Gesuiti e giapponesi: Giuliano Nakaura
Othersiders - Esperienze passate nell’incontro/scontro tra culture
«Gli altri, vestiti all’usanza loro con certe zimarre di broccatello sino in terra, con cappelli in testa, con scimitarre a lato in fodero d’argento s’inviarono verso S. Pietro. Andava inanzi tutta la cavalleria del Papa, et la guardia de Sguizzeri; seguivano le Corti de Cardinali, con le mule coperte di pavonazzo, et anche le famiglie degli Ambasciatori, massime di quel di Spagna; dietro a queste veniva gran moltitutine di tamburi et trombe». Il 23 marzo 1585 Roma ribolle. «I Prencipi […] sopra belli cavalli coperti di gualdrappe di veluto nero, con guarnimenti d’oro, circondati da sei Palafrenieri per uno. Il primo era presoin mezo da due Arcivescovi; gli altri due da due Vescovi per uno; […] et in somma vi era il fiore della nobiltà di Roma». Ciò che tutti sconvolge e raccoglie – nella Sala regia il papa «stette sempre soffogato da Vescovi, et altri Prelati, che stavano uno sopra l’altro» – è la visita di tre «Principi Giapponesi, venuti a dare obbedienza a Sua Santità». Così il sottotitolo della Relatione del Viaggio et Arrivo in Europa, et Roma pubblicata quell’anno a Venezia da Paolo Meietto. Al tempo di Filippo II d’Asburgo e Gregorio XIII non era consueto spettacolo il passaggio di giapponesi in pompa magna per le strade di Roma, perciò l’evento s’impresse nella memoria e sulla carta, ché tutta la cristianità cattolica sapesse della sottomissione che emissari di reami lontani e potenti erano venuti a tributare al Pontefice. Stando alle lettere recate per conto dei daimyo cristiani del Giappone, era durato tre anni il viaggio verso l’Europa che, scortati su navi portoghesi da padre Alessandro Valignano e perciò custoditi dalla Compagnia di Gesù, i quattro giapponesi avevano intrapreso – di quattro persone infatti si trattava. Ito Mancio («Don Mantio») rappresentava Otomo Sorin di Bungo; «Michele» Chijiwa i signori cristiani di Arima e Omura. Li accompagnavano due giovani nobili, «Martino» Hara e «Giuliano» Nakaura.
«Don Giuliano, che era ammalato di febre, non potendo far l’entrata solenne a cavallo con gli altri, segretamente nel cocchio dell’Ambasciatore coperto fu condotto a San Pietro a baciare il piede a Nostro Signore, da cui fu amorevolissimamente ricevuto». Giuliano Nakaura era giunto a Roma in preda alla malaria, ma persuase i suoi accompagnatori ad organizzargli un incontro privato col Santo Padre. Un incontro eccezionale per entrambi, se è vero che pochi giorni dopo, sul letto di morte, Gregorio XIII chiedeva di pregare per la salute del «giapponesino». Papa Boncompagni sentì forse la fede che aveva spinto Giuliano a dire che la sola vista del pontefice l’avrebbe guarito. Estasiati dall’esperienza romana, i giapponesi chiesero a Claudio Acquaviva il permesso di farsi gesuiti per meglio testimoniare la Parola una volta tornati a casa. Il generale della Compagnia consigliò loro di concludere la missione diplomatica per poi consultarsi col Valignano; Nakaura non vacillò e volle entrare nel noviziato gesuitico di Kawachinoura, alle isole di Amakusa, quando fu di nuovo in Giappone nel 1591. Tempi duri per il Giappone. La Relatione lo vuol «diviso in sessantatre signorie, habitato da gente soverchiamente desiderosa d’honore e di regnare; la onde quei Prencipi fra di loro sono in continue guerre per confermare, et per accrescere gli Stati». Periodo di fragilità e disunione, segnato dalla continua lotta tra i vari capiclan che si contendevano il titolo di shogun, il Sengoku Jidai – «l’Epoca degli Stati in guerra» – era terreno fertile per la penetrazione dell’alterità, che qui venne sotto le spoglie del Cristo Salvatore. I portoghesi erano giunti nell’agognato Cipango nel 1543: i civilissimi indigeni erano rimasti impressionati da questa schiatta barbuta e puzzolente, gente che mangiava con le mani e non sapeva leggere. Subito affibbiarono ai nuovi venuti l’epiteto con cui designavano i popoli inferiori del sud-est asiatico: nanban, «barbari meridionali». Altra risma d’Europei conobbero quando Francisco Xavier, fondatore con Ignacio di Loyola della Compagnia di Gesù, mise piede a Kageshima il 15 luglio 1549 e cominciò a diffondere il Verbo. Ne proseguì l’opera il grande Valignano, a lungo in Giappone come Visitatore generale delle Missioni per le Indie Orientali e, come Matteo Ricci, abbastanza consapevole del valore intrinseco delle civiltà locali da promuovere forme di adattamento dell’evangelizzazione alla cultura locale.
