Fuori dal cinema e dentro al videogame | Ready Player One
Il film-videogioco di Steven Spielberg e la gamification del cinema
Lo statuto ontologico di un mondo virtuale presenta caratteristiche diverse da quello della realtà che abitiamo normalmente? Ma poi: siamo proprio sicuri che reale e virtuale si oppongano? E ancora: come si configura la costruzione dei nostri processi identitari nell’epoca dei visori cibernetici e della realtà aumentata, dell’ubiquità social e delle app per smartphone che monitorano le attività quotidiane e i parametri biologici? E cosa fanno i nostri avatar e le nostre identità digitali quando siamo off-line e/o stacchiamo la spina? E infine: le dinamiche gaming di molto cinema contemporaneo servono soltanto a creare engagement e a fidelizzare (anche) lo spettatore videoludico o la gamification cinematografica definisce processi mediatici, diegetici e antropologici più generali, sottili e complessi?
Sono tutte questioni che Ready Player One (RPO) sollecita in maniera più o meno esplicita e che lo rendono in qualche modo il film manifesto di quel continuum iper-mediatico e transmediale che sta diventando (o è già diventato) l’universo audiovisivo contemporaneo, che tende sempre di più a costruire sovrapposizioni e intersezioni tra linguaggi, tecnologie e strategie mediatiche anche molto eterogenee tra di loro e, insieme, a decentrare e a problematizzare il rapporto canonico tra autore/regista e utente/spettatore, sfondando le regole consuete di funzionamento dello storytelling per immagini basate sul patto narrativo tradizionale del “io racconto, tu te ne stai lì zitto zitto a guardare”, aspetto abbastanza paradossale considerato che, nel caso del regista di RPO, parliamo di uno dei più grandi affabulatori della storia del cinema.
Ready Player One è il film manifesto di quel continuum iper-mediatico e transmediale che sta diventando (o è già diventato) l’universo audiovisivo contemporaneo
Tratto dal romanzo dello scrittore e sceneggiatore statunitense Ernest Cline, l’ultimo film di Steven Spielberg racconta di una caccia al tesoro cibernetica all’interno di Oasis, uno smisurato universo virtuale nel quale molti degli abitanti della Terra si rifugiano per sfuggire alla solitudine e alla miseria della vita cosiddetta reale. Oasis si presenta da una parte come il vertice definitivo dell’immaginario geek e vintage sviluppato a partire dagli anni ’80 e dall’altra come una singolare sintesi tra l’utopia virtuale delle community in stile Second Life e la visione distopica e nichilistica di film come Matrix.
Quando James Halliday, il geniale e misterioso creatore di Oasis, passa a miglior vita nel mondo reale, veniamo a sapere che ha regalato ai suoi milioni di gamers un enigmatico easter egg che ha diligentemente nascosto tra i meandri digitali della sua creatura cibernetica, e che il primo a scoprirlo otterrà una somma di denaro con un sacco di zeri e il controllo totale del gioco (compresa la possibilità di cancellarlo). Alla ricerca delle tre chiavi/indizi per arrivare a mettere le mani sul fantomatico uovo si lanciano, ça va sans dire, tutti i migliori egg hunters in circolazione, tra cui i due protagonisti, il giovane nerd Wade (che nel gioco è Parzival) e l’anarchica e grintosa Samantha (che in Oasis diventa Art3mis), che ovviamente hanno nella vita reale corpi diversi da quelli che sfoggiano nella realtà virtuale.
La fantascienza contemporanea ci spinge sempre più spesso a problematizzare il nostro rapporto con la corporeità suggerendoci di ripensare – anche giuridicamente – il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa che ha rappresentato sin qui l’essenza dell’identità occidentale. Si pensi a quanto succede nella serie Netflix Altered Carbon, dove la morte può essere superata trasferendo la propria mente in una nuova custodia (sleeve) senza limiti di genere, convinzioni ideologiche e religiose o di etnia; per le persone più ricche e facoltose questa tecnologia rappresenta la possibilità di vivere per sempre e raggiungere la vita eterna. In RPO, che ha un approccio più pop e liberal alla materia, anche gli indigenti e i poveracci che abitano le periferie del mondo possono procurarsi la tecnologia necessaria per entrare nel mondo di Oasis e dotarsi di un corpo virtuale che consenta loro di giocare. Nella società post-postfordista e iperliberista di Ready Player One il gioco – e non la scuola, l’arte o il lavoro – sembrerebbe l’unica via di emancipazione consentita agli essere umani attraverso la quale sfuggire alle ingiustizie del mondo e diventare veramente se stessi.
