Donne soggetto
Tre manifesti, Tonya, Lady Bird: la donna nel cinema americano nell'epoca post Weinstein
L’essere umano ha bisogno di sentire narrata la propria storia per sconfiggere la “morte”, l’oblio, il vuoto in cui cade se non viene raccontato e quindi ricordato. Se nel cinema l’uomo ha soddisfatto questo desiderio, per la donna invece è stato sempre più difficile, costretta a vivere ingabbiata nei soliti cliché e nelle storie che la società, la cultura e gli altri le hanno cucito addosso. Tutto ciò perché l’industria cinematografica, patriarcale, androcentrica, fallogocentrica, è abituata a guardare la donna e non a narrarla. Lui è sviscerato dalla parola scritta che poi diventa immagine in movimento, multisfaccettato e pieno di senso proprio in virtù della sua pluralità, diversa è la situazione per lei, abituata, nonostante le dovute eccezioni, a essere oggetto di uno sguardo miope e a volte addirittura ottuso che le scivola addosso, senza penetrarne le carni, senza capire le sue varie nature.
Qualcosa è cambiato guardando gli ultimi premi Oscar anche per l’uragano che il caso Harvey Weinstein – dopo il 5 ottobre 2017 quando il primo articolo è comparso sul New York Times – ha scatenato: molestie e stupri in cambio della possibilità di lavorare da parte del numero uno della produzione americana ai danni di attrici che finalmente hanno il coraggio di parlare o meglio che iniziano ad essere ascoltate. Riacquistare la parola dopo molto silenzio, riappropriarsi della propria identità, fanno questo le vittime e l’Oscar 2018 verrà ricordato proprio come quello della ribellione femminile. È l’anno in cui il cinema ha raccontato una donna diversa, mostrata sotto altre spoglie: madri spezzate ma non sconfitte (Tre Manifesti a Ebbing, Missouri), giovani pronte a darsi un altro nome per trovare se stesse (Lady Bird), campionesse di pattinaggio che rompono vecchi schemi (Tonya). Non c’è un unico personaggio femminile ripetuto all’infinito, ci sono figure differenti, colte in momenti differenti della loro esistenza, alle prese con problemi differenti. Si tratta di donne piene, risolte – anche nella loro irrisoluzione –, non le solite immaginette piatte ma personaggi che con stature umane diverse consegnano una storia, reale e tangibile, non una riscrittura di un cliché o di un modello già visto. È un cinema che studia, approfondisce, riflette il femminino, che parla di violenza sessuale e fisica, di ricerca di sé e del desiderio di rompere le catene, che pone al centro il secondo sesso, per citare il titolo di un’opera di Simone de Beauvoir.
Una delle figure femminili che si iscrive perfettamente in questo discorso è la protagonista di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, diretto da Martin McDonagh, Mildred Hayes (Frances McDormand), la madre di Angela, una ragazza violentata e uccisa. Intorno alla dolente e incontenibile donna si costruisce un film che è un atto di guerra ma anche d’amore, rappresentazione di una donna moderna, molto più sicura e consapevole. Fin dall’incipit si comprende che Mildred non è succube della situazione, pur straziante, e nonostante i sensi di colpa che la divorano agisce. È forte, furiosa nel suo lacerante dolore, pugnalata a morte ma ancora viva, una guerriera che può avere anche paura ma va avanti perché c’è qualcosa di più importante per cui lottare: scoprire il colpevole. Si capisce la statura di questo personaggio dal dialogo muto tra lei e quei tre grandi pannelli da cui tutto inizia, uno sguardo d’intesa che stringe in un pietoso e tenace sodalizio. La donna qui guarda, non è guardata, è soggetto, non oggetto, agisce e non subisce, decide cosa fare e la fa: indossa l’armatura e dà inizio alla guerra. Quella che Mildred combatte è la battaglia sua e di tutte le altre donne vittime di soprusi, molestie, violenze.
