Grazie a Dio è lunedì

Il mondo del lavoro tossico nelle serie tv da WeCrashed e The Dropout, Succession e Severance

Il terzo episodio di WeCrashed, una serie in otto parti, prodotta da Apple TV+, che racconta la precipitosa parabola di ascesa e declino dei fondatori di WeWork Adam e Rebekah Neuman, presenta allo spettatore un piccolo assaggio di ciò che significa essere un impiegato di una startup. Siamo nel 2012, una donna è al suo primo giorno in azienda, le viene dato un badge, un computer Apple, un Mimosa, e viene informata che alle ore 19 ci sarà una riunione dal nome «Thank God It's Monday». L’attenzione si allontana dai due fondatori eccentrici e deliranti, che occupano lo schermo per gran parte del tempo, e, con uno dei montaggi più riusciti della serie, attraversiamo il turbinio della vita edonistica ed estenuante di questa impiegata senza nome del WeWork. Caffè, shot, feste di lavoro, sesso con un collega nel ripostiglio. Quando Adam Neuman incoraggia i suoi dipendenti urlando «We», un coro di voci si alza in risposta: «Work». Un’altra scena, un altro giorno, riposo, sveglia, si ricomincia. È giorno o notte? Alla scrivania o a una festa? Non importa, la dipendente senza nome continua a lavorare. E il lavoro è la vita.
 

Caffè, shot, feste di lavoro, sesso con un collega nel ripostiglio. Un’altra scena, un altro giorno, riposo, sveglia, si ricomincia


Sono molte le opere ambientate nel secondo decennio del XXI secolo in cui viene rappresentata la hustle culture, la cultura del lavoro, un’etica basata sull’idea che si viva per lavorare e che l’individuo guadagni valore lavorando ininterrottamente. In WeCrashed questo tema è molto evidente. La serie si basa sul podcast omonimo di Wondery, nel quale Neuman incoraggia i propri dipendenti a «Darci dentro» («Dacci dentro» è infatti il titolo del quinto episodio della serie). In The Dropout, una serie in otto episodi sulla Theranos, la compagnia fraudolenta che si occupava di compiere esami del sangue appartenuta alla beniamina della Silicon Valley Elizabeth Holmes, gli impiegati dell’azienda lavorano di notte, mancano ai compleanni dei figli e partecipano a cene con lo scopo di cambiare il mondo. Lo stesso accade nella serie Super Pumped, dedicata al fondatore inarrestabile e ora in disgrazia di Uber, Travis Kalanick, che rimprovera i dipendenti che non si dedicano con impegno a inseguire la crescita a tutti i costi (e a cambiare il mondo). Anna Delvey, la truffatrice protagonista della serie Netflix Inventing Anna, trova umiliante che la sua fama come l’«imbrogliona di Soho» abbia oscurato il suo duro lavoro al progetto che l’ha fatta scoprire. Senza contare che la giornalista che investiga su di lei è così ossessionata dalla sua storia e dall’importanza che ha per la sua carriera da andare in travaglio mentre è ancora in ufficio.

Queste serie, che raccontano storie da prima pagina di persone disoneste e dal carisma messianico, vengono chiamate in modo generico «serie sui cattivi imprenditori» o «serie di truffe moderne». Si tratta di descrizioni azzeccate per le quattro serie sopracitate, uscite nel giro di un mese, e rivelano la continua fascinazione per l’arte della truffa (vi consiglio anche le recenti docu-serie Netflix Il truffatore di Tinder e Bad Vegan). Seppur in modo frammentario, si sta costruendo l’iconografia dell’esperienza dei Millenial, visibile in retrospettiva ma ancora troppo sfocata. Ci sono accenni agli anni 2000 e 2010, attraverso la musica (Katy Perry viene nominata sia in WeCrashed che in The Dropout), la moda e il culto (e il lutto) di Steve Jobs. Hustle culture e workism, venerati in modo quasi religioso e prettamente americano dall’élite educata al college (me inclusa), rappresentano il tema che in modo vago e impacciato collega queste serie. Il lavoro è qualcosa di più di un semplice lavoro, è una vera e propria identità, un indicatore del nostro valore personale e una causa in cui vale la pena investire e credere. Nelle parole tristemente famose di Adam Neuman, WeWork non è solo una compagnia, è un movimento.
 

In WeCrashed e The Dropout il lavoro è qualcosa di più di un semplice lavoro, è una vera e propria identità


La cultura del lavoro, così come tutte le ideologie, è informe, sostiene la #girlboss, l’ascesa degli influencer, l’elisione completa tra il singolo e la vita online, non c’è un chiaro inizio, tantomeno una chiara fine, ma guardatevi intorno e vedrete i segnali della sua caduta. Sono le contestazioni  al consiglio dato da Kim Kardashian alle donne d’affari, «muovete il culo e mettetevi al lavoro», l’elogio funebre ai giorni inebrianti ma destinati all’insuccesso del venture capital investito nel digitale, il boom delle dimissioni e la cosiddetta Era dell’Anti-Ambizione. Queste serie rispondono alle sensibilità televisive attuali con i loro antieroi, i salti temporali, i costosi trucchi per trasformare l’aspetto di attori famosi, ma vengono percepite come il prodotto di un’altra era, l’epoca dell’«alzati e fattura». Si concentrano tutte su individui affascinanti e deprecabili, e cercano di non dipingere le persone che hanno creduto in loro come sciocchi provinciali, ma descrivere le loro vite semplicemente come truffe moderne significa restituire un’immagine incompleta del fenomeno. Insieme compongono un mosaico generico e imperfetto di un sistema che superava le persone ingannate da Holmes, Kalanick, Delvey e i Neuman.

