Giusto terrore

Il nuovo libro di Alessandro Gazoia a cavallo tra terrorismo islamico e Anni di piombo

Il terrore di cui parla Alessandro Gazoia è quello che ogni lettore europeo può attendersi da un libro che esca nel 2018 e s’intitoli Giusto terrore. L’autore non ci tiene a smentirlo e apre il primo capitolo con l’immagine di una delle più terrificanti delle esecuzioni a cui, dal 2014, lo Stato Islamico ha abituato il pubblico mondiale. Quest’immagine, però, è montata in una sequenza che in parte sorprende: non veniamo perentoriamente spediti tra le sabbiose città del Medio Oriente infuocato dal jihad, in un quadro esotico che i mass media sono riusciti a renderci stranamente familiare. Giusto terrore. Storie del nostro tempo conteso non è un saggio e perciò non vuole riferire i suoi contenuti secondo un qualsiasi criterio preliminare di ordine e omogeneità. Gazoia parla in prima persona e aggancia regolarmente i suoi temi ad una narrazione autobiografica che, per quanto non lineare e volentieri interrotta, fila dall’infanzia ad un adulto presente. Per questo dai dintorni di Raqqa veniamo accompagnati sulla scena, genuinamente familiare per molti, di un estenuante viaggio su un Intercity che tra Sanremo e Roma fa tutte le fermate possibili e immaginabili. E questo treno, grazie ad una stella a cinque punte che il pennarello di qualcuno ha disegnato su un vetro, porta il lettore in un contesto che l’età o la memoria cominciano a renderci esotico: quello del terrorismo politico delle Brigate Rosse.

Come l’Intercity che sentiamo sferragliare nelle sue prime pagine, Giusto terrore si ferma molto spesso e dovunque abbia stabilito quel copione che è il cartellone con gli orari dei treni. Se le due grandi cornici di riferimento sono gli Anni di Piombo e l’islam politico con le sue declinazioni terroristiche, è inevitabile imbattersi nel caso Moro e nella guerra d’indipendenza algerina, nell’omicidio del sindacalista Guido Rossa e nella condanna a morte emessa dal grande ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, nelle strategie retoriche delle Brigate Rosse e nelle disposizioni del portavoce dello Stato Islamico, Abu Muhammad al-‘Adnani, circa l’opportunità di uccidere i miscredenti dovunque si trovino. Ma con questi e cento altri materiali affini Gazoia costruisce un vasto ipertesto in cui le fonti scritte si intrecciano a quelle visuali, in una elaborata dinamica di riferimenti incrociati e rimandi inattesi che consentono alla narrazione di seguire percorsi inediti e stranianti. Da una parte ci sono personaggi, situazioni e citazioni che sembrano a un primo sguardo particelle inoffensive del movimento narrativo oppure il residuo casuale di un lavoro serrato di ricombinazione tematica ma intorno cui, nel corso del libro, si sedimentano significati al tempo stesso assonanti e conflittuali – ad esempio, la storia che Marco Polo racconta sul Vecchio della Montagna e sui suoi hashishin è buona per indagare ora il lessico brigatista, più tardi le tecniche di reclutamento della gioventù iraniana durante la guerra del 1980-1988 contro l’Iraq. Dall’altra, Gazoia si sofferma esplicitamente sulle parole (come compagno), ne evidenzia la natura stratificata e ramificata per mettere in luce quello che più gli interessa: l’essere delle parole – e quindi delle cose e dei tempi storici che animano e governano – un terreno di scontro.
 

Le parole hanno più di una storia e le armoniche di senso risuonano in modi diversi nel tempo, nella comunità e nel singolo che parla, ricorda e scrive. Siamo parlati dal linguaggio, ma proprio per questo dobbiamo negarci ogni estasi etimologica, non importa che in uccidere si celi caedo, verbo tecnico dei latini per il togliere la vita nel sacrificio: non significa nulla di più.


