Essere o mangiare? Questo è il romanzo
Su Chilografia di Domitilla Pirro, parabola di una vita attraverso la disperazione dei chili
Finalmente c’è un ottimo romanzo che dà voce a chi si ritrova tra le schiere delle grasse. Personalmente, ne avevo bisogno. Col diario vorace di Palla – che non cammina, ma rotola – la pinguedine come materia narrativa viene raccontata in modo talmente audace da riuscire a catturare anche l’interesse dei più scettici; lo conferma il fatto che il romanzo sia, da pochi giorni, alla sua prima ristampa, e c’è solo da esserne contenti. Chilografia, uscito dalla penna di Domitilla Pirro per Effequ, è un inno al dispiacere del corpo in quanto prodotto del disagio a cui è stato sottoposto nell’arco di una vita. Vita di donna, vita di donna grassa: quella di Palma, chiamata Mina in famiglia (dal diminutivo Palmina); Palla per tutto il resto del mondo, almeno da quando, verso i dodici anni e i sessanta chili e passa, le amichette degli scout non le hanno affibbiato questo carinissimo nomignolo:
Megghi La Capa si gira e fa la faccia cattiva, gli occhi freddi. Dice Palla mòvite o te metto ‘n fondo. [...] È il suo unico nome, qui. Quando chiede alle compagne se possono smetterlaperfavore, le Tigri rispondono sempre che non dipende da loro, che è colpa sua; che se Palma continua a ingrassare, l’anno prossimo sarà questo il suo animale guida. Pesce Palla. Poi ridono. Sono stronze, le Tigri.
Il peso di Palma è pervasivo al punto di intaccare la struttura romanzesca: ogni capitolo ha per titolo il numero di chili raggiunti dalla ragazza nel momento che si sta per raccontare. Dopo un fugace incipit in cui si ammicca alla fine del romanzo, si parte da quando Palma è solo un conglomerato di cellule in corsa verso la vita – il peso è 0,003 kg. Nasce il 12 aprile 1981 in una famiglia della provincia romana composta da mamma Stefania, Clara, la sorella più grande sempre poco presente; e Sauro, o papone, genitore come tanti, incapace di fare il padre. Il diario documenta il crescere e l’ingrassare di Palma da bambina a giovane donna, fino a che non incontra Angelo, con il quale si trasferisce nella vecchia casa in campagna dei nonni della ragazza, ribattezzata dalla coppia la Stalla. Quando Angelo comincerà a mostrarsi ossessivo e ad alzare le mani, Palma inventerà un modo tutto suo per farlo tacere per sempre, «mettendoci il cuore».
Chilografia è disturbante e vero. Domitilla Pirro, con rara vividezza narrativa, fissa i gesti e i momenti di una realtà femminile tanto consueta quanto poco raccontata. La grassezza connota la vita di Palma che, nella sua ingenua semplicità, non ha mai coltivato sogni, ambizioni, volontà: lei non trascina, ma è trascinata dagli eventi. Il disagio attecchisce sin da quando è sul seggiolone, poiché mammafània – donna infelice – ingozza la figlia riversandole addosso tutta la sua frustrazione esistenziale: la rabbia si traveste da apprensione genitoriale, facendo il danno. Palma continua a crescere nascondendo la sua mitezza e la sua sensibilità sotto strati multipli di grasso. I confini labili tra corpo e cosa inanimata si confondono. L’unico tratto che li distingue è la presenza del sangue:
Poi c’è una parola che è corpo ma si comporta da cosa. Palma. Palma era: una bambina di undici anni, otto mesi e nove giorni, felice di cominciare le vacanze di Natale, figlia di Sauro e sorella di Clara […] Palma è: l’immobilità dei sassi di fiume, la durezza precaria di un gheriglio, la friabilità delle ossa vecchie, la vuota compostezza della lettera O. Accucciata sui gradini con le mani sulle orecchie e gli occhi molto aperti.
Poi c’è una paura che non è corpo e non è cosa. Che non si può contare. Che è e basta, e non è finito. È il sangue. Sangue non ha plurale.
