Facce d’angelo
Su La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi e la criminalità giovanile campana raccontata da Roberto Saviano
Questa volta non siamo a Città del Messico, i ragazzi di strada che Buñuel aveva filmato ne I figli della violenza sono invecchiati. Non ci troviamo neppure nella favela di City of God dove il padrone incontrastato del narcotraffico era un giovane di tredici anni. Siamo a Napoli, la città italiana che assieme a Roma detiene lo scettro cinematografico della criminalità e della malavita. Ma rispetto ai tanti film di questo genere sin dalla prima sequenza percepiamo qualcosa di insolito, forse ci saremmo aspettati la classica periferia devastata dove caducità e decadenza colorano lo sfondo, invece siamo nella Galleria Umberto I, dove una banda di ragazzini è intenta a rubare il tradizionale albero di Natale. Si apre così La paranza dei bambini, vincitore dell’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura al Festival di Berlino, tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano. Il primo romanzo dello scrittore campano, Gomorra, è stato tradotto in 52 lingue, nel 2008 Matteo Garrone ne ha realizzato un film e nel 2014 è nata Gomorra – La serie, opere che hanno reso ancora più note le vicende camorristiche al di fuori dei confini nazionali.
Gomorra è stato tradotto in 52 lingue, nel 2008 Matteo Garrone ne ha realizzato un film e nel 2014 è nata Gomorra – La serie, opere che hanno reso ancora più note le vicende camorristiche al di fuori dei confini nazionali
Per l’adattamento cinematografico de La paranza dei bambini Saviano ha lavorato con Maurizio Braucci, già collaboratore alla sceneggiatura del film di Garrone, e Claudio Giovannesi, che aveva diretto due episodi durante la seconda stagione della serie, che si è occupato della regia. Il regista romano per la prima volta si è trovato a raccontare una storia ambientata al di fuori della capitale – escluso il suo lungometraggio d’esordio La casa sulle nuvole (2009) girato per la maggior parte in Marocco – e per questo, desideroso di conoscere meglio i luoghi dove è ambientata la pellicola, si è trasferito a Montesanto (paese di origine di Braucci).
La realizzazione del film comporta inderogabilmente un paragone con l’opera di Garrone, anche lui romano, che con Giovannesi condivide un percorso formativo similare dato che entrambi nei loro primi lavori, con uno stile semidocumentaristico, si sono interessati agli squilibri e alle difficoltà della società multietnica di provincia, ma per quanto ci siano somiglianze tra i due lungometraggi e le storie che raccontano possano apparire conciliabili – soprattutto se messe a confronto con quella di Marco e Ciro, i ragazzi di Gomorra cresciuti nel mito della malavita e di Scarface –, le due opere sono caratterizzate da una poetica assolutamente difforme.
La scelta di Giovannesi è azzeccata per raccontare una storia in cui l’interesse primario non è incentrato sulla malavita napoletana (come era stato in Gomorra) ma sulle azioni dei giovanissimi protagonisti. Per far questo, e soprattutto per scongiurare il rischio di creare uno spin-off del suo epigono più famoso, il film si doveva distaccare dal racconto di genere e da quel tipo di messa in scena. Come dichiara il regista: «Il mio non è un film su Napoli ma sulla perdita dell’innocenza che si manifesta in ogni metropoli quando si fa una scelta criminale. Un processo raccontato dal punto di vista dei ragazzi, dei loro valori e sentimenti». Con questo non si vuole celare la violenza ma far emergere dal racconto criminale le conseguenze emotive dovute da determinate scelte. Anche nelle sue opere precedenti il regista romano aveva dimostrato una spiccata propensione per l’universo giovanile. In Fratelli d’Italia (2009) racconta la storia di tre ragazzi immigrati: Alin, un diciasettenne di origini romene che vive da quattro anni in Italia, Masha, ragazza bielorussa di 18 anni, e Nader, immigrato di seconda generazione di 16 anni che vive un perenne conflitto culturale e sentimentale. Nel film successivo, Alì ha gli occhi azzurri (2012), si sofferma sulla storia di Nader, ragazzo egiziano protagonista nell’ultima delle tre storie raccontate nel film antecedente, mentre in Fiore (2016) racconta la storia d’amore tra Daphne e Josh in un carcere minorile. I protagonisti di queste opere sono tutti attori non professionisti, molti di loro interpretano addirittura se stessi rendendo evanescente e impercettibile il confine tra realtà e finzione. Per selezionare i nove protagonisti de La paranza dei bambini sono stati provinati più di 3mila ragazzi, alla ricerca di giovani che conoscessero il male senza praticarlo, come Pasquale Marotta, 19 anni, che tutt’ora vive tra gli orrori di Scampia, o At Team, 18 anni, cresciuto nel quartiere di Salicelle di Afragola. Anche il protagonista Francesco Di Napoli, 17 anni, nel film Nicola, viene dal Rione Traiano, un vero e proprio ghetto considerato insieme a Scampia uno dei principali distretti di spaccio. Per la scelta del protagonista Giovannesi esigeva un volto pulito e innocente, voleva agire per contrasto: una faccia angelica che nascondesse un animo malvagio.
