Forme d'odio e forme d'amore | Intervista a Michele Vaccari
La violenza della tradizione nel romanzo Un marito e nel mondo dell'editoria italiana
Firenze, Borgo San Frediano. È una sera di fine ottobre, e incontro Michele Vaccari alla libreria La Cité in cui di lì a poco presenterà Un marito. Con una sigaretta e una bevuta ci riprendiamo da una mezza giornata a Pistoia in occasione del festival L’anno che verrà, i libri che leggeremo, lui in veste di editor della collana Altrove che dirige per Chiarelettere – tra le uscite La festa nera di Violetta Bellocchio, di cui avevo scritto su queste pagine – e io come uditrice. Poi, tra il chiacchiericcio e la musica di sottofondo, becchiamo un tavolino e cominciamo a parlare del suo ultimo romanzo, uscito per Rizzoli.
Di cosa parla Un marito e da dove nasce: da un’idea, un’immagine, una ricetta?
Il romanzo parla di Ferdinando e Patrizia, una coppia di rosticceri genovesi che per la prima volta va in vacanza a Milano, lo stesso giorno in cui esploderà il Duomo. L’idea nasce da diverse suggestioni: la prima è Amour di Haneke. Volevo raccontare la normalità di una coppia chiusa nel proprio limbo eterno, che è la loro forma di felicità, e di quanto la normalità possa essere qualcosa di bello. Volevo tendere fino all’estremo il filo di questa normalità per capire come mai siamo così ossessionati dalla tradizione e dal folklore, e come mai identifichiamo con sano quello che in realtà è italiano. Le ricette italiane non sono per forza sane, certe sono ricche di grassi; alcune a base di carne e interiora sono parecchio cancerogene. Eppure noi le amiamo, le rispettiamo e crediamo che la nostra cucina sia quella più sana in assoluto. Questa identificazione tra noi, l’idea del sano e del normale porta all’intolleranza. Volevo raccontare il seme dell’odio che ormai ci sta divorando, e che è insito nella cosa che ci sembra più innocua di tutte: mangiare.
Volevo raccontare il seme dell’odio che ormai ci sta divorando, e che è insito nella cosa che ci sembra più innocua di tutte: mangiare
Il secondo spunto era l’idea di far uscire dalla cartolina di De André una città e di raccontare la periferia. Nella narrativa italiana si parla troppo poco di periferia, perché tanti scrittori appartengono alla classe borghese quindi spesso la periferia viene raccontata se non come osservazione dall’esterno, penso ad Ammaniti che abita ai Parioli e racconta la periferia. Lo sguardo esterno può aiutare, ma la visione di chi è all’interno permette di fare un’analisi più approfondita sulla costruzione stessa delle nostre città e sul loro substrato epico originario – le nostre sono città medievali, città romane. Città e quartieri come Marassi poi, a metà degli anni Sessanta, hanno subìto l’intervento di una nuova epica, in linea di massima di stampo sovietico. Penso all’idea stessa di Le Corbousier di fare tutto uguale e tentare di omogeneizzare, che invece di creare un senso di comunità ha portato all’esatto opposto: senso di alienazione. Non ci sentiamo unici ma tutti uguali, e questa somiglianza forzata inibisce la voglia di elevazione sociale individuale. Al contrario, se cresci circondato dalla bellezza e dalla diversità la tua mente non solo è più libera e aperta, ma è anche meno controllabile, e può maturare una fame di conquistare il mondo davvero insaziabile.
Quella di Ferdinando e Patrizia non è chiaramente una rosticceria trovabile ovunque, più una meta per patiti dell'antiquariato gastronomico, un'enclave nell'impero della velocità mangereccia, un luogo avulso per costituzione in cui, senza limiti, imperversa ancora quella nostalgia atavica di cui tutti almeno una volta abbiamo provato la sottomissione. Patrizia e Ferdinando vivono da trentadue anni per la loro rosticceria. Sono ormai votati a questa simbiosi.
Hai già introdotto Marassi, il quartiere da cui tu provieni e in cui vivono i due protagonisti. I parallelismi vengono spontanei: Marassi, così come Ferdinando e Patrizia, non ha alcuna pretesa di cambiamento. E così come la rosticceria rappresenta un «enclave nell’impero della velocità mangereccia», così Marassi per la coppia è un bosco sacro che protegge dalle brutture del mondo. Inoltre, visto che hai nominato il cantautore genovese, ti chiedo: secondo te le canzoni di De André hanno trasformato Genova in un luogo comune?