Una delle parole chiave di RPO è proprio gamification, la tendenza a trasformare linguaggi non direttamente connessi con il gioco in un percorso concepito a prove, punteggi, sciarade
Una delle parole chiave di RPO è proprio gamification, la tendenza a trasformare linguaggi non direttamente connessi con il gioco – ad esempio il cinema inteso come medium o, più limitatamente, la stessa trama di un film – in un percorso concepito a prove, punteggi, sciarade. Ciò che contraddistingue un prodotto gamificato consiste proprio nella presenza di livelli, punti, premi, beni virtuali, tesori da trovare, classifiche e il film di Spielberg ci dice quanto questa dimensione agonistica e adrenalinica sia diventata, e stia diventando sempre di più, ubiqua, pervasiva, totalizzante. Basti pensare ad applicazioni come Nike+, Runstastic, Duolingo, Zombies, Run!, sistemi che sfruttano un insieme di regole e di codici narrativi mutuati dal mondo dei videogiochi e che hanno l’obiettivo di applicare dinamiche ludiche e giocose ad attività che in genere non hanno direttamente a che fare con il gioco, modificando in questo modo il comportamento degli utenti e favorendo il consolidamento di interesse attivo da parte delle persone coinvolte verso l’idea/principio che il brand ha deciso di veicolare, con l’obiettivo di incrementare le performance dei propri fruitori e, soprattutto, di rafforzare la propria posizione di azienda sul mercato. L’ideologia della gamification si configura allora come quella pratica che può rendere facile ciò che è complesso, gradevole quel che è originariamente problematico, accettabile quello che nella realtà (vera) non ci piace o ci disgusta. La nostra vita quotidiana in altre parole aspira a diventare sempre più simile al tipo di atteggiamento che ci caratterizza quando siamo all’interno di un videogioco.
Nei termini classificatori espressi da Roger Callois in I giochi e gli uomini, i videogiochi sono comprensibili innanzitutto in termini di agon, in quanto stimolano la competizione e la ricerca della vittoria attraverso l’uso e il rispetto delle leggi vigenti nel mondo simulato, mentre la categoria dell’alea nel videogioco è molto meno presente che nei giochi tradizionali, dove quasi sempre una certa dose di fortuna non solo è contemplata, ma è addirittura richiesta. Anche la vertigine (ilinx), il thrill adrenalinico che si prova quando si è soggetti a forze estranee sulle quali non è possibile intervenire, come quando veniamo improvvisamente spossessati dal controllo del nostro avatar, è una sensazione molto ricorrente allorché ci si mette davanti a una console. Come nel cinema, è poi molto significativa anche la componente della mimicry, vale a dire il travestimento e l’illusione e, dunque, l’identificazione. Il videogioco contemporaneo punta molto proprio sulla capacità di amplificare la sensazione del giocatore di sentirsi dentro il mondo simulato e in effetti, a differenza del cinema, il videogioco, più che narrazioni, costruisce simulazioni.
L’ossessione per gli anni ottanta è un tratto caratteristico di cinema e serialità contemporanea, da Super 8 a Stranger Things, ma Ready Player One è una summa definitiva di quella decade, come la Summa Teologica di Tommaso lo è per il Medioevo
Pensiamo all’introduzione della terza dimensione (e Ready Player One è originariamente pensato proprio per una fruizione in 3D) o al passaggio alla visuale in soggettiva nei FPS e alle sempre più complesse possibilità di interazione con l’ambiente. Il videogioco, in forza della sua dimensione fortemente polimorfa, immersiva e sinestetica, produce una stimolazione che ricorda al soggetto di essere (anche) corpo e materia, sfondando le comuni convenzioni del patto narrativo e ridefinendo completamente i limiti e i confini del gioco, in quanto esso è, innanzitutto, un’esperienza che non si sa né come né quando potrà concludersi.
Ma c’è un altro e più clamoroso aspetto che rende RPO un film imprescindibile nell’immaginario audiovisivo contemporaneo. Il fatto cioè che Spielberg non si limiti a predisporre il come dobbiamo porci davanti al testo filmico (“ok, sto guardando un film ma devo considerare quello che vedo alla stregua di un videogioco e quindi partecipare più attivamente di quanto farei se questo fosse soltanto un film”), ma ci suggerisce anche cosa e a quali specifiche memorie personali e esistenziali dobbiamo attingere. L’ossessione per gli anni ottanta è un tratto caratteristico di molto cinema e di tanta serialità contemporanea, da Super 8 a Stranger Things dai Guardiani della galassia a Dark; gli eighties non sono certo una novità nell’universo audiovisivo contemporaneo, ma Ready Player One è una summa definitiva di quella decade, come la Summa Teologica di Tommaso lo è per il Medioevo.
