Giuseppe Rotunno | Lezioni di fotografia

In ricordo di uno dei grandi autori della fotografia della storia del cinema: tra Visconti, Fellini e Gilliam

Il direttore della fotografia è una figura che, paradossalmente, spesso lavora nell’ombra. Nonostante l’apporto fondamentale all’estetica e al linguaggio di un film – dura da decenni la battaglia della categoria italiana perché il ruolo venga riconosciuto non come semplice direttore ma come autore della fotografia –, il suo contributo all’opera viene oscurato dal lavoro del regista. Eppure, soprattutto nella stagione dei grandi operatori di macchina nati negli anni ’20 del secolo scorso, i nomi che emergono sono tutt'altro che secondari rispetto ai registi che ricordiamo, perché quando parliamo di Dino Risi, Pasolini, Monicelli, Visconti, Fellini, Rosi e persino di Woody Allen, allora parliamo anche di grandi autori della fotografia come Tonino Delli Colli, Pasqualino De Santis, Carlo Di Palma. Giuseppe “Peppino” Rotunno era l’ultimo baluardo di quella generazione che ha plasmato l’immaginario delle generazioni a venire, non solo generazioni di spettatori ma anche di autori della fotografia, con il suo lavoro decennale da insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia. È scomparso il 7 febbraio 2021 alla vigilia dei 98 anni, che avrebbe compiuto il 19 marzo, e vogliamo ricordarlo ricordando alcune vette assolute del suo lavoro. Della sua sterminata filmografia, che va da classici del cinema italiano come La grande guerra di Monicelli o Ieri, oggi, domani di De Sica, Film d’amore e d’anarchia di Lina Wertmüller e Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi passando per Stanley Kramer, Mike Nichols e il Bob Fosse di All That Jazz fino al lungo sodalizio con Federico Fellini, abbiamo selezionato cinque grandi classici che ne raccontano la grandezza.

Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti
Nel corso della collaborazione con Visconti, Rotunno costruisce la nebbia più o meno densa di Le notti bianche, i colori di grande suggestione pittorica de Il Gattopardo, i rarefatti chiaroscuri di Rocco e i suoi fratelli che è valso a Rotunno il premio alla miglior fotografia a Cannes e ai Nastri d’argento nel 1961. Nel film, nato da una sceneggiatura scritta da Visconti, Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli, Rotunno con il lavoro sulla luce è capace di raccontare la storia tragica e terrigna di questi fratelli, facendo emergere le emozioni e ogni meraviglia della fantasia del regista. In Rocco e i suoi fratelli Visconti torna all’ossessione della verità ma con un’evoluzione espressiva diversa, utile ad ammettere anche qualche finzione. Con la sua struttura drammaturgica classica, il film porta in scena i temi della crisi dei rapporti familiari e della corruzione legata al mutare delle condizioni esistenziali, riproponendo un’epica verghiana, con i suoi protagonisti lontani dalla terra d’origine, immersi in una metropoli nebbiosa e infida. Rotunno si infila lì tra una forza e un’altra, usa il suo sguardo pittorico, il bianco e nero caldo, per costruire corpi e volti e conferire a ogni elemento compositivo un posto nel suo cinema “carnale”, elegante e raffinatissimo. Utilizza la sottoesposizione per dare granulosità, autenticità e intensità alle facce di Rocco e di Simone, alla loro rabbia, alle loro lacrime, per segnare i contorni di un viaggio al nord che dovrebbe essere evoluzione ma che diventa crisi. La sofferenza di quelle anime, la sensualità di Nadia, la tragedia dell’allontanamento forzato e della solitudine di Rocco, della violenza di Simone, sono utilizzati da Rotunno, sostenuto dalla storia e dal lavoro di Visconti, per far emergere il peso dell’essere umano all’interno del fotogramma. Rotunno partecipa con la sua storia di luci e ombre, con il suo bianco e nero corposo al cinema di uomini e donne di Visconti e dà loro verità e rilievo. Non è un caso che Martin Scorsese abbia definito Rocco e i suoi fratelli «una delle immagini in bianco e nero più sontuose che abbia mai visto».

Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», dice il giovane rampante Tancredi allo zio Fabrizio, in una delle frasi più celebri e iconiche de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Giuseppe Garibaldi e le camicie rosse avanzano incontrastati in Sicilia e don Fabrizio, principe di Salina, guarda ormai con disincanto e rassegnazione al passaggio dell’isola e del suo feudo di Donnafugata allo Stato Sabaudo e, ancor più, al tramonto dell’aristocrazia latifondista. Pochi anni dopo la pubblicazione postuma del romanzo (1958), Luchino Visconti prende in mano l’incarico della trasposizione cinematografica con Rotunno, già alla quarta collaborazione con il regista milanese. Per entrambi la pittura è fondamentale per capire il passato da un punto di vista figurativo e durante la preparazione di questo film, di ritorno dal lavoro, i due si fermano anche presso le botteghe di antiquariato: per vedere e “annusare” i mobili, i disegni, i quadri, così da respirare insieme l’epoca del film. Il connubio è perfetto, nasce «una delle più grandi esperienze visive della storia del cinema» – mutando le parole di Martin Scorsese. Il Gattopardo di Visconti è un’opera raffinata e fastosa, che fa della luce e dell’estetica elegante il mezzo per raccontare in profondità la condizione atavica e universale di un intero popolo, sospeso tra passato e presente, memoria e realtà. Fra drappi, tappezzerie vistose e migliaia di candele – con l’uso di luci artificiali ridotto al minimo per volontà del regista, un dispendio di energie enorme dal punto di vista logistico e organizzativo – Visconti e Rotunno, insieme allo scenografo Mario Garbuglia e al costumista Piero Tosi, riescono nell’impresa epica di abitare pienamente un’epoca; vivere il passato attraverso l’immagine cinematografica diventa così lo strumento per leggere un presente altrettanto vivo e, ancora di più, per leggere l’universale. La luce solenne di Rotunno bagna volti, spazi, abiti e venature del mobilio, con eleganza e sensualità, un’eleganza in grado di restituire la sacralità remota del paesaggio siciliano e dei suoi abitanti, un popolo che muta restando sempre com’è: «il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali. La nostra sensualità è desiderio di oblio; la nostra pigrizia, la penetrante dolcezza dei nostri sorbetti, desiderio di voluttuosa immobilità, cioè ancora di morte. Perché noi siamo dèi», dice don Fabrizio. Insieme alla Palma d’oro a Cannes nel 1963, il film vincerà tre Nastri d’argento, alle scene di Garbuglia, ai costumi di Tosi e alla fotografia di Giuseppe Rotunno.

Amarcord (1973) di Federico Fellini
Di tutto il Fellini a colori, forse Amarcord è il film più iconico. È anche il parere del poeta e sceneggiatore del film Tonino Guerra, che a quarant’anni dalla sua uscita lo definiva ancora «un film intramontabile, senza tempo», di più: «è il ritratto di un’umanità». Dopo La strada e , insieme a La dolce vita, Amarcord è entrato nell’immaginario visivo e linguistico del nostro paese andando ad indicare quel momento nostalgico e malinconico in cui ci ricordiamo l’infanzia; un'infanzia che riportiamo alla mente con i contorni morbidi del sogno, che idealizziamo e di cui edulcoriamo tutti i lati negativi o problematici per estrarne oculatamente solo i momenti che fanno dei nostri ricordi una sorta di età dell’oro della vita, in cui siamo spensierati, allegri, sempre felici. Senza lo sguardo di Fellini e le luci di Rotunno, probabilmente la stessa parola oggi avrebbe un altro significato. Amarcord, quello che poi non è soltanto il “mi ricordo” romagnolo, come ricorda Guerra: «Tutti pensano che sia solo il riferimento al dialetto ‘mi ricordo’: è vero, ma solo per assonanza, perché in realtà deriva dalla ‘comanda’ dei ricchi che entravano al bar chiedendo l’amaro Cora. Da amaro, amaro Cora, è nato Amarcord». Un film intriso di memoria, sogno, del lirismo della quotidianità provinciale che si fa commovente nell’ordinarietà dei suoi accadimenti – la curiosità sessuale, il folklore delle feste di paese, i riti della provincia – che si incrociano con la storia d’Italia raccontata con il filtro del ricordo, tra le adunate fasciste, la Mille Miglia, il passaggio del transatlantico. Tutta questa materia di cui il film è imbevuto trasuda dalle luci di Rotunno, nei rossi degli abiti dei ragazzi, nei neri e negli ocra dei grani delle campagne, nei bianchi morbidi delle nevi e delle nebbie con cui i personaggi giocano o in cui scompaiono, lentamente, per svanire in quella memoria e in quel sogno che li aveva partoriti.