Si, assolutamente. Un luogo comune salvifico, perché permette ai media di non indagare realmente la realtà magmatica della città. A Genova è nato il partito socialista, ha avuto luogo la prima gambizzazione delle BR, è l’unica città in cui un prefetto è stata buttato in una fontana. Genova è una città fondamentalmente anarchica, e De André quando cantava l’anarchia lo faceva perché sapeva di vivere in una città che si ricostruisce da sola dopo un’alluvione, così come si ricostruirà da sola anche dopo la caduta del Ponte Morandi. Rispetto a quello che dici su Marassi e il lavoro della coppia, ci tenevo a fare un parallelismo, essendo io un editor: la rosticceria è la cucina editoriale, luogo dove devi avere estrema cura del tuo lavoro; nel contempo, devi evitare che questa cura ti porti alla ripetizione dei medesimi gesti, che potrebbero far sembrare i tuoi libri tutti uguali. I lettori amano la serialità, ma noi dobbiamo rifuggirla il più possibile, perché costruire un modello intorno a uno specifico target impedirebbe a dei potenziali lettori di entrare nella nostra rosticceria.
La tradizione è sicurezza, e la sicurezza è guadagno assicurato senza rischio d’impresa, e anche nell’editoria può essere così. Poi però accadono eventi straordinari – in editoria è la crisi economica, nel romanzo è la bomba che esplode – che sconvolgono gli equilibri
Come editor, cerco di proporre delle regole agli autori per prepararli, per dire “guarda che ti vai a scontrare con un mondo”, ma se io per primo da autore non mi scontrassi con quel mondo non potrei dimostrare a loro che queste regole sono anche superabili: non è vero che non si può cominciare un libro con una descrizione, basta farlo bene; non è vero che la rosticceria di Ferdinando e Patrizia non si può proporre ad altri che non siano genovesi, basta farlo con cura, e le persone apprezzano comunque. La coppia ha paura di uscire dalla tradizione: la tradizione è sicurezza, e la sicurezza è guadagno assicurato senza rischio d’impresa, e anche nell’editoria può essere così. Poi però accadono eventi straordinari – in editoria è la crisi economica, nel romanzo è la bomba che esplode – che sconvolgono gli equilibri. E se non sei preparato le risposte a questi avvenimenti possono essere violente: nel mondo editoriale questo si traduce col pubblicare instant book, e per Ferdinando vuol dire vivere momenti di instant life. Patrizia è la volontà di cambiamento che ha paura di manifestarsi perché perderebbe quella sicurezza. Allo stesso modo operano le case editrici indipendenti quando fanno libri simili a quelli delle major, perché credono che funzionino. In realtà, è nel momento in cui le case editrici indipendenti hanno cominciato a pubblicare testi che interessavano solo a loro che sono diventate il luogo in cui nascono nuovi talenti, in cui si fanno nuove collane come quella di Vanni Santoni per Tunuè. Quindi Patrizia non è detto che ami del tutto Ferdinando ma, semplicemente, sa di essere amata. Patrizia incarna un modello di donna-vittima: ha paura di lasciare Ferdinando perché non vuole incontrare quegli stessi uomini di cui si parla in televisione, violenti e manipolatori. E così l’editoria che ha paura di lasciare quel lettore che ama Fabio Volo perché sa di essere amato per quello, ma sa nello stesso tempo c’è un cambiamento, un desiderio che potrebbero portare qualcosa di buono. Nel romanzo, è solo arrivando a Milano che Patrizia scoprirà la possibilità del cambiamento, qualcosa che Ferdinando non sa se riuscirà ad accettare: sia che la ritrovi che non la ritrovi, per lui è comunque la fine di un mondo.
La tragedia privata della coppia è dunque un momento di cesura davvero totale.
Certo, tant’è vero che da quel momento in poi i capitoli del libro non sono più sostantivi accompagnati dall’articolo indeterminativo ma da quello determinativo, perché da quel momento non sono più gli eventi di un uomo qualsiasi, ma gli eventi di una persona che suo malgrado è dovuto diventare personaggio. È quello che succede oggi nel momento in cui tu decidi di non avere più internet, Facebook, un cellulare: sei costretto ad essere un personaggio, perché altrimenti non riesci più neanche ad essere una persona.
