Gerda, tra fotografia e resistenza
Chi era "La ragazza con la Leica" di Helena Janeczek, vincintrice dell'ultimo Premio Strega
«Stava tornando a casa con il tram, quando a una fermata aveva notato una donna davanti alla vetrina di una modista. Indossava calze di pizzo e scarpe di una gradazione poco più scura, l’abito color avorio finiva in pieghe morbide sopra il ginocchio, i capelli castani lasciavano scoperta, tra la linea delle orecchie e le spalle, una distesa di epidermide appena ambrata. Willy aveva sperato che il tram non ripartisse prima che lui potesse vedere in viso quella donna di un’eleganza irreale, cinematografica. Ma lei si era messa in moto con un passo che sembrava irriderlo. Gli sfuggiva, voltandogli la schiena dritta, l’incavo delle ginocchia seminude. Quando il tram aveva ripreso la sua corsa divenuta inseguimento, Willy aveva creduto di scorgere il profilo di Elisabeth Bergner, tanto assomigliava alla sua attrice prediletta. Ma in un tratto in parallelo si era reso conto che la simil-diva era giovane, molto più giovane di quanto avesse fantasticato. Una ragazza, che magari avrebbe potuto conoscere, anzi avrebbe voluto conoscere a tutti i costi. […] Il dottor Chardack non avrebbe ricordato per il resto della vita quella donna vista dal tram, se quella donna non fosse stata Gerda. E se non avesse intuito, magari non a sedici anni ma a diciotto, che erano correlati il suo fascino e la capacità frustrante di sfuggirgli, e non a lui soltanto».
Gerda, Willy, Georg e Ruth, e poi Capa, Chim e gli altri, appena ventenni, perlopiù comunisti e per di più ebrei, erano oppressi e profughi, ma non si rassegnavano a quella vita: volevano un presente rivoluzionario in cui riconoscersi, divertirsi e aiutarsi, e un futuro degno per cui lottare. Tra loro, Gerda Taro (1910-1937) non fu solo la prima fotografa di guerra a morire, giovanissima, in azione: Gerda «era la gioia di vivere», e per raccontarla Helena Janeczek ha scelto di dare voce proprio a chi l’ha conosciuta e amata, a chi insieme a lei ha vissuto un momento storico eccezionale a cavallo tra anni Venti e Trenta a Lipsia e Berlino, a Parigi, in Spagna. Il prologo e l’epilogo che incorniciano il racconto di Gerda sono una dichiarazione d’intenti della narratrice: «Discendenti dello stesso verbo, “rinvenire” e “inventare” rammentano che per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma d’immaginazione»; così, se i tre coprotagonisti tentano di riempire il vuoto della perdita di Gerda con una memoria non qualsiasi, ma selezionata, aiutata o sabotata dalla distanza, dunque ritoccata e a suo modo finzionale, allo stesso modo l’autrice prende documenti e materiali d’archivio – anche le fotografie – e li mette insieme, li fa reagire in una mitopoiesi delle possibilità inverificabili, per riempire il vuoto della storia col romanzo. D’altronde, «la falsificazione di una foto accade più di frequente sul lato di chi la guarda che sul versante del soggetto».
L’innesco narrativo è semplice, la telefonata di un cinquantenne che vuole complimentarsi con un ex amico: è il 1960, e dall’altro capo, a un oceano di distanza, c’è l’inventore del pacemaker; a consigliare l’informalità del telefono invece di una lettera manoscritta e distaccata è stata una vecchia amica di entrambi. Questi sono i personaggi su cui si focalizza ciascuna delle tre parti in cui è diviso il romanzo, tutte ambientate in anni successivi – in misura maggiore o minore – alla tragica morte di Gerda, avvenuta prima che compisse ventisette anni nel 1937, durante la battaglia di Brunete, dove documentava le atrocità e la resistenza della guerra civile spagnola. Willy Chardack e Georg Kuritzkes – rispettivamente il mite cavalier servente di Gerda e il fidanzato più importante prima di Capa – li vediamo nel 1960 a Buffalo, N.Y. e a Roma, nella prima e nell’ultima parte; Ruth Cerf, amica d’emigrazione a Parigi di Gerda, occupa la seconda parte, collocata nel 1938. L’oscillazione temporale del romanzo però non interessa solo i due presenti della narrazione (1960, 1938 e di nuovo 1960): i ricordi di Willy, Ruth e Georg si innestano e proliferano, anche contro la volontà dei personaggi, nel loro presente, generando un intarsio di flashback di qualità narrativa altissima. Non esiste, così, altra cronologia che quella analogica: si procede per accumulazione di integrazioni progressive, per approssimazione a un quadro completo inafferrabile. E se grazie alla maestria di Janeczek nel gestire tempo e tempi il ricordo si fa marca, matrice del romanzo, il romanzo diventa uno strumento quanto mai efficace per riattivare la storia.