Il Casanova di Federico Fellini (1976)
Quando Federico Fellini decide di portare sul grande schermo le gesta libidinose dell’amante per antonomasia, Giacomo Casanova, il lavoro attorno al film incontra non poche difficoltà e rallentamenti e l’unica certezza è quella di affidare, ancora una volta (come già in Roma, Fellini Satyricon e il precedente Amarcord), la direzione della fotografia a Giuseppe Rotunno, l’uomo che con il suo obiettivo sembra riuscire realmente a dar vita e sostanza alle idee oniriche del regista. Il film ha un’impronta prettamente teatrale e i sinuosi abiti che vediamo in scena (Danilo Donati vinse l’Oscar per i miglior costumi), sempre con tinte molto accese, collidono con lo sfondo grigiastro, dato dal cielo fuligginoso nelle scene ambientate in esterno e con le pietre algide delle pareti in interno. Ed è in questo sapiente uso cromatico che il talento di Rotunno si esalta creando delle immagini dove mettendo in contrapposizione i colori riesce a dare risalto alla frenesia della scena, soprattutto in quelle sequenze colpe di passionalità e impeto, mentre al contrario è abile a edulcorare questo aspetto nelle scene più contemplative, rilassate e malinconiche rendendo più omogenea la sua tavolozza cromatica. Lo si nota già nel primo incontro sessuale del Casanova, l’amplesso avviene all’interno di una villetta situata su un’isola dove si incontra con una suora, e i due personaggi vengono mostrati in penombra, ma non appena iniziano ad addentrarsi nella conversazione i loro volti iniziano a rischiararsi, colpiti dalla tenue luce delle candele, il rosso dell’abito della suora si staglia sul bianco del Casanova prima di consumare l’amplesso sopra un letto coperto da un drappo blu. Poi, non appena il tutto si è consumato, il volto del protagonista torna nell’oscurità. Rotunno è abilissimo nel calibrare questo raffinato gioco di luci ed ombre, di tinte calde e fredde, riuscendo a rendere ogni scena straordinariamente comunicativa e intellegibile, e conquistando la nomination ai BAFTA e il Nastro d’argento per la miglior fotografia.

E la nave va (1983) di Federico Fellini
1914: il piroscafo “Gloria N.” salpa dal molo numero 10 di un non meglio definito porto di Napoli. E la nave va, mettendo in scena l’ipocrisia, la superbia e la meschinità della nobiltà e dell’alta borghesia italiana, pronta a cucciarsi per il mal d’amore di un rinoceronte trasportato in stiva ma incurante del destino di alcuni profughi serbi presi a bordo della nave in seguito ad un naufragio. Giuseppe Rotunno fotografa quest’originale affresco di personaggi usando una tavolozza di colori povera e desaturata, come degli acquerelli dai contorni slavati che dipingono la malcelata sciatteria dei protagonisti di questo viaggio. La composizione delle inquadrature è fin troppo rigorosa, quasi algida, volta a restituire nello spettatore un senso d’incredulità che fa il paio con la rigida formalità borghese fatta di sola apparenza, di sterili formule e vuoti riti di cortesia dietro i quali si cela spesso l’animalità degli istinti soppressi e la malizia, il classismo e a tratti la cattiveria dei personaggi. Rotunno fa tutto ciò con la maestria di chi non si mette in mostra o mette in mostra la sua arte fotografica per pura vanità artistica, ma segue la storia mettendo in luce e supportando la visione scaturita dalla pagina scritta. Fino all’ultima scena, quando in una delle sequenze di metacinema più famose della settima arte verrà svelato tutto il teatro di posa con l’attrezzatura di ripresa e gli operatori, i fondali e le quinte scenografiche servite per ricreare la barca, mentre dei teli di plastica blu vengono mossi dalle maestranze per simulare il mare e il luccichio della luce sulle onde.

Le avventure del barone di Münchausen (1988) di Terry Gilliam
Il cinema di Terry Gilliam è una continua visione, a volte sognante a volte allucinata, di una realtà altra e immateriale, eterea e al contempo concreta. Le sue opere vivono di creazioni immaginifiche fatte di legno e metallo, creta e cartapesta, quasi fosse lui stesso, in ogni momento, a plasmare il suo cinema con le proprie mani, a modellarlo a immagine e somiglianza della propria immaginazione. Non meraviglia, allora, che per raccontare l’immaginario posticcio e decadente de Le avventure del barone di Münchausen Gilliam si sia affidato alle luci di Rotunno, memore di quelle maschere felliniane così artificiali e così commoventi che la sua fotografia aveva raccontato per vent’anni. Rispetto alla prima parte della cinematografia di Gilliam, infatti, il Barone non abita il mondo giocoso de I banditi del tempo né quello inquietante e distopico di Brazil, ma un universo pericoloso in cui si fa spazio sognando. Il Barone è un personaggio donchisciottesco – forse già il Don Chisciotte da cui Gilliam si fece sconfiggere in Lost in La Mancha e su cui infine prevalse con L’uomo che uccise Don Chisciotte – fatto di sogni, ideali e profonda ingenuità che gioca dove gli altri combattono, crede dove gli altri disperano. In questo passo fondamentale del cinema di Terry Gilliam, Rotunno porta per l’ultima volta la sua fotografia sognante al servizio di personaggi fantastici che popolano le storie del Barone e le nostre: i fidi compagni Adolphus, Gustavus il nano, il forzuto Albrecht e il velocissimo Berthold di Eric Idle, la Venere di Uma Thurman e il dio Vulcano di Oliver Reed, il Re della Luna con la testa di Robin Williams. Il set del film, girato in buona parte negli studi di Cinecittà, è un circo favoloso che si può ammirare all’opera in questo backstage dell’Archivio Luce dove Gilliam e Rotunno animano insieme il loro sogno ad occhi aperti, lì, dentro i palazzi della città dei sogni.

 

Andrea Caciagli, Antonio Costa, Eleonora Degrassi, Luca Galasso, Giulio Nassi


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