Dalla targetizzazione delle case editrici mainstream, passiamo a parlare di un autore tout-court che di target non glien’è mai fregato niente: Nanni Balestrini, di cui hai messo una citazione in esergo tratta dalla Violenza illustrata. Balestrini era un neo-avanguardista, un artista di rottura, di conflitto. Un marito è pieno di opposizioni e conflitti: amore contro odio; unità e compiutezza di una vita contro la sua frammentazione a seguito della tragedia; dimensione privata contro quella pubblica. Come sei riuscito ad amalgamare tutte queste opposizioni in un unicum armoniosissimo? Ti senti anche tu un autore di conflitto?
Parto dall’ultima domanda: io mi auguro che qualsiasi scrittore sogni di essere un autore di conflitto. Anzi, ogni scrittore dovrebbe aspirare ad essere un criminale, perché solo quando sarà considerato tale dal potere allora starà facendo il suo dovere. Siamo in un momento storico in cui dobbiamo sia conservare da una parte la memoria ma proporre dall’altra cose per il futuro. È quello che tento di fare con Altrove, che è l’unica collana che si occupa non di fantascienza ma di futuribile, interrogandosi su cose su cui le persone non vogliono ragionare, su cose che le persone temono. Lo scrittore è uno che deve mettere paura e che deve inscenare dei conflitti, affinché il lettore senta i conflitti dentro di sé. Credo moltissimo nel dispiacere della lettura, più che nel piacere della lettura, perché credo che la cosa migliore che può fare un libro è generare un senso profondo di ignoranza, dal quale deve nascere la voglia di conquista dell’ignoto. Dobbiamo riuscire ad associare la fatica della conoscenza al bene della letteratura. Se sono un autore di conflitto ne sono felice, dato che credo nel conflitto, credo anche nel caos: il caos genera ordine, genera armonia.
Se sono un autore di conflitto ne sono felice, dato che credo nel conflitto, credo anche nel caos: il caos genera ordine, genera armonia
I libri come questo possono funzionare e essere armonici nel momento in cui si intende il conflitto come chiave di lettura risolutiva e non distruttiva. L’opposizione tra le cose deve essere uno strumento, non una forma di divagazione intellettuale. Per me il terrorismo è una forma di amore; anzi: la sua forma più estrema, perché quando ami eccessivamente qualcosa arrivi ad odiare tutto il resto. L’amore per me è l’editoria, l’amore per me è la cucina; ma l’amore è anche quello tra Ferdinando e Patrizia, che sono come due Olindo e Rosa ignari di ciò che gli succede intorno. E basterebbe un cambiamento a trasformarli in degli assassini. La tradizione è conservatorismo; la cura delle ricette è la cura delle parole, anche attraverso l’uso del lessico popolare, e per me i ricettari sono forme di poesia. L’armonia si costruisce per me attraverso l’associazione di idee, quello che il mio cervello – e non il mio direttore commerciale o il mio direttore editoriale – pensa che possa essere coerente, originale, unico, irripetibile. È la cosa più ambiziosamente interessante che un autore italiano possa fare in questo momento in Italia: avere presunzione, ambizione, strafottenza, avere la consapevolezza di rischiare tutto, anche di fallire. «Born To Lose, Live To Win», come dicevano i Motörhead.
Per Ferdinando, a un certo punto della vita l'amore è diventato come la rosticceria. Più che cercare di farlo crescere, il suo obiettivo è ora difenderlo, renderlo robusto, inespugnabile. In un mondo in cui tutto è diventato una possibilità, Patrizia non accenna a smettere di essere l'unica opzione possibile, con quelle carinerie come spostarsi i capelli, ringraziare Ferdinando per aver svuotato la lavastoviglie, mettere su quel disco dei Creedence, Green River, che per Ferdinando è il solo placebo possibile, dopo una giornata di ennesimi clienti che sembrano venuti al mondo per tirare fuori il peggio di lui.
Così come in La violenza illustrata, anche in Un marito si analizza criticamente il ruolo di chi sopravvive alle tragedie, del loro protagonismo da «superstiti superstar». Le parti chiamate in causa si influenzano reciprocamente: i media puntano i riflettori sulle vittime dandogli notorietà, e le vittime alimentano la loro condizione di notorietà – effimera per altro – recitando una parte di fronte ai media. In questo circolo vizioso, siamo tutti corresponsabili, tutti attori: che sta succedendo?