L’opera di avvicinamento sincretico fece frutti: nella Relatione del Meietto si legge che «per lo spatio di trent’anni in quel paese si sono edificate circa dugento Chiese, e convertiti tanti, che al presente si trovano più di ducento mila Christiani: fra quali vi sono Prencipi grandi come li nostri Duchi d’Italia, e Regi di maggior potenza». Sembra di capire che a tali successi contribuisse l’azione di certi signori convertiti, che solevano far battezzare i propri sudditi, come la possibilità, più solida per chi seguisse Cristo, di commerciare con i portoghesi. Tra quei «Prencipi» c’erano anche quelli di Bungo e di Orima che nel 1582 – proprio su consiglio di padre Valignan – inviarono la storica ambasceria a Gregorio XIII. La cristianità tremava; in Francia divampava la guerra, le Fiandre bruciavano, Filippo II invecchiava e sul trono imperiale, ora nella «magica» Praga, sedeva l’incontrollabile stralunato Rodolfo II d’Asburgo. Che l’Evangelio giungesse con tanto profitto in così lontane contrade doveva sembrare una consolante conferma della presenza della mano divina dietro le spalle dei gesuiti, che ad maiorem gloria dei viaggiavano e predicavano instancabili. Per superare le barriere linguistiche e culturali contro cui poteva infrangersi il loro messaggio, Valignano metteva a punto un Cerimoniale per i missionari in Giappone e si dedicava alla fondazione di noviziati per i nativi. Fu qui che Giuliano Nakaura si fortificò nella dottrina della fede per portare il Verbo nelle terre dello Shogun, ora che con l’ascesa dei Tokugawa la Sengoku Jidai sembrava avviarsi ad una conclusione; i cristiani non avevano vita facile. Sfogliando il carteggio tra il Valignano e l’Acquaviva emerge l’attenzione della Societas Iesu per la politica locale, e ben presto lo shogun Toyotomi Hideyoshi cominciò a sospettare che la predicazione preparasse un’invasione. Il primo decreto d’espulsione rivolto ai gesuiti vide la luce nel 1587, ma non fu ben applicato. Deciso a riunificare il Paese, Hideyoshi si convinse della dannosità del cristianesimo quando arrivarono i francescani a contendere ai gesuiti l’attività missionaria; nel 1597 si aprì a Nagasaki la stagione dei martiri. Mentre i signori cristiani facevano la guerra, i gesuiti predicavano; lo stesso Nakaura era al seguito del daimyo Konishi Yukinaga, quando questo fu sconfitto nella battaglia di Sekigahara. Là si decise chi avrebbe raccolto l’eredità di Hideyoshi, morto da poco: vinse Ieyasu Togukawa e, messe le mani sullo shogunato, preparò un drastico cambio di rotta per il Giappone, ora di nuovo unito. Si apriva la via che, nel 1641, avrebbe condotto al sakoku, il «Paese Chiuso»: attraverso suo figlio Hidetada (cui aveva ceduto lo shogunato), Ieyasu fece promulgare un editto con cui si espellevano i gesuiti dall’arcipelago e si vietava dovunque il culto cristiano. Era il 1614.
Cominciò allora il tempo dei kakure kirishitan, i «cristiani nascosti». Le comunità clandestine si organizzarono specialmente attorno a Nagasaki, città portuale che offriva un minimo di rifugio all’alterità radicata in territorio giapponese. I semi impiantati dalla Compagnia di Gesù continuavano a germogliare: tra quei sacerdoti giapponesi, istruiti alla scuola di Valignano, che si spesero in un apostolato ignaro di mezze misure, fu anche Giuliano Nakaura. Dal 1614 al 1626 egli rimase nei pressi di Arima, dove, protetto dai confratelli, poteva gestire un ampio territorio parrocchiale; cosa che continuò a fare anche quando, con l’età, gli venne meno la forza nelle gambe. Con l’avvento al potere di Togukawa Iemitsu, nel 1623, le persecuzioni si fecero sempre più fitte, finché, nel 1632 – quando Giuliano era già da tempo in missione a Kokura – fu catturato e imprigionato. Rimase più a lungo degli altri credenti nelle carceri di Nagasaki, probabilmente in virtù della sua celebrità – un motivo in più per indurlo all’apostasia. Nakaura non cedette e il 18 ottobre 1633 fu condotto al supplizio. Là, sulla collina Nishizaka, fu avvolto in un telo e legato ben stretto perché respirasse male; appeso a testa in giù, fu calato in una fossa piena di letame, con le orecchie incise perché sanguinasse lentamente e morisse più tardi. Quando si spense, tre giorni dopo, fu cremato e le sue ceneri disperse in mare, ultima terribile beffa alla fede cristiana. Presso la forca, al cospetto dei governatori di Nagasaki, pare abbia ripetuto quello che, in quegli anni di predicazione, aveva ripetuto ogni volta davanti ai futuri credenti: «Io sono il padre Giuliano Nakaura, quello che è stato a Roma».
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