Gabriele D'Annunzio

Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938

Dall’Abruzzprimitivo e istintuale che fin dalle novelle Terra Vergine (1882) eleva a monumento del decadentismo europeo, alla mondanità estetizzante della Roma del Piacere (1889), dai molti drammi accompagnati alla liaison con Eleonora Duse al superomismo d’una Vergine delle Rocce (1895), fin nelle altezze liriche d’Alcyone (1904), capolavoro nelle Laudi,  Gabriele d’Annunzio accorda ai toni d’un accanito vitalismo sensuale l’opera come la vita: all’arte come prestigio sociale ed evasione irrazionalistica dal quotidiano, illusione che impone alle parole, nel farsi immagine e suono, un lusso continuamente rimodulato in un culto assoluto della Bellezza, corrisponde l’afflato aristocratico d’un intellettuale dominatore, eclettico ma sostanzialmente unitario nell’instancabile sperimentare temi, generi e stili, tanto persuasivo da trasformare – Vate della nazione – l’Italia morigerata di Carducci nell’Italia roboante degli interventisti. Così, reduce dall’ennesima fuga per debiti, D’Annunzio è volontario nella guerra che, malgrado l’eroismo festoso d’un volo su Vienna, placherà il superuomo verso le prose d’arte d’un Notturno (1916); e al fallimento dell’impresa fiumana, culmine d’una carriera politica ben sospetta a Mussolini, seguirà l’ossificazione nel Vittoriale, che il poeta lascia agli Italiani così come il proprio magistero tecnico-linguistico ai vari rappresentanti della nuova poesia novecentesca. Questi, come raccomanda Montale, soltanto con l’«attraversare D’Annunzio» sapranno rinegoziarne l’ingombrante eredità artistica.


«Bisogna fare della propria vita come si fa un'opera d'arte»


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