Florida Project, il posto più felice sulla terra

Sul film di Sean Baker tra infanzia, violenza e mortificazione del sogno americano

Gli Stati Uniti d’America, il paese dei miracoli, la nazione in cui fidandoci delle nostre intuizioni e avendo il coraggio di rischiare i nostri sogni possono prendere vita. La terra dove – usando le parole del filosofo e poeta Ralph Waldo Emerson – «l’unico peccato è porsi dei limiti» e nella quale qualsiasi cittadino, con impegno e sacrificio, può ambire ad un tenore di vita migliore; come ci ha mostrato Robert Zemeckis in Forrest Gump. Ma cos’è diventata l’America oggi? È sempre il paese dove ogni uomo può vivere felice e realizzare i propri progetti? Sembrano queste le domande che il giovane regista statunitense Sean Baker si pone ogni volta che decide di mettersi dietro la cinepresa e girare un film. Guardando il suo ultimo lavoro, Un sogno chiamato Florida (2017), appare evidente come la storia che racconta sia contraddistinta da perenne caducità e profondo senso di abbandono, come se quel diritto al «perseguimento della felicità», sancito nel lontano 4 luglio 1776 nella Dichiarazione d’indipendenza americana, fosse diventata solo una frase a cui più nessuno crede.
 

Florida  significa sogno americano ma anche violenza, significa strage di Orlando (49 vittime) e massacro di Parkland (17 vittime)


Dopo due opere consecutive ambientate in California – Starlet (2012) e Tangerine (2015), quest’ultima girata interamente con un iPhone 5s – Baker decide di spostarsi a sud-est e ambientare il film in Florida, raccontando una storia molto personale per il suo co-sceneggiatore (Chris Bergoch), poiché sua madre abita proprio in quella zona. Florida però significa anche violenza, significa sparatorie, feriti e morti; in altre parole la strage di Orlando nella notte tra l’11 e il 12 giugno 2016 (49 vittime e 58 feriti) e il massacro alla Marjory Stoneman Douglas High School a Parkland il 14 febbraio 2018 (17 morti e 15 feriti). Ma la scelta del regista di girare in Florida non è esclusivamente legata al progetto del co-sceneggiatore e ai recenti avvenimenti, ma al fatto che in questo stato dimora il più grande complesso di parchi a tema del mondo: Walt Disney World. Il film di Baker potrebbe essere letto come un grande affresco allegorico, dove ogni avvenimento ha un preciso significato e il castello Disney ne rappresenta la figura più importante, il punto di fuga posto al centro del disegno nel quale convergono le linee prospettiche.

Sin dalla prima inquadratura il film mostra una costruzione che somiglia a un castello, un edificio fatato color lilla contornato da giardinetti in cui corrono e giocano i bambini durante le vacanze estive, un luogo dove poter vivere spensierati e senza apprensioni. Ma quello che sembra uno spazio idilliaco e incontaminato in realtà non è nient’altro che il Magic Castle, uno scadente motel ai margini del parco divertimenti Disney. Questa prima sequenza – o addirittura il solo frame iniziale – potrebbe condensare l’intero significato del film: vediamo un edificio che esteriormente appare incantato, un castello (l’America) dove crediamo di poter sognare e vivere felici, ma è solo una vana illusione dato che all’interno si cela profonda sofferenza e disperazione. Gli abitanti del motel infatti non sono cavalieri e principesse, ma tossici, delinquenti, disoccupati e prostitute; nel giardino davanti all’edificio non si incontrano buffi animaletti usciti dai film Disney ma pedofili e malfattori. Nel film però le problematiche e le disgrazie degli adulti non sono portate in scena in modo spietato, ma vengono filtrate dallo sguardo dei bambini, in particolar modo quello di Moonee, una bambina di sei anni – interpretata dalla fenomenale Brooklynn Prince – che vive con la sua giovane mamma Halley. I suo occhi ci immergono nel mondo dei grandi, ma tutto è visto e concepito come un gioco, e questo ci permette di affrontare il dramma in modo distaccato e in qualche caso persino ironicamente. Baker ha dichiarato di aver girato il film tenendo la camera «sempre all’altezza degli occhi dei bambini […] rendendoli piccoli re e regine del loro regno». E nel loro regno questi bambini sono i padroni assoluti, corrono ovunque, fanno scherzi e si comportano, per stessa ammissione del regista, come i protagonisti di Piccole canaglie.
 

