Dieci piccoli cinesi e dieci piccoli indiani
Il campeggio e lo stallo militare sino-indiano ai piedi dell'Himalaya
Domenica 5 maggio alcune dozzine di soldati dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese si sono ritirati dal conteso territorio di confine tra India e Cina che avevano occupato tre settimane prima, terminando così un incidente di confine e l'ennesimo confronto tra due tra gli eserciti più numerosi del mondo. Dal 15 aprile nel settore Daulat Beg Oldi nel Ladakh orientale, le desolate e inabitate pianure ai piedi dell'Himalaya hanno assistito al bizzarro spettacolo di due accampamenti, indiano e cinese, piantati a poche decine di metri di distanza che ostentavano striscioni, minacciosi e tristemente speculari, con su scritto in inglese “You have crossed the border, please go back”.
In questa zona i due colossi asiatici hanno una differente percezione del confine e questa discrepanza, che ha avuto origine nella guerra del 1962, ha portato negli anni a numerose scaramucce e a velleitari accordi non vincolanti su come gestire le strisce di terra contese, uno degli ultimi agreement a riguardo nel 1993 vietava la costruzione di infrastrutture o lo stanziamento di truppe nella striscia contesa. Tuttavia lo scorso aprile, come mostra bene la cartina pubblicata dal Telegraph di Calcutta, i cinesi hanno sostituito ai soliti pattugliamenti nella zona un accampamento di alcune dozzine di soldati: solo alcuni plotoni sufficienti a scatenare nei media indiani l'isterismo da invasione, con la conseguente dovuta installazione di tende dell'esercito indiano e un sostanziale stallo militare.
La crisi si è risolta quando, davanti all'intransigenza cinese, le autorità indiane hanno cominciato a sventolare un possibile annullamento sia della visita a Pechino di Salman Khurshid, ministro degli esteri indiano, sia della prima visita ufficiale all'estero, proprio a Nuova Delhi, del neo-premier cinese Li Keqiang (visite entrambe avvenute rispettivamente il 9 e il 20 maggio). La cosa ovviamente avrebbe portato notevole imbarazzo per la diplomazia cinese, non solo pregiudicando i floridi e sempre più stretti legami economici e commerciali con l'India, ma inficiando l'immagine della Cina come leader globale e soprattutto regionale.
Ma se quindi la diplomazia indiana si può “vantare” di essere riuscita a far rientrare la crisi senza che il problema si delocalizzasse e portasse ad una pericolosa escalation, resta da chiarire il significato di questa inutile provocazione da parte cinese. D'altronde non si occupa certo una superficie così vasta a 15.000 piedi di altezza campeggiando nel deserto con un pugno di uomini, con linee di rifornimento proibitive. E non a caso molti oppositori indiani hanno chiesto al governo di mostrare il pugno di ferro rifiutando il dialogo e vedendo cinesi e striscioni aspettare l'inverno ai piedi del Karakorum, 8.611 m. Invece l'appeasement indiano ha fatto il suo corso arrivando ad accordare ai cinesi il “mutuo ritiro delle truppe” che avevano “invaso” il confine.
Per il tipo di operazione, il coordinamento e la direzione, l'intelligence indiana, come riporta l'India Times, ha confermato che non si tratta di un colpo di testa di una fazione dell'esercito cinese dal sangue caldo, quindi da escludere una disconnessione civile-militare.
