Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
con Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Adrien Brody, Willem Dafoe
Orso d’argento a Berlino dove ha aperto la 64esima edizione del festival, vince in casa il nuovo gioiellino di Wes Anderson, che ha trovato proprio in Germania, tra Görlitz, la stessa Berlino e lo storico Studio Babelsberg di Potsdam, la sua Zubrowka – più che reale, con tanto di stemma che ricorda l’impero austro-ungarico, di film commission che invita le case di produzione a girare nella zona e di sito internet retrò che ne ricorda la storia.
Una ragazza entra nell’innevato cimitero di Lutz, e di fronte al monumento in ricordo dell’Autore apre il libro che ha tra le mani, diviso in cinque capitoli: all’elegante Grand Budapest Hotel, istituzione della repubblica di Zubrowka, il concierge Gustave H. (R. Fiennes) istruisce il giovane garzoncello Zero (T. Revolori) – zero esperienza, zero educazione, zero famiglia. Il novizio, fin da subito fedele al suo mentore, lo aiuterà a sfuggire agli intrighi della famiglia Desgoff-und-Taxis che lo accusa della morte della defunta Madame D., anziana donna di cui Monsieur Gustave era amante.
Il gusto della rappresentazione si mischia a quello retrò per i modellini, oltre che nel bere, dato che Anderson sceglie per la sua repubblica il nome di una vodka
Ispirato alle opere dello scrittore viennese Stefan Zweig e sceneggiato dallo stesso Anderson, Grand Budapest Hotel conferma la grazia del regista statunitense nella messinscena, affidata ad un trio di prim’ordine: fotografia del fedele Robert Yeoman, scenografia di Adam Stockhausen e costumi della tre volte premio Oscar Milena Canonero. Il gusto della rappresentazione si mischia a quello retrò per i modellini – l’hotel, la pista da sci, la funivia –, di un garbo elegante nell’era del volgare effetto digitale. Gusto che si conferma anche nel bere, dato che Anderson sceglie per la sua repubblica il nome di una vodka, e nella migliore tradizione russa inscatola un racconto nell’altro in una struttura a matrioska, passando con disinvoltura da un formato classico per il presente ad uno schermo panoramico per il passato prossimo ad uno quasi quadrato per il passato remoto,a richiamare il cinema di quegli anni Trenta in cui gran parte dell’azione si muove. E se il giallo resta ancora il colore dominante e in nome di un’eterogeneità di tavolozza non si disdegna un’incursione nel bianco e nero, per rappresentare un tempo lontano Anderson vira invece alle declinazioni di rosa e di viola – le divise, i dolci, la facciata del Grand Budapest – avvolgendo il suo mondo in un’aura di fascino e malinconia.
Nel suo gioco a scatole cinesi tutto ruota intorno al ruolo del regista, inteso non come artista ma, alla Anderson, come elegante narratore di storie, in Grand Budapest Hotel accompagnate dall'aggraziata tessitura sonora di Alexandre Desplat. Il centro di gravità è infatti l’Autore – non un autore in particolare o l’autore, in minuscolo, ma in maiuscolo e senza nome, proprio a ricordarne il valore in senso lato, letterario o cinematografico – Jude Law da giovane e Tom Wilkinson da vecchio, che introduce la storia ricordando che per saper raccontare basta spesso saper ascoltare, perché «quando le persone scoprono che sei uno scrittore sono loro a portarti i personaggi e gli eventi». E la targa In memoria del nostro tesoro nazionale sotto alla testa bronzea dell’Autore non fa altro che ricordare l’importanza di chi racconta: al monumento la ragazza appone l’ennesima chiave, apertura fisica e metaforica alle pagine del libro e alle immagini del film – le chiavi delle stanze degli hotel, della sauna, della cella, sul pendente in porcellana, sulle divise dei concierge, la stessa Società delle Chiavi Incrociate.
Al monumento la ragazza appone l’ennesima chiave, apertura fisica e metaforica alle pagine del libro e alle immagini del film
Senza risparmiarsi divertenti frecciatine politiche a fascismi – l’occupazione dei «luridi maledetti butterati stronzi fascisti» – e comunismi – il 1968 in cui «molte istituzioni erano diventate proprietà comune» – inedite nel suo cinema, Wes Anderson allunga la sua galleria di personaggi irregolari, servito da un cast eccezionale. Un grande Ralph Fiennes, spesso in vesti di cattivo o di squilibrato, conferma la sua camaleontica bravura nell’interpretare l’elegante e femmineo Gustave H., mentre Tony Revolori ne è il degno garzoncello. Al seguito una folta schiera di attori stravolti alla maniera di Wes: la Madame D. dell’invecchiata Tilda Swinton, la fiera Agatha di Saoirse Ronan, lo spietato Jopling di Willem Dafoe, il folle e spassoso Dmitri di Adrien Brody, l’impacciato Serge X. di Mathieu Amalric, il carcerato dal cuore d’oro di Harvey Keitel, l’autorità gentile di Edward Norton, alla maniera di Moonrise Kingdom, e il baffuto concierge Ivan dell’immancabile Bill Murray. E non finisce mai di stupire, nella sua stridente poesia, quanto in un universo musicale e variopinto, a tinte gialle o rosa, i personaggi di Anderson rimangano taciturni, lievi, delicati, e tutti portatori di dolorose sofferenze e d’intime solitudini.
«Perché vuoi fare il fattorino d’albergo?»
«Chi non vorrebbe al Grand Budapest, signore?»
USA 2013 – Comm. 100’ ★★★
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