 gennaio 1869 – San Pietroburgo, 17 dicembre 1916
Contadino semianalfabeta, Grigorij Efimovič Novyj sostanzia la propria conversione religiosa della dissolutezza per cui è Rasputin, “degenerato”, e tra gli eterodossi chlysty (flagellanti) rintraccia una via alla divinità nello sfinimento fisico d’una prolungata attività sessuale. Senza essere monaco, troverà nella fama di starec – mistico taumaturgo e profeta – che matura pellegrino dal monte Athos a Gerusalemme, nell’entusiasmo sacro che ispirano la corporeità sovrumana e gli occhi blu penetranti, la chiave d’accesso alla gerarchia ortodossa pietroburghese, dunque alla famiglia imperiale (1905), allora infatuata di misticismo quanto preoccupata dall’emofilia dello zarevič Aleksej: migliorandone la salute forse con l’ipnosi (1908), Rasputin inaugura un decennio d’influenza sulla politica russa che Nicola II, malgrado numerosi rapporti (anche di Stolypin) sulla sua condotta scandalosa, non saprà interrompere, e che addirittura aumenta passando al fronte (1915). Allora, consigliere personale della sottomessa zarina, Rasputin farà il brutto e il bel tempo ponendosi quale massimo sostenitore dell’autocrazia, ma anche suo usurpatore, nonché responsabile dell’irreversibile decadenza dello zarismo, agli occhi degli ultraconservatori che, una notte, il principe Feliks Jusupov gli spinge contro in congiura, verso l’incubo ultraterreno d’una morte leggendaria che, dopo l’avvelenamento per cianuro e vari proiettili, solo l’annegamento nella Neva potrà assicurare.
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