Queste serie fanno parte anche di una più ampia evoluzione del workism in televisione. Nel secondo decennio degli anni 2000, Billions prodotto da Showtime e Industry della HBO avevano riscontrato un modesto successo raccontando le vite di persone (attraenti) e moraleggiando sulla problematicità (redditizia) di lavori oltremodo competitivi e ossessivi. Succession, una delle serie HBO più acclamate dalla critica, racconta di un gruppo di persone che non fanno distinzione tra lavoro, vita personale e famiglia. In un profilo fatto dal New Yorker riguardo alla star di Succession Jeremy Strong, l’attore britannico Brian Cox, che interpreta il patriarca Logan Roy, parlando del metodo recitativo intenso di Strong, afferma: «È una malattia tutta americana, credo, quest’incapacità di separare sé stessi dal proprio lavoro». Si tratta di un buon riassunto del successo dormiente Apple TV+ Severance, in cui i personaggi subiscono un trapianto di cervello che separa le loro vite personali da quelle lavorative. Severance, nelle parole della giornalista di The Ringer Alison Herman, è l’ultimo contributo inquietante nel genere del «misterioso mondo degli uffici» rappresentato da serie come Corporate, Better Off Ted e Loki. Severance si posiziona all’opposto rispetto alle serie dedicate alla cultura del lavoro, divenendo la loro controparte in chiave mystery-box: invece di confondere il confine di una giornata lavorativa di 18 ore, è un’allegoria estrema del bilanciamento tra vita e lavoro, e rivela che negli uffici delle grandi aziende si nasconde qualcosa di sinistro.
 

Severance si posiziona all’opposto rispetto alle serie dedicate alla cultura del lavoro, divenendo la loro controparte in chiave mystery-box


Ciò non significa che le serie dedicate alla cultura del lavoro facciano una critica efficace o siano una forma di intrattenimento in cui valga la pena immergersi per otto o dieci ore. Inventing Anna, come ho scritto in precedenza, è troppo ingenuo riguardo alla sua protagonista, ma non è nemmeno particolarmente interessato a lei. Shonda Rhimes, la regina delle soap sul luogo di lavoro, ha deciso di trasformare la storia di una truffatrice in una serie dedicata alla redazione di un giornale, una scelta tutto sommato poco convincente. Qui, una giornalista inventata, Vivian Kent (ispirata a Jessica Pressler, reporter del The New York Magazine che nel 2018 ha scritto una retrospettiva su Anna Delvey) si ossessiona alla storia di Anna sperando che questa possa salvare la sua carriera. Super Pumped, ideato dai creatori miliardari Brian Koppelm e David Levien, studia la leadership carnivora del fondatore di Uber Travis Kalanick (Joseph Gordon Levitt), basata sulla crescita a tutti i costi, rappresentandola attraverso un florilegio di follie (e una narrazione tarantiniana in cui viene rotta la quarta parete) che sminuisce l’importanza del protagonista. The Dropout è di certo la migliore di queste serie, l’unica a mostrare davvero il difficile equilibrio tra l’eccitazione della truffa e la devastazione provocata dalle bugie.

WeCrashed, creata da Drew Crevello e Lee Eisenberg (uno degli scrittori, produttori e registi di The Office), comprende al meglio le incongruenze degli uffici e beneficia dell’avvincente duo tossico formato dalla Rebekah di Anne Hathaway e l’Adam di Jared Leto, ma se paragonata a The Dropout ha obiettivi apparentemente più frivoli. Adam convince e ha successo solo grazie alla crescente suspence della trama, ma le stime di fatturato hanno troppi zeri per essere coerenti. Angie Han dell’Hollywood Reporter ha definito la serie «divertente ma inessenziale» e non riesco a pensare a una descrizione migliore. Il fascino e il problema delle serie sulla cultura del lavoro è che dipingono una storia ancora troppo recente perché possa essere vista con il giusto distacco. Tuttavia, l’avvento della pandemia ha creato una netta divisione tra il prima e il dopo Covid, tanto da far risultare questi racconti troppo distanti da percepirne appieno lo spirito. C’è comunque qualcosa di inquietante nella visione di WeCrashed, una serie che dipinge un’idea al suo estremo (l’insegna al neon «Dacci dentro» e le tazze «Fa ciò che ami» sono simboli espliciti di questa cultura) anche se inizia a non essere più di moda. (Momento verità: nel 2019, lavoravo per il Guardian US da un ufficio del WeWork a New York). Le feste «Thank God It’s Monday» e le previsioni di fatturato da miliardi di dollari risultano ridicole nel 2022, e lo sono sempre state. Forse queste serie, senza farlo apposta, riflettono una cultura che sta cominciando a capirlo.
 

Adrian Horton è una giornalista statunitense. Si occupa di arte e cultura per il Guardian US. Questo articolo è stato pubblicato il 31/03/2022 sul Guardian ► Hustle harder: how TV became obsessed with stories of workism | Traduzione di Valentina Pesci


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