Mildred guarda, non è guardata, è soggetto, non oggetto, agisce e non subisce, decide cosa fare e la fa: indossa l’armatura e dà inizio alla guerra
Non si ferma mai, vive per avere giustizia, per avere vendetta; quei cartelloni rosso fuoco come il suo temperamento, ribelle e indomito, sono utili a rompere il silenzio, a denunciare l’indolenza della polizia, a smuovere le coscienze, e diventano così atto politico nel senso più profondo e puro del termine, quello delle femministe per cui fare politica e partecipare è sinonimo di esistere. Quelle insegne diventano veicolo di un messaggio, urlano il dolore di madre e chiedono aiuto "Stuprata mentre moriva / E ancora nessun arresto / Come mai, sceriffo Willoughby?”.
Mildred è regista della storia, sposta le pedine e fa scacco al re, il maschio prevaricatore che fa sentire la sua supremazia attraverso un’arrogante forza, è un’Antigone moderna che non cede alla legge della città, quella per cui lo sceriffo Bill Willoughby (uno strepitoso Woody Harrelson) tenta di trovare un equilibrio tra le cose, restando un passo indietro non perché gli manchi la volontà ma perché è convinto di non dover andar oltre. Si muove come una belva in gabbia, alla ricerca di risposte, parla con le istituzioni – maschi non sempre pronti e adatti a rivestire questo ruolo –, con Willoughby e con l’agente Jason Dixon (Sam Rockwell), goffo, ignorante, razzista.
Altrettanto importante per il discorso sulla femminilità nel cinema contemporaneo è sicuramente la Christine (Saoirse Ronan) di Lady Bird, film di Greta Gerwig in cui la regista racconta l’ultimo anno di scuola di una ragazza di Sacramento, la segue nella sua lotta per conoscersi, affermare se stessa e la propria identità. È il 2002 sul muro urlano con forza le immagini dell’11 settembre, i ricordi di chi non c’è più ma lei, anzi tutta la sua generazione, sembra non udire quei richiami, la coglie l’apatia, quella di chi è sul punto di mutare la propria vita ma non sa ancora quale sarà la strada del cambiamento e continua a dimenarsi nell’odioso malcontento di chi è sempre contro, la madre, il fratello, il loro modo di vivere, la piccola città.
Vuole essere chiamata non con il nome datole dai genitori, ma Lady Bird, scelto da lei. Darsi un nome è gesto creativo, vuole dire (ri)trovarsi. “Perché non mi chiami Lady Bird?”, questo chiede alla madre con cui si scontra e si confronta, punto nevralgico della crescita di ciascuno, non solo perché rappresenta ciò che la protagonista non vuole essere ma anche perché è un dialogo necessario per costruire la sé del futuro. La Gerwig porta sullo schermo un film sincero che rompe gli argini anche alla luce del fatto che arriva post elezione di Trump, uomo rappresentazione di un’America e di un governo bianco, eterosessuale e maschilista che rigetta e denigra quelle come Lady Bird. È una storia diversa dalle altre, di una ragazza impertinente, non soggetta agli schemi sociali, ostinata, con la voglia di far sentire la propria voce, elemento chiave delle teorie femministe, primo passo per affermarsi come individui.
La giovane non si domanda quando si innamorerà, quando troverà finalmente il principe azzurro, conta solo su se stessa, sulla proprie forze, si interroga su quando sarà veramente se stessa ed è una prospettiva nuova. Mentre si dibatte per uscire dall’involucro (l’adolescenza) che la stringe e costringe e così allontanarsi da Sacramento – luogo odiato, bistrattato, “umiliato” –, i ragazzi con cui esce cercano ancora disperatamente di essere ciò che la società vuole. Lei non è omologata, non segue la corrente ed è in continua evoluzione e proprio per questo, quando nel finale lascia Sacramento alla volta di New York, solo allora capisce quanto la città tanto odiata sia casa sua e si fa richiamare Christine.
