Favolacce dei fratelli D’Innocenzo
con Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta, Lino Musella
La voce narrante di un uomo (M. Tortora) legge le pagine del diario di una bambina, trovato accidentalmente nella campana della carta insieme a un Venerdì di Repubblica e diversi TV Sorrisi e Canzoni. Abituatosi alla calligrafia acerba e sognante impressa in riluttante penna verde, l’uomo si appassiona alla banalità dei fatti, una banalità in cui però non fatica a identificarsi e che evoca in lui sensazioni di ritrovata intensità. Allora, forse per colmare i vuoti creati dalla noia, si decide a continuarlo sulle pagine bianche ancora rimaste con una doverosa premessa rivolta allo spettatore: «Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata».
La storia della vita degli abitanti di un quartiere periferico romano, chiuso nel verde della vasta campagna, una vita scandita dalle geometrie patinate delle villette a schiera e dal canto martellante delle cicale
Il racconto vola così sulla vita degli abitanti di un quartiere periferico romano, chiuso nel verde della vasta campagna, una vita scandita dalle geometrie patinate delle villette a schiera e dal canto martellante delle cicale. Il cicaleccio però è anche quello dei residenti, meno assordante e più sussurrato; frustrati, falsi e invidiosi, mettono in scena l’ostentazione plastificata di uno status sociale forse faticosamente raggiunto ma che non li soddisfa appieno, sotto il vaglio timido e ambiguo dei loro figli: «Sei il miglior padre del mondo», dice Dalila (B. Chichiarelli) al marito Bruno (E. Germano), solo due dei personaggi di questa “favolaccia” corale – una crasi tra favola e parolaccia che dà il titolo al film – ambientata in un mondo dal sapore borgataro e dal cuore marcio, popolato da orchi e streghe che agiscono nell’ombra di un caldo estivo.
Con la loro opera seconda, Favolacce, i talentuosi fratelli D’Innocenzo vincono l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura alla 70ª Berlinale – bissando il prestigioso riconoscimento ottenuto nell’edizione precedente da Claudio Giovannesi con La paranza dei bambini – e ricordano al cinema italiano che una buona scrittura cinematografica ha specificamente a che fare con il saper scrivere con le immagini. Dopo La terra dell’abbastanza i due registi romani scelgono ancora una volta d’immergersi nella periferia della loro città, una realtà che ben conoscono e che li riporta indietro, allo sguardo attonito della loro infanzia. Di quella periferia mostrano il degrado interiore, incentrando il racconto su un dramma opaco e logorante, vissuto in silenzio e simbolicamente annidato nelle grotte di una campagna piovosa, come il male si annida negli antri della società contemporanea. A parlare sono gli occhi avidi, euforici, impauriti, disillusi di adulti e bambini, le cui movenze meccaniche e perbeniste mascherano uno sguardo che sembra non aver vie di fuga, risucchiato in un luogo in cui la sconfitta è già scritta. I personaggi non si parlano mai veramente, le parole sono solo il corredo isolato e inconsistente di una routine monotona. E i figli sono condannati a respirare con timore e reverenza quest’unica aria intrisa di malignità, una malignità che subiscono ma che al contempo assorbono ed esercitano, come fosse il solo e inevitabile rifugio concesso.
La favola nera dei D’Innocenzo, scritta a diciannove anni e perciò influenzata dalle letture della loro adolescenza, da Carver a Updike e Cheever, da Wallace a Auster, «non è venuta, c’è sempre stata», ricordano i due giovani registi romani; «quando eravamo bambini covavamo una sorta di dualismo tra quello che vedevamo intorno a noi, che ci sembrava crudele e asfissiante, e la nostra percezione degli eventi. Pensavamo dipendesse dal nostro pessimismo, ma poi ci siamo accorti che stavamo iniziando ad avere anche noi quei difetti e quegli errori che vedevamo negli altri».
Con uno sguardo visionario che ormai li identifica, Damiano e Fabio dipingono un ritratto umano che nella distorsione fiabesca dello sguardo infantile trova la sua verità più intima e sconcertante
Con uno sguardo visionario che ormai li identifica, Damiano e Fabio dipingono un ritratto umano che nella distorsione fiabesca di quello sguardo infantile – accentuata visivamente dalla scelta sistematica dei grandangoli e dalle costanti aberrazioni ottiche ai lati dell’immagine – trova la sua verità più intima e sconcertante, smascherando i fantasmi di una generazione fondata su un patriarcato machista che continua a mietere vittime. Favolacce è un film immersivo, di una dimensione rarefatta in cui la luce è onirica, come se le immagini fossero un ricordo, e la narrazione passa per quadri, con pochi movimenti di macchina, per non distrarre lo spettatore con una regia che vuole farsi notare, a detta degli stessi fratelli. Il punto di vista spesso è quello delle finestre dei vicini, come una soggettiva di qualcuno che spia, e questa scelta non toglie niente alla forza del film – meravigliosa la scena in cui il figlio di Bruno sta per strozzarsi con la carne raccontata tutta così, da lontano, con la stessa potenza emotiva dei tanti primi piani intensi dei bambini.
Le vittime di questo mondo sono proprio quei bambini, il cui grido infelice e piangente si nasconde nelle ombre stagliate dal sole sulla strada, dietro ai parabrezza delle auto dei papà o nell’acqua sognante che ricopre i loro tuffi in piscina, una “piscinaccia” acquistata in offerta da Bruno e montata in giardino per lo svago degli amici di tutto il quartiere. Gli amici che lo ringraziano e però lo disprezzano con livore silente, nascosti dietro le tende e gli scuri delle loro case: «La piscina ch’i pidocchi. Sta famiglia de purciari». Il silenzio gli attori – trainati da uno straordinario Elio Germano che i D’Innocenzo definiscono autore che rifiuta i manierismi – lo sfruttano appieno: «Abbiamo detto agli attori quasi di “magnasselo” questo silenzio perché, come nella scena iniziale in cui i bambini devono leggere le pagelline, volevamo che questo mondo parlasse attraverso certi rumori che senti d’estate sul litorale romano: il vicino che rompe il cocomero, l’altro che ascolta la tv ad alto volume». La scena in questione ricompone un quadro della routine di quartiere, una consueta cena con gli amici dirimpettai nel giardino di Bruno, che alla chiusura della scuola invita i figli Dennis e Alessia a leggere la sfilza di dieci avuti in pagella. A tavola siede anche la piccola Viola, loro coetanea, che ha avuto un rendimento mediocre liquidato ben presto dal padre, pronto a scaricare ogni colpa sull’insegnante di sostegno, a suo dire «bravo co’ l’handicappati ma no coi ragazzini normali». Così, l’incantevole sguardo ceruleo di Viola muore timidamente nel silenzio di quei rumori estivi, che diventano una sorta di presagio di qualcosa di inarrestabile che è successo o che sta per succedere irrimediabilmente. Quasi come il suo nome, Viola: presagio sognante di mistero e penitenza, che da lì a poco colorerà anche i palloncini della sua festa di compleanno.
«Sto costruendo una bomba per far esplodere l’intero quartiere. Così finisce tutto».
ITA 2020 – Dramm. 98’ ★★★★
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