La ferocia che appare sullo schermo viene percepita quasi come un gioco, non crediamo a quello che vediamo o perlomeno siamo propensi a giustificare e legittimare questa condotta
La cinepresa segue costantemente i guaglioni dai quali si ricercava una prova recitativa ancora grezza, istintiva e naturale che un attore professionista difficilmente riuscirebbe a fornire. I movimenti di macchina frenetici e dinamici che avevano caratterizzato i suoi lavori precedenti vengono sostituiti da movimenti fluidi e calibrati, e la regia assume un tono meno aggressivo contribuendo a sottolineare questa dicotomia tra le azioni (violente) e i visi innocenti di chi le compie. Come dichiara il regista «il film si regge sui loro volti»: la ferocia che appare sullo schermo viene percepita quasi come un gioco, non crediamo a quello che vediamo o perlomeno siamo propensi a giustificare e legittimare questa condotta. Il modo di agire di questi giovani è finalizzato a fare soldi in modo veloce e utilizzare quel denaro per fare tavoli in discoteca, comprarsi motorini nuovi, abiti e scarpe firmate. In poche parole i soldi che guadagnano vengono sperperati, vivendo senza alcuna prospettiva futura dato che – come dichiara Saviano – «l’aspettativa di vita di questi ragazzi è come quella di un uomo del Medioevo. A venticinque anni sono già morti».
Il personaggio che muove le pedine del gioco è sempre il solito, Nicola, apparentemente il ritratto dell’innocenza. Ma più che un angelo comunemente inteso, come viene descritto per il suo volto pulito, è un angelo del male, è il Lucifero del film: l’angelo più bello che cela un animo malvagio. Giovannesi pedina i suoi movimenti filmandolo costantemente, è lui a dettare i tempi del racconto e a mostrarci la vita tra Rione Sanità e Quartieri Spagnoli. È il leader, colui che assurge alla posizione di comando, sfida i camorristi di zona e dà vita a una battaglia territoriale. La macchina da presa segue i suoi movimenti tra le vie del centro colme di bancherelle dove i commercianti sono costretti a pagare il pizzo, in quelle stesse strade che sembrano mutare aspetto in base alle decisioni dei protagonisti – sono le scelte dei ragazzi a plasmare la nostra percezione del paesaggio. Per tutto il film Nicola e la sua banda commettono azioni scellerate, affrontano i camorristi e dopo essersi procurati le armi uccidono e sparano sulle case, ma questi gesti non vengono percepiti come atti brutali, i giovani agiscono per il bene del loro quartiere, non sembra esserci ostilità in quello che fanno e per quasi tutto il racconto, anche di fronte a spargimenti di sangue, i loro comportamenti trovano costantemente una giustificazione nello sguardo dello spettatore. Fino al finale, in cui il nostro punto di vista si trasforma drasticamente.
La macchina da presa segue i movimenti di Nicola tra le vie del centro colme di bancherelle dove i commercianti sono costretti a pagare il pizzo, in quelle stesse strade che sembrano mutare aspetto in base alle decisioni dei protagonisti
Nell’ultima sequenza del film il paesaggio di Napoli si fa invisibile, resta solo il volto di Nicola a riempire lo schermo. Il suo fratellino è stato ucciso, Nicola a bordo del suo scooter, seguito dalla sua banda, è deciso a vendicarlo. Giovannesi incornicia il suo volto, lo pone al centro dell’inquadratura mentre il paesaggio che lo circonda, fino a qual momento sempre comprimario, appare marginale, l’attenzione è rivolta solo sul suo sguardo impassibile. La musica, composta da Giovannesi e Alessandro Moscianese, aumenta il senso di incertezza, tutto rimane sospeso e ambiguo mentre la cinepresa resta ancora qualche instante sul viso del ragazzo prima che lo schermo nero segni l’epilogo. In quest’ultimi fotogrammi, dominati da un’espressione gelida e insensibile, prendiamo coscienza della sua definitiva perdita d’innocenza; durante il film abbiamo assistito ad azioni violente e spietate ma è in questa scena contraddistinta dal silenzio e da un’apparente tranquillità che comprendiamo il perfido e disonesto destino a cui i ragazzi stanno andando incontro. La paranza dei bambini si conclude così, ma questa non è la fine, è solo il tragico inizio, quello che abbiamo visto fino ad ora è semplicemente la prima parte di una delle tante storie iniziate come un gioco che si concludono in tragedia. Un finale molto simile al suo film precedente, in cui l’autore romano sostituisce i due giovani amanti di Fiore con il volto di Nicola, un volto che incarna le storie dei tanti “paranzini” dal futuro oramai tristemente segnato.
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