Gli occhi di Antonioni
Lo sguardo femminile sulla città come chiave di lettura del mondo
Negli anni ’60 le città italiane e le metropoli cominciano ad acquisire la conformazione di megalopoli e il conseguente inurbamento verso la periferia, per assumere sempre più un aspetto cementificato. Un cambiamento che non riguarda soltanto l’aspetto architettonico della città ma, soprattutto, quello antropologico. Negli stessi anni Michelangelo Antonioni è stato capace di trasferire, nelle sue pellicole, questo momento di trasformazione del paese guardando in modo inedito alla realtà. Non è un caso che Barthes lo definisse un «viaggiatore einsteiniano» perché, come afferma la professoressa Giuliana Bruno in Atlante delle emozioni, «non sa mai se è il treno o lo spazio-tempo a essere in moto e, di sé, se è un testimone oppure un uomo mosso dal desiderio». Antonioni crea una struttura spaziale capace di toccare margini sconosciuti descrivendo in modo inquietante il viaggio dell’abitare la città. La dissezione architettonica porta a una mutata condizione geo-psichica per lo più evidente nei gesti tattili dei personaggi femminili che, persi totalmente in viaggi geo-psichici, danno avvio a un genere cinematografico inedito.
La notte del 1961, in cui alcune tematiche riprendono la celebre novella The Dead di James Joyce, si sviluppa come un percorso al contempo reale e simbolico, un percorso che il personaggio di Lidia – interpretata da Jeanne Moreau – si troverà ad affrontare. La Milano degli anni ’60 è il simbolo del cambiamento dell’Italia di allora, con la vecchia città ottocentesca sostituita da quella nuova: un cambiamento raccontato non solo attraverso inquadrature in cui si accostano elementi architettonici della vecchia Milano a quella nuova, ma anche attraverso i personaggi stessi. La pellicola si apre con la morte di Tommaso un intellettuale critico che rappresenta, simbolicamente, l’industria culturale e come tale la vecchia Milano ormai morente. Il protagonista maschile Giovanni, di contrario, è la nuova città della cultura acritica, brillante e servile – con il volto di Marcello Mastroianni.
La donna, come in moltissimi film di Antonioni, si trova nel mezzo a queste due forze capace di cogliere sia quella del passato sia del presente. È per questa ragione che il regista ferrarese avvia un percorso esclusivamente riservato a Lidia, dando la possibilità allo spettatore di vedere come Milano conservi un doppio strato sia simbolico sia reale. La donna ha la capacità di uno sguardo sensibile, istintivo e più aperto al possibile: è un soggetto nuovo, capace di guardare al mondo con amore mantenendo una posizione di marginalità rispetto alla realtà, e così il suo sguardo le consente di ascoltare tutte le possibili voci che il reale le presenta.
In Antonioni la donna è un soggetto nuovo, capace di guardare al mondo con amore mantenendo una posizione di marginalità rispetto alla realtà, e così il suo sguardo le consente di ascoltare tutte le possibili voci che il reale le presenta
La flânerie di Lidia emerge in una lunga sequenza nella quale, narrativamente, non accade nulla. Jeanne Moreau cammina senza meta per la vecchia Milano e la cinepresa, letteralmente, “prende o perde tempo” – in fin dei conti sono la stessa cosa – e rimane “imbambolata” smarrendo la stessa storia che stava raccontando. La divagazione della macchina da presa diventa, nel cinema di Antonioni, una vera forma poetica. Attraverso questa sequenza la donna assurge al ruolo di soggetto al contempo debole e forte, un soggetto capace di reggere all’urto della modernità. La flânerie nella vecchia Milano sottolineata dal cosiddetto sguardo tattile dove la mano della donna nell’atto di sfiorare, in una carezza infinita, una porta che immediatamente si disfa è simbolo di quel mondo in disfacimento. Lo sguardo tattile di Lidia diventa, irrimediabilmente, anche un modo per osservare il mondo che ci circonda.
Il cinema di Antonioni vede nello sguardo femminile l’unico in grado di cogliere il passato e il mito dietro la superficie dell’eterno presente. Non è un caso che nel corso del film sarà Lidia ad avventurarsi per la città e non Giovanni, relegato piuttosto all’interno di moderni palazzi. La contrapposizione tra i personaggi viene resa abilmente con un montaggio alternato in cui l’immobilità dell’uomo che rimane seduto in casa viene contrapposta al vagabondare della donna per la città: la cinepresa si muove insieme a lei intenta a seguirla negli zigzagare continui come se volesse scoprire il suo modo di vedere. In tutto questo errare la macchina da presa, letteralmente, sente lo spazio.