Lo stesso avviene nel campo più ampio dei documenti a cui Gazoia attinge. Così a proposito de La battaglia di Algeri, film del 1966 di Gillo Pontecorvo che innerva una lunga sezione del libro, l’autore sviscera la polisemia e i reimpieghi contraddittori che il tempo ha cavato dall’opera: dalla rappresentazione ortodossa di una rivoluzione di popolo, «il proletariato arabo che insorge contro la borghesia francese», all’«abuso costante come video educazionale di counterinsurgency» da parte della dittatura argentina degli anni Settanta e degli statunitensi che occupano l’Iraq dopo la Seconda guerra del Golfo.

La dimensione più profonda in cui questi conflitti si articolano è però quella della vita personale dell’autore. Qui si riconnettono le storie del nostro tempo conteso del sottotitolo del libro, in una microstoria dalle prospettive globali che cuce le trame del terrorismo brigatista insieme a quelle del terrorismo “di matrice islamica”, da quello fomentato da Khomeini a quello del Bataclan e dei camion lanciati sui viali, passando per la decolonizzazione, il conflitto israelo-palestinese, lo sviluppo tormentato di un’Europa multietnica e multiculturale. In questo modo Giusto terrore riesce ad essere qualcosa di più di un’intrigante rapsodia di lotte e aspirazioni e a presentarsi invece come una testimonianza significativa delle fratture e delle ambiguità interne a quel mosaico di società disseminate tra la Manica, il Mediterraneo e il Golfo persico a cui hanno dato vita la Guerra Fredda e la sua fine, così come la trasformazione dei vecchi imperi nominalmente crollati alla metà del secolo scorso. Nel ritratto sparso ma straordinariamente vivo di amicizie intense quanto variabili, dell’educazione che ha ricevuto e che si è costruito, dei rapporti coi parenti e soprattutto col padre, nella concretezza della quotidianità e della conversazione, oltre che in una semplice ma limpida introspezione di un sé che cresce, Gazoia rappresenta le declinazioni personali della conflittualità universale che Giusto terrore si impegna a restituire. Per questo, tra i vari filtri da cui dipende nel tempo la sua mutevole posizione nei confronti delle Brigate Rosse, non possono mancare «i languori sulle guerrigliere metropolitane e sui loro occhi che brillano d’amore e di rivolta»:
 

Nella foto segnaletica in bianco e nero […] Barbara Balzerani è una dolcissima postadolescente dai capelli neri, e soave, francescano risuona il suo nome di battaglia: compagna Luna. Appare ancora molto attraente al momento dell’arresto, con un taglio pop anni ottanta che le dona tanto. Adriana Faranda persino nella foto segnaletica risplende come una diva del cinema – lo sguardo profondo, le guance d’aurora, il disegno perfetto delle labbra.


Ma il vettore personale che conduce la narrazione e la discussione dei temi in un quadro soggettivamente coerente non rende omogenei i giudizi e le opinioni ricavabili da Giusto terrore, ovvero non tenta di ridurre ad una – se mai fosse possibile – la molteplicità di letture offerta dal libro. Come ha notato Paolo Pecere sul Tascabile, Gazoia ha una posizione chiara nei confronti del fenomeno del terrorismo, o meglio della sua interpretazione: punta al «riconoscimento della radice ideologica di quelle condotte» e assume un atteggiamento critico e decostruzionista rispetto ai discorsi e alle retoriche che si addensano intorno a quel fenomeno, tanto dalla parte di chi lo anima quanto da quella di chi lo contrasta. Del resto, attraverso il patrimonio autobiografico che investe nel libro, l’autore mostra come nemmeno lui sia stato sempre capace di sottrarsi a quelle retoriche e a quei discorsi. Proprio grazie all’intreccio di un vissuto che non perde mai la sua personalità con la combinatoria spiazzante e continua di parole, immagini ed eventi della vita pubblica, con la riflessione disincantata che è bene esercitare su significati continuamente (ri)attribuiti, Gazoia indica al lettore una strada – la sua – per formulare un giudizio sui perché possa essere giusto un terrore. È la strada di una conflittualità e di un’ambiguità intrinseche alla società e al linguaggio che è necessario affrontare e che al tempo stesso sono destinate a rimanere irrisolte.


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