Giuseppe Mazzini
Genova, 22 giugno 1805 – Pisa, 10 marzo 1872
Alla carboneria il borghese Giuseppe Mazzini dà l’addio nel 1831, per tradurre l’impegno politico e civile che gli è congenito nel disegno della Giovine Italia, dove sorge la visione mazziniana: costruire una repubblica unitaria di “liberi ed eguali”, consci di appartenere alla stessa nazione, all’immortale comunità in cui soltanto, trascesi gli individui, si attuano i valori morali indispensabili all’esistenza del popolo – quel fascio d’umanità nella cui anima si manifesta Dio. Serve dunque un’educazione all’insurrezione e un’insurrezione che educhi: se, infatti, non nella natura né nella razza, ma nella coscienza, nella volontà di essere nazione questa ha le radici, allora la libertà è soprattutto diritto e azione, e l’azione è sempre vittoria morale dello spirito di libertà, anche nella sconfitta. Proprio allora, anzi, risplende la concezione religiosa di vita-missione, di ineluttabile dovere, che a Mazzini dà la forza di andare avanti. Per quarant’anni egli incasserà sconfitte politiche e militari, vivendo perciò sempre esule, tra Lugano e Marsiglia, dunque a Londra, dove raffina la penna di critico letterario al servizio della missione nazionale; ogni volta che torna in Italia – a Milano nel ’48, a Roma nel ’49, a Napoli nel ’60, ma non solo – è respinto, anche dai suoi confratelli: nemo propheta in patria. Ma contro l’estremo rovescio – i patrioti, primo Garibaldi, preferiranno alla repubblica Vittorio Emanuele, all’Italia il Piemonte – Mazzini avrà il merito storico di aver imposto a tutti, anche a chi gli è nemico come Cavour, l’idea-forza che dà un volto e un nome all’obiettivo politico comune: la nazione.
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