El libertador? - L'Asse del Male
La retorica delle relazioni pericolose
3. L'Asse del Male
Le politiche economiche di stampo socialista intraprese da Chávez hanno avuto per effetto collaterale di nascondere la gestione della cosa pubblica allo sguardo del grande pubblico occidentale, una parte del quale è galvanizzata da Chávez come dall’artefice di una democrazia nuova, rivoluzionaria, capace di estendere alle masse i benefici di quel petrolio solitamente associato all’imperialismo americano e alle sue malefatte. Chávez appare come il profeta di un socialismo costruito dal basso, dall’interno, espressamente volto a contrastare il potere dei sistemi burocratici e dello Stato e del partito e quindi a ridurre le distanze tra il leader e la massa dei sostenitori (curioso di come si polarizzi a seconda dei casi la percezione negativa di quest’ultima tendenza). Ma ancora più importante risulta agli occhi di questo pubblico la politica estera di Chávez, decisamente (?) schierata contro i malefici Stati Uniti imperialisti. Poco importa se questo ha comportato l’alleanza o quantomeno l’avvicinamento ad alcuni dei soggetti meno raccomandabili del pianeta. Fatto sta che fu Chávez a inserirsi polemicamente nel dibattito seguito al discorso del 2002 in cui l’allora Presidente nordamericano Bush informò il mondo dell’esistenza di un Asse del Male intenzionato a distruggere gli Stati Uniti, la democrazia, la libertà eccetera eccetera. Il suo omologo venezuelano lo sbeffeggiò, mandando indietro al mittente un’accusa in cui non era neppure stato incluso, e dando avvio alla sua brillante politica estera così come la conosciamo: un rigurgito di antiamericanismo e terzomondismo non meno grossolano della fascistizzazione linguisticamente impressa da Bush agli Stati cosiddetti canaglia.
In America Latina Chávez ha fondato sull’alleanza con la Cuba castrista il sistema dell’Alleanza bolivariana per le Americhe, che ha raccolto, fra gli altri, la Bolivia di Evo Morales, il Nicaragua di Daniel Ortega e l’Ecuador di Rafael Correa, nell’intento di sottrarre il subcontinente e i Caraibi all’ormai inveterata egemonia statunitense. Quanto al resto del pianeta, Chávez ha trovato appoggio e ascolto proprio presso Stati canaglia e affini – Corea del Nord, Libia, Bielorussia eccetera – ma merita un discorso approfondito la relazione particolare che lo ha legato alla Libia di Gheddafi e all’Iran di Ahmadinejad.
Col dittatore libico ormai passato a miglior vita Chávez aveva in comune non solo il passato militare (e la specializzazione, qui, nel campo delle comunicazioni in cui anche da politici hanno eccelso) ma anche l’appartenenza ad una minoranza etnica dotata di una forte connotazione geografica e percepita come rappresentante tipica dei rispettivi Paesi (i beduini per Gheddafi, i llaneros meticci per Chávez). Con Ahmadinejad il defunto Presidente del Venezuela aveva in comune la regolare elezione al potere tramite consultazione pluralista, anzi, come ci tengono a far sapere gli esponenti di quell’opinione pubblica rimasta stregata dal líder, Chávez è stato eletto più volte, nonché confermato in sede referendaria. Ma quel che mette il venezuelano e il persiano sullo stesso piano – e qui l’intersezione coinvolge anche il Colonnello – è la base petrolifera e, quindi, antiamericana della politica presidenziale.
Perché campare sul petrolio può significare facilmente campare a forza di proclami contro gli Stati Uniti?
Come sottolineava Maurizio Stefanini nel marzo 2011 su limes online, tutti e tre questi leader sono riusciti a migliorare sensibilmente, rispetto agli altri Paesi della rispettiva area, le condizioni della popolazione grazie ai proventi del petrolio e di altre risorse; quindi hanno potuto rinunciare ad attività repressive particolarmente appariscenti, o comunque permeabili all’attenzione dei maggiori media occidentali e godere di un consenso per così dire naturale, ma dipendente dal controllo diretto delle risorse petrolifere. Non è un caso che il tentato golpe del 2002 contro Chávez sia nato nel contesto di un tentativo del Presidente di rinnovare i quadri della società petrolifera di stato, la PDVSA, con un corpo di funzionari a lui legati. Mantenere alti i profitti del petrolio significa mantenere operativa la possibilità di spenderli per proseguire lo sviluppo del Paese e, quindi, consolidare un consenso a sua volta strumentale ad una gestione spericolata e non sempre limpida del potere. Cosa c’è di meglio, allora, di seminare il panico nella comunità internazionale con una retorica incendiaria?
Da qui ha preso le mosse l’uso spregiudicato di un discorso politico fortemente creativo, che ha mirato a definire una precisa identità politica e culturale da contrapporre a quella statunitense. Una storia patria caratterizzata dalla lotta per il controllo delle risorse nazionali ha fornito abbondante materiale per la retorica necessaria a supportare ideologie marginali, ma spacciate per contenitori di pensiero in grado di stravolgere gli assetti esistenti e avviare un processo di palingenesi dell’area geopolitica e culturale cui fanno riferimento i vari Paesi. Così è stato per il Libretto Verde di Gheddafi, per il khomeinismo dell’Iran e adesso è così per il bolivarismo venezuelano. Tutte queste chiacchiere, oltre che a costruire e consolidare il consenso interno col vecchio trucco del metus hostilis di sallustiana memoria, potrebbero servire come base comune per sperticati progetti di integrazione e collaborazione economica, finalizzati a compensare gli effetti nefasti di un investimento dei petroldollari nel sociale o nella politica di potenza (quando non nell’accaparramento personale, come si è evinto dall’esito della dittatura di Gheddafi), spesso privo di risvolti positivi in quei settori della produzione rispetto ai quali un Paese come il Venezuela non è ancora indipendente, come la raffinazione degli idrocarburi. C’è motivo infine di sospettare che la magniloquente retorica messa in campo dal defunto Chávez servisse soprattutto a nascondere una verità scottante anche per quell’opinione pubblica che, nell’euforia delle apparenze, probabilmente ignora che gli Stati Uniti sono ancora e sempre il principale partner commerciale di Caracas. E che, con o senza rivoluzione bolivariana, probabilmente lo resteranno ancora a lungo.
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