In questa dialettica così importante tra cosa, corpo e sangue – suggerita anche dal riferimento non casuale alla scabrosa e perturbante Mein Teil dei Rammstein, leitmotiv del romanzo – si inserisce quel brutto circolo vizioso che Palma conosce sin da piccola, per cui il senso di colpa diventa cibo, e il cibo rifugio dalla solitudine. Dopo «la guerra dei muri» – momenti notturni spesi a piangere con la testa sotto il cuscino e la faccia rivolta verso il muro – Palma impara a colmare i vuoti all’ombelico fiondandosi in cucina, elevando ad arte l’assemblaggio tra tutto quello che trova di commestibile: unico modo per dare senso alla sua esistenza. È con Internet e The Sims che la protagonista trova un po’ di consolazione. Le grasse «faticano un sacco a essere Dio», ma Palma riesce ad adeguarsi ai poteri di demiurgo che il gioco le concede, mettendosi all’opera per realizzare il suo mondo ideale. Mentre con la sua fighissima avatar KateGame Palma sfoga tutto ciò che cova, su una chatroom dedicata ai feticisti dell’adipe la ragazza incontra Angelo, il suo futuro compagno. Angelo, o Tato76, è un personaggio scritto in modo divinamente orribile: burino fino all’osso, è il padre-padrone per eccellenza, in cerca di donne deboli da sottomettere. Trova Palma, la sua porcotta: le pratiche di dominio si involano, specialmente se vengono inculcate attraverso il sesso:
Palma voleva scopare sempre. Palma era un animale. Palma era una bestiola che doveva essere governata, perché c’era qualcuno che finalmente si occupava di lei e decideva cos’era che le faceva bene. Angelo questo lo spiegava in modo molto chiaro. Era particolarmente efficace se lo diceva a letto, steso accanto a lei, mentre le infilava e sfilava un dito da dentro. Non importava quante pieghe dovesse sollevare per trovarlo, il buco di Palma era sempre lì e lui lo beccava comunque.
Con questi presupposti, è scontato che ad un certo punto la mano scatti. Nel raro momento in cui Palma non ha fame, Angelo la obbliga a mangiare. Appena la ragazza dà di stomaco, parte la manata, ed è in questo frangente che il lettore scopre il perché dell’ossessione di Angelo per le grasse: sua madre non ha mangiato per sei mesi dopo che il padre – che lui venera come un Dio – li ha abbandonati. Inconsciamente, per non rivivere il trauma, Angelo pretende che Palma mangi, a costo di ingozzarla. Il finale, che rimane aperto, vede la grassa Palma invocare nel dormiveglia quella dolce e calda stasi propria dei sonni d’infanzia: «Altri cinque minuti di posoposìno, nonna. Altri cinque minuti, mamma» – straziante e commovente contrappunto per chi ha appena assistito a un momento carico di tensione, e di sangue.
I confini labili tra corpo e cosa inanimata si confondono. L’unico tratto che li distingue è la presenza del sangue
Una vita-tipo come quella di Palma raramente è protagonista in un romanzo, probabilmente perché la si reputa poco interessante da esplorare. Il grande merito dell’autrice è senz’altro quello di aver saputo rendere l’esistenza di una donna grassa degna di essere indagata, riuscendo con grande eleganza a dare una prospettiva diversa rispetto al classico punto di vista di chi condanna l’obesità con quello sdegno («come ci si fa a ridurre a quel modo?») proprio di chi non ne conosce i retroscena. Palma è un personaggio che si espone poco, ma è proprio la grande quantità di non-detto a suggerire che il suo animo docile e complesso non riesce ad esprimersi perché, come succede a tanti caratteri volubili, non gli è stato mai insegnato come fare.
La scrittura di Domitilla Pirro include vari livelli linguistici. Preponderante è l’uso del dialetto romanesco, lingua sfuggevole e sgrammaticata usata dai protagonisti anche per comunicare via chat. Lo stile è particolarmente materico e visivo, in cerca dell’immagine forte senza scandalizzare in modo gratuito. Soprattutto per questo, l’andamento per scene di Chilografia rende molto facile immaginarne un adattamento cinematografico, magari sotto forma di film realista/splatter alla Deodato, per farci andare meglio su di giri – augurio strameritato per un romanzo che è tutto da divorare.
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