Di letteratura e altre ossessioni: conversazioni con due grandi menti
Su Scuola di demoni, a cura di Carlo Mazza Galanti, e l'incontro con Michele Mari e Walter Siti a Torino
Scuola di demoni. Conversazioni con Michele Mari e Walter Siti (minimum fax, 2019), a cura del critico Carlo Mazza Galanti, mette uno accanto all’altro due dei più grandi scrittori italiani viventi: due poetiche all’apparenza diversissime, fantastica quella di Mari e realista quella di Siti, ma vicine nell’essenziale. Partendo da alcuni spunti scaturiti in sede di presentazione al Salone del libro di Torino, i nostri autori Marco Renzi e Angela Marino ci parlano di Scuola di demoni, approfondendo la poetica di entrambi gli autori nei suoi aspetti più interessanti.
Michele Mari: autopsie di fantastiche ossessioni
«Quando mi faccio un’iniezione di realtà, dopo necessito di almeno quattro iniezioni di letteratura», dichiara Michele Mari durante l’incontro con Walter Siti al Salone del libro di Torino, con la mediazione di Carlo Mazza Galanti. Per Mari, quella del Salone è una cornice insolita: legato all’idea che per l’autore dovrebbero parlare i suoi libri, rifiuta gli scrittori «simpatici» e promotori della propria immagine.
La frase sopracitata ben sintetizza una poetica in continuo dialogo con la tradizione e nemica di qualsiasi intrusione da parte della realtà, una poetica in cui il concetto di letteratura è legato a quello di fantastico; ma, come Mazza Galanti fa notare, nel caso di Mari l’etichetta di fantastico rischia di essere riduttiva, giacché nella sua opera il testo letterario va piuttosto inteso come una rimasticazione del reale capace di tramutarsi in un mondo a parte.
«La natura incorrotta per me esiste solo in termini mitico-leggendari, mi piace Il richiamo della foresta di Jack London proprio perché non sono mai stato nel Klondike, fossi là a ghiacciarmi le dita, a morire congelato, a tirare una slitta con trecento chili di roba per spaccare il ghiaccio senza trovare una pagliuzza d’oro allora no, sarebbe un delirio. Esattamente come mi ha sempre affascinato la letteratura marinaresca perché non ho mai fatto il mozzo: penso che fare il mozzo o il marinaio su una nave dell’epoca fosse una delle cose più infernali. […] Sono forme di evasione e insieme di esorcismo. Tra la realtà e la leggenda, sempre meglio la leggenda.»
Nell’intervista contenuta in Scuola di demoni, in parte già uscita su «il Tascabile» nel dicembre 2016, lo scrittore milanese ripercorre il suo pantheon letterario: Gadda, Landolfi, Manganelli, Celine, Gombrowicz, London, Melville, Steinbeck; ma anche Foscolo, Dante, Leopardi e molti altri. Un pantheon già noto ai conoscitori di Mari, specie a chi ha letto la splendida raccolta di saggi I demoni e la pasta sfoglia, dalla quale il presente volume riprende parte del titolo, in una crasi con Scuola di nudo di Siti.
Nelle sue risposte, l’autore rivendica l’uso di una lingua letteraria dai risvolti talvolta ludici, e il primato delle grandi narrazioni sulle neoavanguardie, impegnate a decretare la morte di un romanzo tutto sommato ancora in vita; sottolinea le contraddizioni del canone, portando come esempio la marginalità della Trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake (Tito di Gormenghast, Gormenghaste Via da Gormenghast), che secondo Mari «si mangia L’uomo senza qualità come un tramezzino».
Mari rievoca la giovinezza trascorsa a studiare nelle biblioteche, nobili luoghi di conoscenza e nel contempo mortiferi, dove oggi non riesce più a entrare a causa degli spettri del passato che le popolano: la testimonianza di una rigida auto-imposizione, la carriera accademica qui non troppo rivendicata, le privazioni trasformatesi nelle ossessioni dell’immenso scrittore che oggi leggiamo. Uno scrittore col capo chino sia sulle pagine dei classici sia su quelle degli horror e dei romanzi fantascientifici, non sottoposti al veto dell’intransigente padre, il designer Enzo Mari, e dunque non percepiti come generi para-letterari; anzi: Dracula, Frankenstein, la mummia, le bestie e i mostri sono sin dall’infanzia i più stretti compagni di Mari, come più tardi lo saranno i film di Freda, Bava e Fulci.
«Invidio molto i musicisti, non i cantanti ma i musicisti puri, che hanno a che fare solo con valori formali. Per loro comporre è algebra, nessuno gli rompe le palle sulle cose che hanno a che fare con la letteratura. Lì è tutto puro perché è solo forma, è solo segno. Siamo noi poveri scrittori che dobbiamo avere a che fare con il lavoro, la cassa integrazione, la migrazione, la povertà, l’effetto serra, Trump.»
