Effetti collaterali di Steven Soderbergh
con Jude Law, Rooney Mara, Catherine Zeta-Jones, Channing Tatum
Psicofarmaci: Zoloft, Demerol oppure Ablixa che siano, contribuiscono alla modifica dell'umore e alla sopportazione di una condizione di malattia. Come il cinema, creano un illusione di realtà, ma se i primi operano sulla rimozione del disturbo o sua attenuazione, il secondo opera (quando sfruttato al meglio) sulla proiezione, mediale e psicologica, del rimosso di cui la vita quotidiana non può farsi carico. Paradossale l'ormai assunta constatazione per cui tanto più l'immagine è costruita, tanto più l'impressione di realtà è consolidata. Quanto più l'artificio si distacca dal reale, maggiore è il suo grado di verosimiglianza, ovvero, il rapporto tra la Realtà-immagine e l'Immagine-realtà è inversamente proporzionale. Questa concettualizzazione sembra essere sempre presente nelle immagini di Soderbergh, ed è di maggiore pregnanza dal momento in cui egli stesso cura la fotografia dei suoi film. Il decoro dell'inquadratura è uno dei punti cardine nella cinematografia del regista statunitense che come un medico, un curatore o meglio un guru – in bilico tra immanenza e trascendenza – somministra il suo rimedio d'illusione e verità. Istituito il paragone tra la prescrizione medica e l'intento cinematografico, Side effects appare come una riflessione ontologica sulle proprietà e sugli effetti dell'ambiente mediale.
Primo stadio: manifestazione del disturbo, scollamento dalla realtà, nichilismo emotivo. Emily Taylor (Rooney Mara) si fa prototipo dell'individuo contemporaneo, fruitore mediale blissato da una miriade di stimoli sensoriali con cui costruisce una propria (personale e relativa) identità. Dramatis personae che subisce le conseguenze estreme di quel comune Trauma di Prometeo. Si circonda del massimo grado di civilizzazione che l'attuale sistema capitalistico – il marito (Channing Tatum) – può offrire, e finisce per bruciarsi con le sue conquiste. Il marito viene incarcerato per insider trading e, quando esce, lei tenta il suicidio. Non regge la realtà della sua situazione, sviluppa una psicopatologia e non riesce più a provare il piacere delle emozioni.
Secondo stadio: la ricerca di una cura e di un guaritore, l'esorcizzazione del rimosso, la delega di responsabilità. Dopo il tentato suicidio, il dottor Jonathan Banks (Jude Law) si prende cura di Emily. Egli è la personificazione del regista e del potere comunicativo più in generale, il suo cognome è un rimando palese al sistema capitalistico, quel sistema che ha bruciato Emily e che è lo stesso sistema senza il quale il cinema non esisterebbe; virus e antidoto per l'individuo, propone un medico-mediatico che riceve la soluzione alla crisi d'identità della protagonista tramite una casa farmaceutica – figurazione dei produttori cinematografici contemporanei – che vuole sperimentare un nuovo prodotto sul mercato. L'Ablixa è il film, il principio attivo è illusorio e contenuto da un rivestimento filmico. La stessa Emily-spettatrice chiede al suo medico di provare questa nuova cura dopo averne ricevuto una buona critica dal passaparola di una sua ex-collega di lavoro; e la cura ha effetto, Emily prende coscienza del proprio rimosso e uccide il marito. Non ritenendosi però responsabile delle proprie azioni, addossa le scelte della propria condotta all'effetto collaterale del farmaco-mediale che ha agito al suo posto. Il medico-regista che lo ha prescritto è così sottoposto alla gogna pubblica. Senza perdersi nell' interdisciplinare cornice delle teorie sulla comunicazione, il film sviluppa un inciso logico e concettualmente essenziale.
Terzo stadio: la mediazione del fruitore. Scoperta la recita che Emily porta avanti, la pellicola conclude dando spazio all'interpretazione dello spettatore nella decodifica testuale e, quindi, alla manipolazione volontaria che Emily opera fin dall'inizio, con la complicità della sua prima psichiatra nonché saffica amante – la dottoressa Victoria Siebert (Catherine Zeta Jones) – quest'ultima presente, senza guizzo innovativo, come doppione di personalità della prima.
Proprio sul versante dell'originalità il film presenta totale mancanza. Sviluppandosi come un ibrido tra thriller legale e crimine a sfondo sessuale, non presenta nessuna rottura né reinterpretazione dei codici di questi generi, risultando piatto e prevedibile. Scontata soprattutto la seconda parte in quanto i personaggi si annidano su stereotipi e dinamiche note tra vittima e carnefice, agendo come individui ciechi ad una logica elementare che li porterebbe alla prudenza e al controllo delle proprie azioni. L'ibridazione di generi si conferma così un terreno ancora instabile e una frontiera non ancora colonizzata che lascia spazio alle sperimentazioni, ma dove anche registi di spessore come Soderbergh possono fare dei passi falsi.
«Si vive meglio con la chimica»
USA 2013 – Dramm. Thrill. 106' **
Commenta