Frammentarsi in mille realtà

Il mondo moderno nei racconti di Joyce Carol Oates e Mary South, tra scenari labirintici e desideri infranti

La modernità crea relazioni per poi osservarle compiaciute mentre si disintegrano. Questo senso di malessere e disagio crescente si denota in molte delle ultime produzioni cinematografiche, in particolar modo quando i personaggi si vedono costretti a interfacciarsi con il nucleo più puro del mondo odierno. Dal lavoro al successo, fino alla famiglia e alle fibre più solide di ciò che dovrebbe comporre il tessuto sociale, i protagonisti, che provengano da una classe sociale bassa (più frequentemente) o alta, hanno desideri che li mettono di fronte a un muro invalicabile, se non a uno specchio che restituisce loro un’immagine deformata e corrotta di ciò che hanno sperato. In questo labirinto di aspirazioni infrante e bisogni irrisolti, i personaggi possono ritrovarsi smarriti, in mezzo a un mondo in continuo mutamento che non si fermerà di certo ad aspettarli. Pellicole come Lady Bird o Shiva Baby mettono in scena donne che devono affrontare la distanza tra ciò che devono essere e ciò che gli altri si aspettano da loro, giovani il cui desiderio diventa ossessione, come in Whiplash, o addirittura frammenti di vite familiari in cui il desiderio diventa motore scatenante di multiversi, come nel più recente Everything Everywhere All at Once.
 

Se i desideri e i bisogni vengono infranti, la causa è anche il luogo in cui essi prendono forma, ovvero una società frammentata e disconnessa


Si tratta nella maggior parte dei casi di una rappresentazione che costeggia sentimenti cinici, senza mai eliminare il contesto sociale e cadere nel sensazionalismo o nell’eccessiva drammatizzazione: se i desideri e i bisogni vengono infranti, la causa è anche il luogo in cui essi prendono forma, ovvero una società frammentata e disconnessa, per quanto assurdamente interconnessa grazie a innumerevoli strumenti. Le persone più vicine ci sembrano poste a distanze incolmabili, e comunicare ciò che si vuole o si crede diventa un’esperienza faticosa e mortificante. Due raccolte di racconti uscite recentemente rievocano tali sentimenti con successo, attraverso due percorsi molto diversi, ma che comunque racchiudono la stessa morale: nessuno vuole prendersi cura di nessuno, mentre il mondo va troppo veloce per essere compreso.

La prima è la raccolta Notte al neon (2022), di Joyce Carol Oates, pubblicata da Carbonio Editore e tradotta da Claudia Durastanti. La raccolta di Oates, in originale, presenta il sottotitolo Tales of Mistery and Suspense, che immerge subito il lettore in un ambiente ben preciso. Oates è capace di creare storie in cui il reale subisce l’infiltrazione di elementi di mistero, storie in cui spesso l’oppressione familiare sfocia in segreti, intrighi e drammi. Oates è anche autrice dell’Epopea americana, tetralogia scritta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta e pubblicata in Italia da Il Saggiatore, che narra di diverse classi sociali in diversi periodi del Novecento. Dalle zone rurali ai quartieri benestanti, il sogno americano prende forme mostruose e distorte. Da qui, Notte al neon potrebbe funzionare come una sorta di manuale aggiornato della visione di Oates, ancora desiderosa di narrare le storture di una vita che solo apparentemente sembra perfetta, con nove storie cupe che gettano chi legge in un turbine di desideri infranti, ossessioni e incubi a occhi aperti. In “Deviazione” la protagonista è una donna che tornando a casa dal marito, già preoccupata per il proprio ritardo, incontra una barricata sulla strada. Prende quindi una strada diversa e si trova in una casa che sembra la sua ma al tempo stesso non lo è affatto. Non sa chi è l’uomo che si trova lì, non sa se quello che le dice è vero. Il lettore dovrà chiedersi se chi ci narra la storia è inaffidabile o se la narratrice ha ragione ed è tutto un complotto: casa sua è scomparsa e qualcosa sta tramando contro di lei. Più esplicite invece sono le ossessioni contenute in “Miss Golden Dreams 1949”, dove a prendere parola è un clone di Marilyn Monroe messa all’asta, che si getta tra le braccia del miglior offerente:

 

E in questo formato, una creazione in PlastiPlutoniumLuxe, è garantito che Marilyn non invecchierà.
Non ti posso biasimare, paparino. No! Io non ti biasimo mai.
 

La replicante non invecchia, non biasima, non contraddice, non si stanca. È una creatura basata sulla sottrazione, qualcosa che si avvicina agli spettri dell’uncanny valley, ovvero quel qualcosa di terribilmente familiare che eppure ci inquieta, rimanendo al tempo stesso quello che è: una donna che diventa prodotto. Le donne sono personaggi chiave in questa raccolta, che da vittime diventano carnefici, che si perdono in strade reali o in gallerie di ricordi. Oates pecca di eccessiva semplificazione in racconti che dovrebbero essere ricchi di suspense, mettendo in bella vista gli intrighi e le torbide acque in cui nuotano le sue protagoniste. Quel che è certo è che quello delineato è un mondo in cui i compromessi sono inesistenti e le frustrazioni assumono forma fisica. Tutti i personaggi desiderano, eppure tutti quanti sono scontenti.