Gerda, però, non c’è mai: non è mai viva nel presente del racconto, ma solo nel passato, in cui è rievocata secondo lo sguardo, l’amore e le proiezioni delle persone che le stavano vicino, secondo il significato che aveva per loro. Da questa angolazione, La ragazza con la Leica si può leggere non tanto come un romanzo su Gerda, quanto come un romanzo sul vuoto, sulle diverse declinazioni di vuoto che le persone eccezionali ci consegnano morendo. Allora, prima di continuare con Willy, Ruth e Georg, bisogna dire chi era, perché era eccezionale Gerda, fantasma nel testo eppure presentissima nei personaggi che l’hanno amata, e forse più viva di loro. Gerda Taro è sfuggente, capace di una seduzione sottile che non pertiene solo all’erotismo – tanto che di quel potere è vittima anche la stessa Ruth. Capace di incantare Dos Passos con poche parole e di parlare tutte le lingue, sapeva adattarsi a qualsiasi cosa con una «prontezza al cambiamento» che «produceva sbalordimenti»: era, insomma, «infinitamente meglio attrezzata degli altri». Al tempo stesso, e in contraddizione solo apparente, Gerda era di una leggerezza sconcertante, refrattaria alle logiche delle relazioni più normali, spregiudicata, anche quando si trattava di ferire le persone. Una giovane donna che «non sarebbe mai rientrata negli schemi di nessuno», e ciononostante, o forse proprio per questo, amata da tutti.
Il suo fascino e la sua personalità erano così forti da condizionare anche le relazioni tra le persone che la conoscevano, perfino dopo la sua morte: l’amicizia tra Willy e Georg si raffredda a causa sua, anche se l’affetto tra i due rimane; quella tra Ruth e Capa nasce solo dopo la morte di Gerda, quando lei lo accompagna a Tolosa per recuperare le spoglie della fidanzata; in un «connubio vedovile» folle ma lucido, Capa cerca di avvicinare a sé gli ex di Gerda: «un tentativo di medicare sé stesso prendendosi cura dei vecchi rivali, un’idea di fedeltà a Gerda tanto bislacca quanto, a suo modo, coerente». Quello che scaturisce è così un ritratto lontano dallo stereotipo piatto e idealistico dell’eroe giovane e bello; un ritratto che rifugge l’agiografia e la leggenda alla ricerca di un’impossibile Gerda a tuttotondo.
«Il dottor Chardack afferra solo adesso, dalla distanza lineare di Hertel Avenue, di aver compreso troppo tardi le cose più importanti»: quel che ha significato Gerda, Willy lo capisce solo molti anni dopo, quando ormai si è stabilito negli Stati Uniti in un nuovo esilio, forse meno pericoloso e limitante rispetto a quello parigino, ma pur sempre un esilio dalla vita. Il rimpianto accomuna anche Ruth, che contro ogni prudenza studia per diventare infermiera e servire in Spagna, per poi ricevere la notizia che no, non può partire, perché il fronte unitario della sinistra non sarà mai tale; nel suo caso, oltre al rimpianto c’è il rimorso di aver fatto conoscere Gerda e Capa (quando ancora si chiamava André Friedmann), di aver impresso al destino una direzione forse evitabile. Anche se ha la stessa malinconia del suo ex rivale e a Roma, comunista straniero qual è, si sente «un autentico pesce fuor d’acqua», Georg è convinto che «troverà anche lui qualche spazio, modesto forse, però autonomo, per dedicarsi alle sue ricerche – se non a Roma da qualsiasi altra parte. Basta aspettare il momento giusto, tenere gli occhi aperti». È significativo che il messaggio di speranza nel futuro venga dal personaggio più connotato politicamente, amico di ex partigiani che hanno fatto l’altra resistenza, quella italiana. Anche «spazio» è una parola carica di significato, perché rimanda a un altro passaggio del romanzo:
Dove c’è spazio a perdere, spazio da sprecare come il cibo nei ristoranti, lo spazio non riesce a caricarsi di un valore astratto. Invece, nella Germania che stava per sopprimere la libertà, Freiraum non era solo la libera mansarda di Georg o il grande prato del Rosental, quell’intatta lingua boschiva di cui, abitando tutti nello stesso quartiere, conoscevano ogni sentiero sin dall’infanzia. Significava qualcosa di più esteso e più complicato, ma naturale, perché c’era una parola per nominarlo. […] Ecco, era questo il punto: se provavi a […] occupare Freiraum, rischiavi di non approdare da nessuna parte. Se invece te lo prendevi insieme agli altri, quello spazio di libertà prendeva corpo: le parole pensate o scritte diventavano parole pronunciate a voce alta. Il corpo inutile, ripiegato sul banco di scuola in una postura traditrice, faceva tutt’uno con tanti corpi differenti (taluni di aspetto notevolissimo). Corpi che si incontravano, si muovevano, si dilatavano in uno spazio comune e più grande, sia interiore che geografico. E tutti assieme non somigliavano più ai bulloni inchiavardati per tenere in piedi una costruzione statica, bensì alle parti di un fine meccanismo a cui occorreva, per funzionare, avere gioco. Spielraum: questo ci guadagnavano, un concetto ancora più intraducibile di Freiraum.
Nella differenza tra i due termini risiede tutta la differenza tra la vita con e senza Gerda. Alla sua morte «André Friedmann, lui sì, era finito, qualsiasi cosa avesse fatto da quel momento in poi Robert Capa. Erano finiti gli spazi che André e Gerda avevano rubato nei caffè e sui giornali con il loro talento istrionico»; era finito lo spazio in cui stare, divertirsi, lottare insieme: uno spazio politico, sul quale poserà la lapide, di lì a poco, la Seconda guerra mondiale. La domanda che sembra porsi Georg alla fine del romanzo è se quello spazio, che è infine il margine d’azione, il dominio del possibile, lo si possa riconquistare in qualche modo. Quel che è certo è che Gerda incarnava quello Spielraum con la sua capacità di mettere insieme le persone – un potere tanto straordinario che forse il solo ricordo di lei basta a riattivarlo.
Carolina Coriani
Pubblicato nello Speciale Premio Strega 2018
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