Nel mettere in scena la sua distopia futuristica, Spielberg guarda esclusivamente a un passato mediatico e immaginario costruendo una rêverie nostalgica, enciclopedica e fantasmagorica che attinge alla (sua e alla nostra) memoria nerd che – a differenza della maggior parte dei suoi spettatori, che l’ha vissuta solo da utente –, lui ha contribuito a creare in prima persona. Sin dalle prime battute del film Spielberg ci fornisce il codice di accesso al suo mondo virtuale, con gli inconfondibili accordi di Jump dei Van Halen che ci invitano a saltare all’interno di un universo narrativo che la maggior parte degli spettatori conosce e padroneggia perfettamente, suggerendoci l’idea che soltanto il passato e ciò che già conosciamo possa essere oggetto di racconto proprio perché continuamente riavvolgibile, rivisitabile e rimodificabile a nostro uso e consumo, idea che trova la sua più magistrale configurazione nella vertiginosa sequenza di ri-editing di Shining. In qualche modo RPO ci emoziona e ci coinvolge proprio perché attinge a un campionario mitico, narrativo e esistenziale che sembra di esclusiva proprietà dello spettatore e che ognuno di noi può comporre e scomporre a piacimento.
RPO è un film autenticamente distopico, nella misura in cui ci suggerisce che ognuno di noi, già oggi, vive in una specie di Oasis, uno spazio digitale in cui vengono conservati e cristallizzati i nostri ricordi
E allora proprio in questo senso RPO è un film autenticamente distopico, nella misura in cui ci suggerisce che ognuno di noi, già oggi, vive in una specie di Oasis, uno spazio digitale in cui vengono conservati e cristallizzati i nostri ricordi, che abbiamo ceduto in cambio della possibilità di abitare quello spazio virtuale. In RPO non c’è autentica suspense e non c’è tensione al futuro proprio perché tutto quello che vediamo è segnato dall’ineluttabilità di un algoritmo, da una timeline cibernetico-facebookiana su cui ci illudiamo di essere noi a postare i ricordi della nostra vita, laddove ci limitiamo invece a replicare modelli e forme confezionati da altri (Halliday o chi per lui). Non importa se quei ricordi e quelle memorie sono soltanto virtuali e non hanno un vero aggancio con la realtà. Nell’epoca del digitale dispiegato, ci ritroviamo spesso a guardare immagini che non hanno alcun referente materiale nel mondo fenomenico, immagini che nessuno ha mai ripreso – e tuttavia indistinguibili dalle immagini “vere” – e che ci sembrano cionondimeno dischiudere punti di vista inediti e nuovi orizzonti di senso. La rêverie spielberghiana ha la tendenza a sostare nei pressi delle soglie digitali: RPO evoca in continuazione quei “luoghi” che immaginano la differenza e mettono in risalto la possibilità del passaggio. In fondo un visore VR è esattamente questo: un ponte attraverso il quale si può guardare per provare a innescare il cambiamento, intravedendo il passaggio e la possibilità del viaggio.
Ecco quindi la dimensione costitutivamente ancipite e contradditoria della prospettiva politica di RPO: da una parte la classica diagnosi marxiana di un mondo che è stato devastato dal capitalismo a vantaggio delle grandi multinazionali, con tutta l’empatia del caso per i sognatori, i loosers e i freaks cyberpunk; dall’altra l’attitudine nostalgica e reazionaria per cui è necessario guardare unicamente al passato per costruire il futuro, alla ricerca di una crepa nell’ordine del simbolico che possa scardinare la coesione dei significanti della realtà che abbiamo dato per scontata fino a quel momento e creare nuovi significati e valori a partire da una trasvalutazione di quello che è già stato e che ereditiamo dalla tradizione, che abbiamo avuto mille volte tre le mani, ma che dobbiamo provare a considerare da altri punti di vista.
Reay Player One è un gioco/cinema che trasvaluta sui suoi dispositivi cibernetici la nostra percezione e la nostra memoria del reale
RPO ci dice che l’immateriale scaturito dall’enorme sviluppo dei mezzi di comunicazione ha cominciato a prendere il sopravvento sul concetto di realtà tangibile. Ci siamo ritrovati a registrare l’impressionante accelerazione delle nostre risorse percettive, il modificarsi del corpo umano a favore di un prolungamento protesico dell’immateriale digitale. Per riscontrare il feedback tra i due soggetti, quello umano e quello elettronico, basta appunto osservare qualcuno intento a un videogioco. L’interazione è così stretta da trasformare l’uno nel prolungamento dell’altro, fin quasi a confonderli nei confini di una realtà fittizia, delimitata dalla saracinesca del game over.
RPO è proprio questo prolungamento. Un gioco/cinema che trasvaluta sui suoi dispositivi cibernetici la nostra percezione e la nostra memoria del reale. Un avveniristico sistema virtuale (che però nella sostanza è quasi più reale del «mondo vero» e, d’altra parte, il virtuale non è il contrario del reale, ma una sua sottocategoria) che interagisce con il mondo circostante in maniera sempre più attiva, concreta, sensibile, rendendo (ancora) più problematica la definizione del concetto di realtà.
Piero Tomaselli, autore di Suspense! Il cinema delle possibilità
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