La notte è l’avvento della flâneuse ovvero della donna che passeggia, unico soggetto in grado di stare su questa linea di confine sopravvivendo a essa, in un perenne equilibrio fra passato e presente, fra i vivi e i morti; un personaggio che fa dell’abitare il confine, la sua forza. La crisi che il personaggio femminile vive si traduce quindi in una crisi di sguardo anche cinematografico: Marcello vede tutto ma non capisce, Lidia invece cerca di comprenderlo attraverso l’errare nella città.
La crisi che il personaggio femminile vive si traduce quindi in una crisi di sguardo anche cinematografico: Marcello vede tutto ma non capisce, Lidia invece cerca di comprenderlo attraverso l’errare nella città
Con il 1962 e L’eclisse Antonioni giunge a una «parodia del paesaggio che trova nella città una perversa e persino bella caricatura», come scrive Sandro Bernardi in Il paesaggio nel cinema italiano. Il film presenta uno scenario quasi apocalittico, nel quale i personaggi si muovono immersi in una natura che si fa arida presenza e si contrappone a un’architettura cementificata e fredda. Nella pellicola la vera svolta avviene quando la protagonista Vittoria – interpretata da Monica Vitti – riporta alla luce l’impronta di una piccola pianta all’interno di una pietra fossile: da quel momento la natura si manifesta prepotentemente. La parodia paesaggistica diventa esplicita nelle foto che vediamo chiaramente inquadrate nella casa di Marta, un’amica di Vittoria. Qui i paesaggi sono perduti, lontani o distrutti dall’industria, semplici suppellettili di design o banali sfondi per la camera da letto. Al contrario il regista costruisce inquadrature su inquadrature che si fanno parodia della natura stessa, dove i lampioni accesi sembrano cieli stellati, i cani viaggiano su due zampe e una fila di pali d’acciaio stormiscono al vento credendosi fronde di alberi.
I personaggi paiono non comprendere più il mondo e lo stesso paesaggio urbano che li circonda è esplicitato nella lunghissima sequenza finale, di ben 7 minuti, dove non accade nulla se non un susseguirsi di 57 inquadrature di vedute urbane. I personaggi non comprendono la stratificazione del reale ed è per questo motivo che nelle ultime inquadrature il regista, domandandosi se la presenza dei personaggi sia significativa, decide di toglierli: quel che resta sono solo vedute di Roma.
In Antonioni le vedute urbane lasciano sempre emergere la componente della natura, intellegibile ai personaggi, che con la sua forza primigenia e incontenibile cerca di affiorare in un ambiente urbano controllato. Tramite stacchi di montaggio Antonioni passa dalla focalizzazione sul personaggio a quella su di un elemento naturale come, ad esempio, le fronde di un albero, facendoci così intendere che queste sono il vero soggetto. Nella sequenza finale infatti, la città sembra ritornare alla natura e regredire al silenzio delle origini. I personaggi si muovono al pari delle costruzioni, facendo del luogo uno spazio in cui la cinepresa si sposta invano, alla disperata ricerca dei personaggi, senza riuscire a rivelarli. Tutto si esplicita con un’immagine di giornale in cui è raffigurato il fungo della bomba atomica. È forse questa l’apocalisse, l’Eclisse appunto? No, la vera desolazione era già contenuta in tutte le immagini precedenti, la vera Eclisse è la desolazione del presente. Con questo film Antonioni giunge a un cinema radicale nel quale i personaggi scompaiono per lasciare il posto al vero protagonista: il luogo.
Con L'eclisse Antonioni giunge a un cinema radicale nel quale i personaggi scompaiono per lasciare il posto al vero protagonista: il luogo
II film del regista ferrarese presentano un mondo transitorio in cui è lo spettatore a doversi muovere diventando esso stesso passeggero: flâneur in uno spazio diegetico di paesaggi architettonici frammentati. Lo spettatore antonioniano vive negli intervalli, nei frammenti, nelle pause e, attraverso i tempi morti, che modella un’architettura di attraversamento. Giuliana Bruno parla di come il regista «ci obblighi a cibarci degli avanzi della storia, a esplorare lo spazio che essi (i personaggi ndr) hanno attraversato e in cui hanno vissuto». Antonioni si sofferma su un singolo fotogramma permettendoci di percepirlo, di renderlo tangibile in modo da stabilire, con esso, un reale legame affettivo. Il flâneur-spettatore dei suoi film abita letteralmente lo spazio diegetico che, attraverso lo sguardo del personaggio femminile che vaga in spazi dell’Italia degli anni ’60, assiste a un vero e proprio trasferimento del mondo interiore del personaggio in vere configurazioni spaziali.
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