La cittadina è un susseguirsi di colori, persino le case abbandonate sono tinteggiate in leggiadre tonalità pastello, con negozi che mantengono sempre un aspetto favolistico


Un sogno chiamato Florida (girato in 35mm) è caratterizzato da riprese movimentate, con la cinepresa che segue le corse dei fanciulli tra le strade e i negozi di Kissimmee. La cittadina è un susseguirsi di colori, persino le case abbandonate sono tinteggiate in leggiadre tonalità pastello, con negozi (come l’Orange World a forma di agrume e il Gift Shop con al centro dell’insegna il volto di un mago) che mantengono sempre un aspetto favolistico. Ma i marciapiedi e gli spazi urbani sembrano essere stati abbandonati, il paesaggio circostante, seppur artificiosamente addobbato, trasuda insoddisfazione e miseria, le uniche persone che calcano le strade sono turisti che fugacemente escono dai loro alberghi per riversarsi nel parco divertimenti. Questi gesti e comportamenti aleggiano in tutto il film, come se le persone non volessero interessarsi al dilagante malessere che li circonda e cercassero un rifugio, un luogo dove poter dimenticare la violenza e la povertà a cui ogni giorno devono assistere. Cercano riparo in quel sogno americano, in quegli ideali utopici che hanno portato milioni di persone a credere in qualcosa di grande, che però solo per pochi ha assunto una forma concreta.

Questo è quello che accade anche alla fine del film, quando i servizi sociali vogliono strappare Moonee alla custodia della madre e la bimba si rende conto che sta succedendo qualcosa di grave senza comprenderne pienamente la ragione. Si sente in pericolo, ha paura, piange, lei che è abituata ad assistere ogni giorno alla violenza non riesce ad accettare che i suoi sogni finiscano. La bambina vuole uscire da quell’incubo, quindi fugge, corre insieme all’amica verso il luogo dove tutta quella sofferenza può essere dimenticata, dove poter ricominciare a vivere, dove poter nuovamente sognare e giocare con i suoi amici; si rifugia dentro a Disney World: “Il posto più felice sulla terra” – come recita la slogan del parco divertimenti. Baker insegue la bambina con movimenti di macchina frenetici, l’obiettivo grandangolare spalanca gli spazi, rende aliene quelle strade che un tempo parevano tanto familiari facendoci penetrare dentro il suo incubo. La cinepresa corre insieme a Moonee, ci fa tornare bambini, per un secondo anche noi spettatori crediamo che forse esista ancora un rifugio, che il presente in cui viviamo sia soltanto la brutta copia di quello che ci riserverà il futuro.
 

La cinepresa corre insieme a Moonee, ci fa tornare bambini, per un secondo anche noi spettatori crediamo che il presente in cui viviamo sia soltanto la brutta copia di quello che ci riserverà il futuro


Ma proprio quando stiamo per convincerci la rincorsa di Baker si ferma, il suo sguardo si arresta davanti all’entrata del parco divertimenti, stanco di credere in un mondo magico fatto di false speranze e inganni. La corsa della bambina (nella sua straordinaria ingenuità) continua perdendosi tra la folla che si accalca davanti al castello di Walt Disney; quello è il suo rifugio, il solo luogo dove forse ancora esiste una speranza e dove si annida quel sogno americano. Disney World, un luogo apotropaico, il simulacro del sogno a stelle e strisce e forse davvero l’ultimo luogo in cui si possa continuare a fantasticare, ma la cinepresa di Baker non entra, il regista mostra la realtà senza mistificazione e lo fa con un tono pacato ed elegante, ma disincantato. In America la disuguaglianza ha raggiunto livelli senza precedenti, la ricchezza è posseduta da una ristrettissima fascia di popolazione, mentre la criminalità è sempre più dilagante: allora perché il sogno americano continua ad essere sbandierato con orgoglio e tirato in ballo in qualsiasi discorso politico? Forse ha ragione Noam Chomsky quando scrive – nel suo libro Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano – che quel sogno va tenuto in vita, «altrimenti come possono i cittadini del paese più ricco e potente della storia mondiale […] fare i conti con la realtà che vedono attorno a loro?».


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