Una spiegazione potrebbe riguardare il valore strategico dell'area che è situata vicino al valico del Karakorum e all'importante autostrada G291 che collega il Tibet e lo Xinjiang con il resto della Cina, quindi l'incursione potrebbe essere stata una plateale riaffermazione degli interessi cinesi nell'area e della necessità di ottenere il riconoscimento di più territorio possibile, non a caso la penetrazione, vista dal lato indiano, è stata profonda 19 km. Un'altra motivazione dell'incursione apparsa sui media indiani, potrebbe essere il malcontento cinese per la riattivazione di una pista di atterraggio militare nella valle a circa 100 km dall'autostrada, e quindi in teoria abbondantemente entro il raggio d'azione, circa 700km, dei nuovi caccia indiani Sukhoi Su-30MKI. Inoltre da Pechino non hanno affatto gradito le recenti fortificazioni costruite lungo il “confine” indiano, significative se pensiamo che le linee di confine sono chiamate Line of Actual Control, ossia linee di controllo effettivo. Voci di corridoio dagli ambienti militari che hanno contrattato il ritiro, parlano di concessioni ai cinesi riguardo le infrastrutture lungo le LAC, tuttavia il ministro della difesa indiano A. K. Antony meno di una settimana dopo il ritiro, si è premurato di ribadire pubblicamente il diritto di entrambi gli stati di costruire infrastrutture sul “proprio territorio”.
Dare un senso alla tempistica dell'incursione è ancora più difficile. Come riporta Foreign Policy, le relazioni tra Cina e India erano (e sono) in una fase di crescita positiva. Mentre la Cina veniva da un anno particolarmente duro nei rapporti con gli stati vicini, da ricordare ad esempio il forte deterioramento dei rapporti con il Giappone, la complicata relazione con l'anacronistico alleato nord-coreano, le preoccupanti rivelazioni sulla capacità di Cyber-espionage dell'esercito cinese, o l'imbarazzante cartina della “magna” Cina sui nuovi passaporti che ha scandalizzato tutti gli stati (compresa l'India) che hanno dispute territoriali con Pechino. In una tale congiuntura e con il peso della pressione militare navale e strategica statunitense nel pacifico, “aggredire” l'India con provocatori campeggi di montagna sembrerebbe schizofrenico, senza contare che le programmate visite diplomatiche sono servite da pretesto perché la diplomazia indiana avesse una via agile ed elegante per smontare il caso, senza scontri tra boy scouts.
E rischiare di pregiudicare le relazioni con l'India avrebbe poco senso considerando anche il florido rapporto commerciale dove la Cina è già uno dei top partners indiani ed entrambi i paesi hanno concordato una soglia obiettivo per il 2015 di 100 miliardi di dollari per incrementare gli scambi bilaterali. Senza considerare cosa significhi per questi due paesi vicini coltivare una partnership avendo a disposizione entrambi l'ipotetico mercato combinato delle due nazioni, ossia il 40% della popolazione del pianeta. Non è un caso che la recente visita di Li Keqiang sia stata occasione, a margine, per la visita di uno stuolo di rappresentanze industriali cinesi. Bisogna sottolineare come in ogni caso, nessuno dei due paesi, anche nei momenti di tensione, abbia mai minacciato rappresaglie sul piano economico, un aspetto che mette al riparo i reciproci profitti dalle altre questioni di politica estera.
Valutare dunque questo provocatorio campeggio cinese rimane molto arduo, ancora una volta solo l'analisi dei prossimi sviluppi porterà luce sull'operato della politica estera cinese. Intanto sembrerebbe che la querelle montana con gli indiani abbia danneggiato l'immagine della Cina nei confronti degli altri attori regionali che di certo si aspettano un trattamento simile per le loro dispute territoriali con l'ex celeste impero. Tuttavia dal lato cinese, e qui lo sforzo dell'interprete di sporgersi oltre lo “stargate”, questo tipo di azioni militari dimostrative potrebbero essere paradossalmente invece un segnale di apertura a negoziati concreti, che producano risultati nel breve periodo, su questioni come l'integrità territoriale, che stanno particolarmente a cuore alle necessità strategiche e di propaganda del Partito Comunista Cinese. Lo stesso Xi Jinping ha posto la soluzione delle questioni di confine uno degli obiettivi primari e come risultato di questo confronto con l'India è stato nominato il primo New Special Representative for Boundary Talks, ossia l'ex ministro degli esteri cinese Yang Jiechi.
Semplicemente i cinesi puntano a guadagnare una posizione di forza prima di sedersi ai tavoli. E a quanto pare dei boy scouts con gli striscioni sono tanto minacciosi da essere presi sul serio, almeno secondo gli indiani.
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