Fantasmi decoloniali
Sui romanzi Fantasmi di famiglia e Assedio Animale, tra Giamaica e Colombia alle radici del trauma coloniale
Come già visto in molte altre storie contemporanee, il folklore e il mito sono utili ad affrontare argomenti intensi, come i traumi, l’identità, e l’ambiente ridotto al collasso in cui ci troviamo immersi. Sono strumenti duttili che si prestano a narrazioni diverse tra loro. Due titoli usciti di recente fanno propri questi mezzi e si prendono in carico di raccontare gli orrori del colonialismo, il punto di vista bianco e distorto di chi è al potere armato di ogni privilegio. Storie che, utilizzando in modo sottile l’elemento magico o surreale, mettono di nuovo al centro quelle identità che hanno visto cancellata la propria voce e che quindi hanno dovuto trovare un modo diverso per raccontarsi nuovo.
Il primo romanzo è Fantasmi di famiglia della giamaicana Maisy Card (Tlon, traduzione di Clara Nubile). Esordio di più di trecentocinquanta pagine, il libro si presenta apparentemente come la più classica delle saghe familiari. La storia è quella dei Paisley, famiglia di origine giamaicana di cui si scopriranno le origini nel corso del romanzo. Il patriarca tuttavia, Abel, irrompe subito come figura che smonta qualsiasi aspettativa ci fossimo fatti sulle probabili vicende di questa famiglia. Abel infatti, trasferitosi in Inghilterra per lavoro negli anni Settanta, un giorno vede morire di fronte ai suoi occhi, a causa di un incidente, l’amico Stanford. Gli uomini lì intorno, bianchi, che poco si curavano dei lavoratori neri, credono che a morire sia stato Abel. E lui lascia che lo credano. La moglie, in Giamaica, riceve una lettera che le annuncia la vedovanza e resta sola con una bambina e un bambino. Intanto Abel si prende il nome di Stanford, torna in America e si trasferisce ad Harlem, dove si costruisce una nuova vita. Nuova moglie, nuovi figli, addirittura un’amante e una figlia illegittima.
Questo primo capitolo che ci narra la genesi della nuova vita di Abel è narrato in seconda persona singolare, ed è un altro tassello che ci porta a comprendere in maniera ormai del tutto immediata che quella che abbiamo tra le mani non ha niente della saga familiare che ci aspettavamo. Quasi tutti i personaggi si presentano in questo primo capitolo, e chiedono a chi legge di mettersi nei loro panni. Sei tu il giamaicano, sei tu la ragazza rinchiusa in cantina, sei tu la badante. L’autrice mette subito le cose in chiaro: prova ad accogliere questa storia, e guarda cosa è scaturito da tanti segreti, traumi e relazioni irrisolte.
Tutti i personaggi chiedono a chi legge di mettersi nei loro panni. Sei tu il giamaicano, sei tu la ragazza rinchiusa in cantina, sei tu la badante. L’autrice mette subito le cose in chiaro: prova ad accogliere questa storia
Mano a mano che si procede lungo la lettura e si incontrano e si approfondiscono i diversi membri della reticolare e pervasiva famiglia Paisley, ci rendiamo conto che molte di queste voci ci sembrano prepotenti, inattendibili. Da che parte sta la ragione? Qual è la causa di ogni scontento, malessere e dolore che si è radicato negli anni in questa famiglia? La conseguenza, di sicuro, sono i fantasmi. Maisy Card mette in scena nella sua storia i duppies della tradizioni caraibica, spiriti maligni rimasti ad alloggiare sulla terra dopo la morte. Nel romanzo abbiamo una violenta scena di esorcismo, che avviene sul corpo di Vera, la prima moglie di Abel. Troppo libertina, sboccata, troppo e basta per essere una compagna e una donna esemplare. Ci sono sempre dei fantasmi a osservare il funerale di Vera stessa. E abbiamo infine i fantasmi che Debbie, la compagna di uno dei figli di Abel, evoca. I fantasmi in questione emergono da un diario che apparteneva alla famiglia di Debbie, al suo antenato. Che, ironia della sorte, aveva una piantagione in Giamaica, ad Harold Town.
Ma quando lesse la prima pagina del diario di Harold, in cui lui si deliziava a torturare una schiava per un vasetto di miele, si chiese se la storia fosse più facile da digerire quando non eri in alcun modo coinvolta. Quando la fissavi attraverso una teca di vetro.
A partire dal capitolo di Debbie galleggiano in bella vista i veri spettri che infestano la famiglia Paisley. I fantasmi scaturiti da un sistema di potere razzista, classista e patriarcale. Voci che cercano di raccontare cosa è davvero successo nel passato e cosa può ancora accadere nel presente. L’orrore del colonialismo che ha interessato la Giamaica dimostra anch’esso perché questa non può permettersi di essere una normale saga familiare. Non può esistere linearità in un mondo simile, così come non può esistere risoluzione alle vite sconquassate dagli inganni tramandati. Ai membri della famiglia Paisley non resta che raccontarsi, consegnarsi a chi legge. A chiudere come un anello la storia sta l’ultimo capitolo, che inscena senza passare da personaggi reali una storia di mito e leggenda, con protagonista Ol’Hige, uno spettro del folklore che si aggira nella piantagione di Harold Town. Il capitolo appare dissonante, scorretto e probabilmente nell’economia della narrazione avrebbe giovato in una posizione centrale, come intermezzo prima della storia di Debbie. Tuttavia quel che è certo è che qui il trauma si fa folklore, l’unica arma che può permetterci di mettere la storia in bella vista, fare sì che metta radici e che racconti sé stessa anche a coloro che non vogliono ascoltare.