Di un altro tipo sono i dieci racconti contenuti nella raccolta Mi ricorderò di te (2022) di Mary South. È Pidgin Edizioni che porta in Italia questo esordio statunitense, nella traduzione di Stefano Pirone. South, al contrario di Oates, mette bene in chiaro quali sono gli stratagemmi che la modernità pone sul cammino dei propri personaggi per distruggerli, confonderli e deformare i loro desideri. In ogni racconto è la tecnologia a guastare la vita di chi ne fa uso. Non ci sono visioni distopiche o allarmistiche: semplicemente, legati a certi strumenti, i personaggi non riescono a trovare un equilibrio. Così le situazioni sfuggono di mano, le ossessioni si fanno cupe, perverse, e il mondo intorno comincia ad assumere toni sempre più sconfortanti. È il caso del racconto “Non è Setsuko”, in cui una madre replica la figlia defunta, oppure di “Architettura per mostri”, in cui una giornalista intervista il suo idolo, un’architetta visionaria; indagando sulla sua vita, la reporter scoprirà che la donna ha una figlia affetta da malformazioni. L’architetta tuttavia, per quanto talentuosa, non è in grado di amare la figlia quanto la ama sua sorella, che per questo viene profondamente disprezzata dalla protagonista.

 

«Perché facciamo figli? Continuavo a pormi questa domanda. Non possiamo proteggerli – non con le nostre infrastrutture, la nostra tecnologia, la nostra cultura. Finiranno per morire. Finiranno per ferirsi a vicenda, volontariamente o involontariamente. Fare figli è da egoisti».
 

C’è quindi sempre un piede messo in fallo. Nel grande schema delle relazioni che è possibile intrecciare si inserisce qualcosa di troppo, si aggiunge o si sottrae un elemento che manda all’aria ogni progetto. È questo il caso del protagonista di “L’età dell’amore”, che lavora in una casa di riposo e, insieme a un collega, scopre che gli ospiti della struttura fanno frequenti telefonate con linee erotiche. Cominciano quindi a registrare le telefonate, per dileggio personale. In questo modo, il ragazzo scopre che la fidanzata lo tradisce con uno dei pazienti. Il protagonista desidera lentamente allontanarsi da quelle telefonate che non dovrebbe più ascoltare, eppure non è forse così che scopre che la compagna non lo ama più? È stato quindi utile spiare o soltanto doloroso? Spesso le situazioni vengono deformate fino all’estremo, e ciò che si ha di fronte è una situazione al limite del paradosso, come nel racconto “L’ostello promesso” ambientato proprio in un ostello dove uomini adulti possono farsi allattare. In questo caso il mondo dipinto non è propriamente distopico, ma privo di equilibrio. È un labirinto di specchi deformanti elevato all’ennesima potenza e senza alcuna via di uscita, questa scomparsa nel momento in cui alla tecnologia e al progresso si è data troppa importanza – o forse troppo poca?
 

Entrambe le raccolte sono abitate da una sensazione di inutilità di fronte alle relazioni create, il bisogno di dover fare di più, sempre di più, perché queste non svaniscano, non si rendano palesemente futili e vuote.


Entrambe le raccolte sono abitate da una sensazione di inutilità di fronte alle relazioni create, il bisogno di dover fare di più, sempre di più, perché queste non svaniscano, non si rendano palesemente futili e vuote. È il caso del clone di Marilyn che rimpiazza un’ossessione maschile vuota e feticizzante, o della replicante di Setsuko, che conduce i genitori in una sequenza di gesti folli e sempre più irrazionali. E intanto tutto quello che viene fatto, tutti i desideri persi, le paure che prendono forma e gli errori imperdonabili, tutto resta registrato in un mondo interconnesso, un mondo in cui tutti hanno qualsiasi cosa alla loro portata. La crisi, ci raccontano queste storie, è una crisi che riguarda l’economia, l’ambiente, la politica. Ma è una crisi che intacca soprattutto la cura. Le esigenze dei neonati, dei bambini, delle madri che vogliono o non vogliono essere tali. Si tratta di un tessuto sociale che, è banale a dirsi, è sconnesso e privato di forza in un’epoca in cui la comunicazione è eccellente. E allora i desideri e le paure raccontati da Oates e South si fanno sempre più strani, misteriosi, come un labirinto di specchi più angusto che mai, perché la mano giusta da afferrare per poterne uscire continua a sfuggire.

 

In copertina foto di Erik Eastman su Unsplash


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