Finché morte non li separi
Perché il divisionismo non è solo una corrente artistica
La sinistra italiana ha sempre sofferto di un male incurabile: la frammentazione. Ogni tentativo di coesione viene miseramente vanificato da un’esasperante tendenza al separatismo, allo sparpagliamento. Ovviamente, sempre giustificato da motivazioni ideologiche, da questioni di principio, dalla pretesa di detenere la soluzione per il bene comune. Così, puntualmente, si conclude una fase, e se ne avvia un’altra, pressoché identica nei contenuti alla precedente. In attesa della prossima scissione. Della prima parola fuoriposto utile ad imporre il diktat di una qualche corrente interna.
Adesso, il Partito democratico è come una nave senza nocchiero in gran tempesta, e rischia di implodere su se stesso. Perché fintanto che la prospettiva di una vittoria elettorale era data quasi per certa, scontata, si osservava una certa unitarietà – almeno apparente. Ma, dopo il responso incerto delle urne, che ha fatto precipitare il Paese nell’impasse politica, i malumori si sono accesi nuovamente. Con più vigore di prima.
È un Bersani sempre più solo, quello alla guida del Partito democratico. Sembrano davvero lontani i tempi in cui si brindava, nel Novembre scorso, per una vittoria alle primarie che avrebbe dovuto essere il primo passo verso un governo di coalizione stabile. Il giovane esuberante Matteo Renzi era stato messo a tacere, almeno per qualche momento. La nomenklatura storica del partito poté tirare un sospiro di sollievo, ed adagiarsi nell’esiziale sicurezza degli illusi. La pressante istanza di rinnovamento che agitava le acque del partito fu trascurata. L’ombra dello stallo politico era ancora lontana. Fu allora che si scambiò una tregua incerta per una pace eterna. Ma la vittoria-non vittoria delineata dalle urne è stata un’aprosdòketon, nel Pd, un evento inaspettato. Tanto inaspettato da costringere Bersani ad adoperarsi con sollecitudine per porre in essere delle alleanze che permettessero di governare. E il Pd ha guardato subito al Movimento cinque stelle come interlocutore. Che in un primo momento ha indotto a pensare che ci fosse la possibilità di stringere degli accordi. Poi ha temporeggiato, nel silenzio. Infine, quando l’attesa sembrava sufficiente, ha definitivamente sciolto le riserve, e ha negato qualsiasi ipotesi di alleanza e di sostegno ad un governo guidato dal Pd. Coup de théâtre. E la sconfitta – con umiliazione – è stata doppia.
A poco ha giovato il conferimento di un mandato esplorativo a Bersani. Tutto si è risolto con un nulla di fatto. A questo punto, le agitazioni intestine al Pd hanno ricominciato a prendere campo, dopo essere state latenti fino dalle primarie. L’elezione dei presidenti delle due Camere, poi, ha fatto il resto. Perché la Boldrini è stata il compromesso obbligato con il partito di Vendola. E Grasso ha sottratto lo scranno più alto del Senato a chi già lo anelava.
L’incertezza politica, però, non si è esaurita. La frammentazione è stata innanzitutto a metà, come una sorta di petrarchesco dissidio interiore. Da una parte, la pervicacia di Bersani, che come extrema ratio protende verso l’accordo con il Popolo della Libertà. Dall’altra, gli strenui difensori dell’integrità morale, e del meglio soli che male accompagnati. Ma la vaghezza è stata come un alito sulle braci del dissenso. Immediatamente, ha reso nuova vita alle fronde interne al partito. In cui, adesso, lo scenario è da guerra civile. Renzi attacca Bersani. Bersani attacca Renzi. La Bindi attacca Bersani, ma non approva Renzi. Franceschini attacca la linea politica in generale. I giovani turchi ritirano gradualmente le proprie truppe schierate a difesa del segretario. Fioroni non attacca, ma mette in guardia dalla rovina. Barca dichiara guerra senza preavviso, da neutrale che era. E si creano eleganti chiasmi tra le figure principali del partito, impreziositi da insulti e ironie. Su tutti, però, svetta il sindaco di Firenze che, con il suo continuo esortare a “fare presto”, intende che è meglio tornare al voto il prima possibile. Meglio per il Paese, e meglio per lui. Perché, a differenza di chiunque altro nel suo partito, è l’unico pronto a dedicarsi alla competizione elettorale. E ad avere speranze di vittoria. Affrontando alle primarie proprio Barca, magari, l’ultimo venuto. Figlio di un partigiano e deputato del Pci. Nuovo tesserato che ha già pronto un manifesto di quaranta pagine di cose che non vanno nel partito al quale si è appena iscritto. Ma pronto a condurlo a sinistra. Dove, in verità, non è mai stato. Così da porre termine alla fuggevole parabola di leadership indefinita di Bersani, estromettendolo definitivamente, per poi ridursi ad un nuovo duello tra le anime inconciliabili di un partito instabile.
Il rebus del Quirinale, però, fa scivolare in secondo piano l’impasse del governo. E non mancano i diversi orientamenti persino sulla scelta dei nomi da proporre alla votazione, che confermano inequivocabilmente la situazione di instabilità del Pd. Se Bersani indica come candidati per il Colle D’Alema, Marini oppure Amato, per cercare di venire incontro al PdL, con cui potere costituire un governo di larghe intese, Renzi si rifugia in un riesumato Romano Prodi. Giusto per rimarcare la distinzione. Come se non fosse stata chiara la querelle sui grandi elettori, dai quali Renzi sostiene di essere stato escluso per volere di Bersani in persona.
La lacerazione pare non avere rimedio, ormai. La campagna elettorale è già iniziata, mentre l’incertezza nel Pd è imperante. Il duello tra Renzi e Bersani è continuamente fomentato dai rispettivi fedelissimi, e non conosce requie. Ma una simile situazione, un simile disagio all’interno del partito, non può che compromettere qualsiasi tentativo di formazione di un governo che, in fondo, è ciò che il Paese sta aspettando da più di un mese. Perché ciò che è cogente, ora, è non sprecare altro tempo. E cominciare a darsi da fare, per riuscire a sopravvivere.
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