Il lavoro ha perso di valore: è tutto qui. Abbiamo cominciato a demonizzare il lavoro a partire da alcune istituzioni, come i sindacati, che ci sembravano ormai delle figure novecentesche, molto stantie. Ma questa demonizzazione, che ci era sembrata corretta, in realtà ha permesso al potere di disarmare il popolo, che si è trovato improvvisamente senza i propri guardiani. La soluzione per me è quella di tornare alle comunità anarchiche; a un municipalismo libertario in cui noi non crediamo a nient’altro se non a un nostro confronto diretto sulle questioni. Internet in questo ci potrebbe molto aiutare. Ad esempio, se riuscissimo a usare la tecnica del blockchain – una tecnica informatica che verrà usata per curare le trattazioni di banca e che impedisce l’hackeraggio – sulle forme di votazione, come viene fatto nella Repubblica Direttoriale Svizzera, in cui un’alta percentuale delle leggi viene approvata attraverso un voto diretto del popolo. Per fare questo dovremmo riuscire a tornare sia ad un’idea di federalismo che la Lega purtroppo ha sputtanato, sia all’origine di questo paese, violentato e unito per la volontà classista dei Savoia. Quindi sarebbe necessario tornare all’idea dei Comuni, e a un rapporto molto più diretto con chi ci governa. Con “diretto” intendo che questa gente deve temere di morire; questo è l’unico principio per il quale un potente crede davvero di poter fare qualcosa di buono per il popolo. Tant’è vero che il miglior presidente della Repubblica l’abbiamo avuto subito dopo le BR. Dovremmo tornare ad avere rispetto del lavoro manuale, e a non deriderlo o sottovalutarlo come ha fatto a lungo la sinistra nel tentativo di elevare il lavoro intellettuale. Questo si può tradurre in una reciprocità: nel momento in cui tu non guardi dall’alto una persona che fa un lavoro manuale, quella persona non ha motivo di guardare te dal basso in modo diverso. Non solo dovremmo smitizzare alcuni pregiudizi che si sono creati, ma soprattutto dovremmo tornare ad un principio basilare: quando un ricco ci dice che il problema è il povero, in realtà il problema è il ricco.
L’ultimo capitolo di Violenza illustrata di Balestrini è «Dimostrazione: scrittura e distruzione scrittura e liberazione». Che ne pensi?
Sono pienamente d’accordo. La scrittura è una forma di distruzione di qualsiasi forma di controllo sociale. Nel momento in cui gli scrittori capiscono che possono fornire delle armi, non abbiamo più bisogno di armi: basta guardarsi in faccia e dire che ci odiamo per trovare una forma di collaborazione.
Che ne pensi del lettore odierno?
Non credo nei lettori forti, credo nei lettori in quanto tali. I lettori forti sono un’invenzione per poter raccontare che esistono quelli di nicchia e quelli forti commercialmente. Questa cosa però sta finendo, è successo qualcosa che ha rotto il loro sistema; ci sono sempre più ragazzi che leggono e sempre più gruppi di lettura.
Altrove è alla sua quarta pubblicazione con Furland di Tullio Avoledo. Come sta andando?
Andiamo avanti finché possiamo. Io battaglio quotidianamente col sistema produttivo e distributivo dell’editoria italiana, che è un grande cancro di questo paese che permette ad Amazon di trionfare. Molte case editrici fanno guerra ad Amazon ben consapevoli che dovrebbero farla col proprio distributore, ma lo perderebbero se ci provassero. Qualcosa non funziona: in un libro che costa 20 euro 10 euro vanno al distributore, il promotore non viene più ascoltato dalle librerie. Altrove non tenta di fare il progettino indipendente dicendo che il mondo è cattivo, ma tenta di stare dentro il mondo cattivo criticandolo come tale. E con autori che il mondo editoriale ha capito ma di cui ha avuto paura. I lettori invece no, non ne hanno paura. Il prossimo anno faremo altri quattro titoli, penso altrettanti nel 2020, e poi vedremo.
Le ultime pagine del romanzo sono molto intense, e lasciano un po’ spiazzati, incerti su quale sia l’interpretazione giusta da dare, se ce n’è una ovviamente.
Per me tutto il libro è come uno di quei grandi film in cui è il fruitore, con la sua intelligenza, a decidere cosa succede e come la storia deve finire. Mi interesserebbe che questo libro facesse parte di un multi-verso nel quale dallo stesso mondo di partenza possono partire bivi differenti. Se uno guarda i miei libri potrebbe accorgersene.
Molto in linea con lo scopo editoriale di Altrove.
Assolutamente, in questo Nicola Cosentino – nella recensione uscita su minima et moralia – mi ha sgamato; in realtà io porto l’acqua al mio mulino per costruire un altro mulino. Mi piace montare e smontare, ed essendo anarchico non credo nell’idolatria personale, ma nell’idolatria delle persone: se tutti gli individui si valorizzassero di più, soprattutto le donne, in tre minuti questo mondo salterebbe.
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