Fritz Haber

Il pane dall’aria, l’oro dall’acqua, la morte dalla vita

Nel gennaio del 1934 c’era un anziano signore in vacanza a Basilea. Prima di visitare la Svizzera, che da lungo tempo ormai desiderava per dimora, aveva passato un breve periodo a Cambridge, ma temeva che il tedio della pioggerellina britannica l’avrebbe portato alla morte. Così se n’era andato, ma la morte l’aveva seguito. Ebbe un attacco di cuore. Non era più giovane: era nato che la Germania non esisteva ancora. I suoi occhi si chiusero, dietro gli occhialetti a pince-nez, per non riaprirsi mai più. Si chiamava Fritz Haber, era ebreo e qualche anno prima, nel 1918, aveva vinto il Nobel per la chimica.

A dargli i natali, nel ’68, fu Breslavia, quando ancora parlava tedesco e sentiva prussiano. Allora  Bismarck si preparava a sfondare la quarta parete e fare la sua trionfale parabasi in mezzo al pubblico mondiale, per declamare il suo manifesto: far guidare alla Prussia la Germania e alla Germania l’Europa. Ah, la Germania! Cosa c’era di più importante per il giovane Fritz, cresciuto a pane, marmellata e politica di potenza? Papà Haber gestiva una prospera impresa di prodotti chimici. La disciplina, l’ordine, la dedizione, l’innamorato asservimento al lavoro indefesso furono il vangelo su cui il giovane Fritz si finì le pupille, imbevuto e galvanizzato da quel prussianesimo che preparava il supremo destino della Germania imperiale. Heidelberg, Berlino, Zurigo. Fritz studiava chimica, una materia che l’affascinava da sempre. Ma in realtà non gli era estraneo nulla che facesse l’uomo del suo tempo: la storia, la politica, l’economia, l’industria. Penetrava lo zeitgeist e ne coglieva i fondamenti; carpiva idee formidabili e le portava avanti con entusiasmo irrefrenabile, senza domande superflue, senza inutili scrupoli, votato unicamente al progresso della scienza e alla maggior gloria della Germania. A venticinque anni Fritz approdò alla Technische Universitat di Karlsruhe, gettandosi nella chimica fisica con un’energia tremenda. Ben presto, nessuno che studiasse termodinamica ed elettrochimica avrebbe potuto più ignorare il suo nome.

«Noi vogliamo un solo limite. Quello della nostra abilità». Così scriveva. Ma l’umanità s’imbatté in un ostacolo ben più concreto. Le generazioni si accavallavano come onde sul bagnasciuga, senza il tempo di spegnersi a vicenda. Per mantenere una popolazione in crescita continua, il pianeta voleva più grano, più di quanto potesse produrne. L’agricoltura avrebbe potuto tenere il passo soltanto se aiutata con l’azoto. Ecco l’invenzione del secolo: un fertilizzante che desse più azoto alle piante.  Ma l’unica fonte di materia prima per i fertilizzanti azotati era allora un’enorme bara di sterco di uccello al largo delle coste del Cile. Il futuro dell’umanità dipendeva da una latrina fossile che prima o poi si sarebbe esaurita. A cavallo del secolo, Haber illuminava il campo dell’elettrochimica. Ormai docente di Chimica Fisica ed Elettrochimica, si era dedicato soprattutto alla termodinamica delle reazioni dei gas tecnici. Così si era avvicinato alla sintesi dell’ammoniaca, l’elemento base dei fertilizzanti azotati vitali per l’agricoltura. Collaborando con Karl Bosch, un ingegnere della compagnia chimica BASF, Haber raggiunse finalmente il suo scopo nel 1909. Combinando la capacità catalitica del ferro, una temperatura di 500 gradi e una pressione di circa 150-200 atmosfere, riuscì a sintetizzare l’ammoniaca dall’azoto e dall’idrogeno presenti nell’atmosfera. Portato alla scala industriale, il cosiddetto processo Haber-Bosch avrebbe superato il problema della scarsità dei nitrati cileni e avrebbe permesso la sopravvivenza dell’umanità. Grazie alla determinazione, all’entusiasmo e alle indubbie capacità dell’ormai grande chimico tedesco, si sarebbe fatto il pane con l’aria.