L’altro romanzo ci sposta in Colombia e si tratta di Assedio animale di Vanessa Londoño (Polidoro Editore, traduzione di Massimiliano Bonatto). Al contrario del romanzo di Card, con i suoi personaggi che si presentano e che affidano la storia nelle mani di chi legge, il libro di Londoño è più sottile, non si consegna senza indugi ma chiede invece a chi legge di lasciare il proprio posto sicuro per inoltrarsi in una geografia di orrori. La storia di Assedio animale è quella di diversi personaggi situati nel luogo finzionale di Hukuméji, villaggio situato in Colombia sulla costa del fiume Don Diego, dove piove senza mai smettere e quattro persone si raccontano e facendolo ci consegnano la storia di una collettività intera, ambientata durante un momento del conflitto contro le Farc. C’è un’india a cui hanno tagliato le gambe con una motosega perché ha osato indossare degli stivali durante il lavoro, c’è la ragazza che si è rifiutata di dare la propria verginità al padrone, come è usanza fare.
Passai la notte ad ascoltare i coleotteri sbattere contro i fili intrecciati della zanzariera, con la certezza che sulla poltrona di pelle di fronte alla parete ci fosse qualcuno che mi guardava.
I corpi nel romanzo mancano di parti, si tratta di una mutilazione certa, che passa attraverso una violenza che sembra impossibile da schivare. Si tratta di un male che vive e prospera indiscusso a Hukuméji. Così la geografia del luogo, vessato e pieno di soprusi, si riflette sulla geografia dei corpi, mutilati, rotti e per sempre compromessi. Non può essere altrimenti in un luogo in cui la violenza coloniale e patriarcale è così pressante da infiltrarsi nel terreno e da mettere radici. Due cose fanno di Londoño una narratrice molto capace. La prima è lo stile con cui mette in scena l’orrore, senza mai cadere nel sensazionalismo o nello splatter. Questo viene saggiato e soppesato, non in modo freddo e clinico, ma sicuramente in modo lirico. Non c’è niente di indicibile o inguardabile, perché l’orrore è lì in bella vista e si svela in tutto il suo candore. Il secondo elemento è lo scenario che emerge nitido eppure allo stesso tempo così fantasmatico, con un territorio che diventa corpo umano e poi torna a essere di nuovo terra, fiume e mare. Inoltre la pioggia che scroscia incessantemente sopra Hukuméji ci porta a chiedere dove queste esistenze vengono trascinate con il suo scorrere, ma anche cosa salirà prima o poi alla luce, mondato e finalmente visibile.
Non so se lo hai fatto per tranquillizzarmi riguardo al debito che aumentava, o perché tu stesso cercavi le risposte che io non ti davo, però mi hai detto che alla radio avevi sentito parlare di un’india che leggeva la fortuna nei palmi delle mani, e aveva imparato da alcune zingare a leggere perfino i monconi in cui tornavano a riflettersi le linee seminate nella pelle – a leggere perfino le protesi dei morti che dopo un certo tempo ridisegnano quelle linee prese in prestito al destino.
L’animalità del titolo è la consapevolezza di un corpo che può e vuole esprimere necessità e desideri e che si ritrova oppresso da un potere che tende a prendere quei desideri e spazzarli via, delegittimandoli. La Colombia di Londoño è quella vessata dal conflitto con le Farc e gruppi paramilitari che portano avanti guerriglie che vanno avanti dagli anni Sessanta. È una storia di violenze che riguardano un’intera collettività, visibile nel romanzo di Londoño, che tuttavia riesce a mantenere anche le singole identità e la desolazione di ogni storia. A differenza del romanzo di Card non è la famiglia o il gruppo a veicolare l’accusa, ma una voce singola che tende la mano a un’altra e a un’altra ancora. E chi legge l’accusa, un corpo bianco situato in Occidente, non può fare altro che riconoscere e accettare la denuncia.
Nel sistema culturale in cui viviamo i saperi non occidentali vengono delegittimati, le identità cancellate e la violenza considerata un dato di fatto
Il colonialismo proietta le identità singole su una gerarchia, con livelli basati su razza, genere e sessualità, e solo affidando di nuovo la voce a chi può permettersi di raccontare e rivedere la storia abbiamo qualche possibilità per stimolare un nuovo pensiero. Un pensiero decoloniale, che tenta di decostruire ciò che sappiamo o quello che soltanto un limitato punto di vista bianco e occidentale ci ha insegnato. Come scrive la professora all’Università di Sorbona e attivista transfemminista Rachele Borghi in Decolonialità e privilegio (Meltemi Editore): «Le teorie post coloniali hanno ricostruito il sapere tradizionale ma non hanno mai di fatto messo in discussione la legittimità dei produttori di conoscenze e dei postulati dominanti».
Gli altri saperi non occidentali vengono delegittimati, le identità cancellate e la violenza considerata un dato di fatto. Per questo leggere queste storie ci dimostra quanto davvero sappiamo ascoltare le storie degli altri, quanto occorra smontare un immaginario che abbiamo sempre dato per scontato creandone uno nuovo, immaginando da capo anche attraverso miti e folklore se necessario, attraverso luoghi dove la pioggia sembra infinita nell’attesa che prima o poi una nuova narrazione ci galleggi di fronte.
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