Un’altra donna importante in questo percorso è Tonya Harding (Margot Robbie), la prima pattinatrice ad eseguire il Triplo Axel, la donna più amata e più odiata degli Stati Uniti, figlia del mito americano, protagonista dell’omonimo Tonya, film/parabola di Craig Gillespie che narra l’esistenza ribelle di una donna energica che ha combattuto ed è caduta più volte (i problemi con la giustizia) ma che ha saputo anche risollevarsi (la sua nuova carriera da boxer). Tonya, come la sua protagonista, è sbilenco, dissonante, a tratti imperfetto, eppure riesce a tenere insieme ogni elemento, consegnando il ritratto, attraverso i primi piani e ai folli volteggi sui pattini, di chi non arretra mai. Racconta la storia del suo immenso talento che si concentra nei muscoli tesi, nella voglia di arrivare e nel suo volare nell’aria, ardimentosa come una combattente, il rapporto con gli altri che ad uno ad uno allontana da sé, il percorso tormentato e accidentato di una donna non convenzionale a cui viene tolto tutto proprio in virtù del crimine di cui si è macchiata (fu accusata e condannata per essere stata a conoscenza dell’aggressione della pattinatrice rivale colpita ad un ginocchio), della sua irriverente eccezionalità e della trasgressione continua da lei incarnata.
Tonya non è una fragile principessa, è una pattinatrice che conquista ogni cosa con sangue e sudore, con sforzo e determinazione
Tonya non è come le altre, è audace e furente sul ghiaccio e nella vita: usa il fucile, durante le gare indossa body e pellicce cucite a casa dalla madre, LaVona (Allison Janney), una terribile e crudele “aguzzina”, aggressivo sprone nella costruzione della carriera della figlia. Tonya non è una fragile principessa, è una pattinatrice che conquista ogni cosa con sangue e sudore, con sforzo e determinazione. Non rientra nei canoni e infatti viene maltrattata dalla società, dalla Federazione e anche da chi dovrebbe amarla: la madre e il marito. La violenza le è compagna perenne e nemica costante: compagna quando porta addosso i lividi – che nasconde sotto chili di trucco – del coniuge che non accetta il suo temperamento, le botte di colei che l’ha generata; nemica quando si fa corpo nella giuria, in ogni membro della Federazione che non la premia, o la premia poco, per ciò che vale ma la valuta per ciò che è. Grezza, scorretta, spesso disarmonica nei costumi, una maschera grottesca di poca eleganza e grazia che nasconde le sue lacrime; Tonya non è ciò che la giuria vuole vedere, non ricorda minimamente l’amabile e dolce fidanzatina d’America, non ha le caratteristiche per rappresentare la nazione durante le competizioni. Lei non cambia però, non sta a questo gioco e insulta, grida il suo dissenso senza paura di essere odiata ancor di più e incarna la protesta perpetua.
Mildred, Lady Bird, Tonya, attorniate da figure maschili meno coraggiose, decise e centrate, sono la rappresentazione di un’onda nuova, lo specchio di una femminilità multiforme e variopinta, di donne forti e tenaci che non subiscono ma agiscono, che cercano la propria voce e si prendono il loro posto nel mondo. Quest’anno cinematografico sarà ricordato come quello in cui donne grandi e speciali, di solito relegate ad essere dei tipi, si sono prese la scena e hanno avuto il sopravvento sugli uomini. Da questi film emerge una figura libera, indipendente, anticonformista negli abiti e nell’indole, mai impotente, mai ostaggio di persone e eventi, segno del cambiamento, della trasformazione di quell’immagine che per tanto tempo la comunità, l’industria, il cinema le ha cucito addosso. La sensazione è che Mildred, Lady Bird, Tonya vengano ripensate, riviste, riscritte, ricomposte proprio in virtù della differenza (con l’altro sesso e tra di loro) e del contesto in cui vivono, esercizio inusuale nella narrazione del femminile. Il cinema sente, riecheggia e rimodella la società, i suoi personaggi respirano, parlano e si muovono in essa. Per questo, pur senza un chiaro rapporto di causa-effetto tra il caso Weinstein e queste pellicole, è impossibile non leggerle proprio alla luce di quanto successo. Dopo questo terremoto tutto è cambiato di senso e di segno, si sono aperti varchi, spazi e discorsi, portando alla luce un nuovo soggetto eccentrico perché si allontana dal sistema, un soggetto femminista che abbandona la propria posizione perché è tante posizioni, che favorisce prospettive diverse perché è prospettiva diversa. Queste donne sono la rappresentazione di un importante primo passo: adesso la domanda più interessante da porre è quali saranno le Mildred, le Lady Bird, le Tonya del futuro, e quali saranno le loro storie.
Commenta