Altro attendeva Fritz Haber. Nel 1911 era stato nominato direttore dell’Istituto per la Chimica Fisica Kaiser Wilhelm, a Berlino. Quando, tre anni dopo, «rimbombò il colpo di tuono che tutti sappiamo, l’assordante scoppio dello sciagurato miscuglio di stupidità e irritazione, accumulato da molto tempo» (come scrisse anni dopo Thomas Mann ne La montagna incantata), Haber fu incaricato di formare un centro di studi interdisciplinare che mettesse al servizio della Germania le sue menti migliori. Accettò con entusiasmo. La sintesi dell’ammoniaca fu declinata nell’arte bellica: l’acido nitrico che ne fu derivato diede alla Germania la possibilità di lanciare e continuare per anni la sua lotta, dal momento che il blocco cui era stata sottoposta l’aveva subito privata dei rifornimenti di nitrati dal Cile, essenziali per la produzione degli esplosivi. Ma i contributi di Haber non a questo soltanto si limitarono. Il 22 aprile 1915 si trovava sul fronte occidentale, nei pressi di Ypres, in Belgio. A metà pomeriggio, le truppe alleate nelle trincee della prima linea videro avanzare verso di loro una densa nuvolaglia verde: cloro. I tedeschi ne avevano rilasciate più di centocinquanta tonnellate. Cinquemila morti in dieci minuti. L’idea era di Haber, che aveva a lungo insistito con lo Stato Maggiore del Reich per introdurre la chimica sul campo di battaglia. Fu promosso capitano. Tornò a Berlino per festeggiare, ma la notte stessa sua moglie Clara presa la sua pistola d’ordinanza e si sparò. Depressa dal clima pesante della guerra e da un matrimonio infelice, dicono alcuni; stravolta dagli orrendi esiti delle ricerche del marito, dicono altri. Il giorno successivo Haber tornava al fronte senza battere ciglio. Pianse lacrime amare quando la sua adorata Germania perse la guerra. Si sentiva direttamente responsabile di quella sconfitta. Secondo gli Alleati, non era che uno tra i peggiori criminali di guerra. La notifica della vincita del premio Nobel per la sintesi dell’ammoniaca gli illuminò le buie giornate dell’esaurimento nervoso.

La comunità scientifica internazionale ormai lo considerava il padre di quella guerra chimica che aveva seminato il panico e la follia nella mente dei milioni di soldati che avevano combattuto la Grande Guerra. Haber era certo isolato e la sua vita aveva preso l’ansiosa piega della tristezza, ma non si sentiva solo. Da sotto la maschera bella ma sdrucita di Weimar, la Germania lo chiamava ancora. Haber si sentiva in colpa per l’incredibile debito di guerra accumulato dalla sua patria. Così spese sei lunghissimi anni, dal 1920 al 1926, alla disperata ricerca di un modo per sintetizzare l’oro dall’acqua di mare. Il suo Paese, così revitalizzato dal suo genio, avrebbe ritrovato la dignità che a Versailles gli avevano strappato via. Ma Haber fallì. Si vide costretto a ritrattare le sue posizioni e ammettere che il progetto non era realizzabile. Tuttavia la grande delusione non gli impedì di spendersi altrove in modo produttivo. All’inizio degli anni Venti, infatti, aveva avviato lo sviluppo di nuovi pesticidi da usare in agricoltura. In particolare, aveva messo a punto la sintesi dell’acido cianidrico, da cui era stato ricavato uno spidocchiante molto efficace. Il nome commerciale di questo prodotto particolarmente fortunato era Zyklon B. Mentre il gruppo IG Farben ne assumeva il pieno monopolio,  Haber  lavorava per fare del Kaiser Wilhelm Institute un centro di ricerca di primissimo piano, riuscendo a riunirvi personalità del calibro di Max Planck ed Alber Einstein, che era ebreo come lui.
Ebreo. All’inizio degli anni Trenta, Haber si ricordò improvvisamente di esserlo. O meglio, di esserlo stato: si era convertito al cristianesimo, ma in generale non aveva mai attribuito una particolare importanza alla questione. Prima di tutto era un tedesco, poi tutto il resto. Ma un bel giorno del 1933, il portiere del Kaiser Wilhelm disse ad Haber che non gli era permesso entrare perché ebreo. Aveva servito la Germania tutta la vita, con una dedizione quasi mistica. Ma agli occhi del nuovo ordine nazista, questo non poteva cambiare la sua razza. Era venuto il tempo di emigrare. Dopo aver fatto di tutto per trovare lavoro all’estero a ciascuno dei suoi collaboratori ebrei, Haber se ne andò. Non sarebbe più tornato.

Durante la Soluzione Finale, secondo la storiografia dominante, lo Zyklon B messo a punto dall’ebreo Haber fu utilizzato nelle camere a gas dei campi di concentramento di Auschwitz e Majdanek. La Germania aveva bisogno di liberarsi  alla svelta della peste ebraica: per questo scopo non c’era nulla di meglio di un pesticida. C’è una sottile ironia della storia e della vita nello scegliere di tagliare una linea tanto netta in un essere umano, di distinguere così brutalmente tra bene e male, per poi voler confondere le carte alla fine della partita. Così da una parte abbiamo un benefattore dell’umanità, che dona a milioni di persone la possibilità di sopravvivere; dall’altra il mostruoso inventore della guerra chimica. Abbiamo il patriota che dà ai suoi fratelli tedeschi l’arma della possibile vittoria, e l’ebreo che arma la mano del suo assassino, che scrive la ricetta della morte del suo popolo, con lo stesso guizzo, la stessa azione, la stessa scoperta. Fritz Haber era tutto questo.


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