Se ne sbatte, Mari, del dibattito pubblico: la letteratura deve rifuggire la vocazione civile e il chiacchiericcio dell’attualità; non può scivolare nel giornalismo. Del resto, sono stati gli scrittori colti da furori misantropi, contemplatori del proprio ombelico, a descrivere il mondo e a restituirlo con prepotenza nei loro libri.
La letteratura deve rifuggire la vocazione civile e il chiacchiericcio dell’attualità
Mari prosegue dritto per la sua strada; da Di bestia in bestia in poi scrive sempre lo stesso libro («diciotto varianti, più che diciotto libri»): un atteggiamento più politico di quanto possa sembrare, simile a quello del monaco che difende la letteratura dai barbari o del partigiano – figura al quale è legato e sul quale ha un’idea molto chiara – rifugiatosi in collina e pronto ad attaccare il nemico per proteggere a ogni costo la vera letteratura.
A un certo punto dell’incontro torinese, Mari afferma che non sta scrivendo niente in questo periodo; poi corregge il tiro: «Non sto lavorando a un romanzo», specifica. Sicché, a prescindere dalla loro forma, è lecito continuare ad aspettarsi grosse sorprese da uno dei migliori autori in lingua italiana del nostro tempo.
Marco Renzi
Walter Siti: Tu, sanguinosa realtà
«Io reagisco linguisticamente con un registro alto solo se lo friziono in modo molto violento con un registro volgare; mi dà energia»: così afferma Walter Siti seduto accanto a Michele Mari. Parlando di affondi linguistici volgari, Siti non fa riferimento all’uso del dialetto spesso rintracciabile nei suoi romanzi, bensì alla necessità di attingere a piene mani dall’informe palinsesto mediatico contemporaneo, fautore di un modello comportamentale e comunicativo ormai del tutto anti-culturale: lo stesso da cui Siti è attratto, e con cui entra volutamente in conflitto.
I programmi spazzatura provenienti dal mondo pop con i tronisti, ad esempio, o quelli con Barbara D’Urso, il Grande Fratello: Siti li tratta tutti come materiale «ruspante» da setacciare – così come facevano i cercatori d’oro con la sabbia – nel tentativo di filtrare, in mezzo all’arida ineffabilità del niente, il vivo senso animalesco dell’umano, quei pezzetti di realtà che trapassano lo spettacolo: la «bestia uomo» strappata dall’incosciente mercificazione compiuta dai media. In Scuola di demoni Mazza Galanti e Siti affrontano, tra gli altri, questo complesso argomento, da cui si evince che c’è una certa contiguità tra il binomio «narcisismo & post-verità» propria della nostra società e la scrittura di Siti (in particolare Troppi Paradisi), anche se con fini diversi.
«Da un certo punto di vista era come se pantografassi me stesso come la televisione pantografava i personaggi del Grande Fratello. L’unico appiglio che ho trovato per garantirmi che non stavo facendo una cattiva azione era pensare che mentre i media agiscono in un modo totalmente incosciente o addirittura peloso, cioè approfittando dell'appeal che questa esaltazione dell'io esercita per fare soldi, io lo stavo facendo in modo autocritico. Come se in qualche misura svelassi il gioco facendo vedere quali sono i meccanismi attraverso cui funziona.»
Mentre i reality fanno leva sul meccanismo del «vero-ma-non-proprio», Siti nei suoi romanzi di autofiction– nello specifico Scuola di Nudo (1994), Un dolore normale (1999) e Troppi Paradisi (2006) – mette in campo un Io che non ha alcun intento narcisistico di autoesaltazione, anzi: lo scopo è quello di mostrare gli autoinganni di una coscienza immersa in un flusso continuo di verità e menzogne impossibile da interpretare con chiarezza a causa dell’alto tasso di ambiguità che permea la scrittura. L’ambiguità è il perno centrale della poetica dell’autore, strumento necessario per interpretare la vita odierna «come spettacolo di se stessa», divenuta «esattamente l’oggetto del realismo contemporaneo, che è piuttosto, proprio per questo, un iperrealismo: rappresenta la rappresentazione».
I programmi spazzatura provenienti dal mondo pop con i tronisti, ad esempio, o quelli con Barbara D’Urso, il Grande Fratello: Siti li tratta tutti come materiale «ruspante» da setacciare
Secondo Siti, nel tramutare la vita come spettacolo di se stessa la tecnologia gioca un ruolo fondamentale, soprattutto per via della sua natura contraddittoria: da un lato c’è il potere immenso che i nuovi mezzi ci concedono nel manipolare le informazioni; dall’altro, incarnando desideri primitivi, questi ci spingono alla regressione: «credulità, ossessioni, miti, magia: il selfie come spossessamento, come adesione a un profilo,egli e non io, questa è forse l’unica epica contemporanea». I social network frammentano l’Io in tanti pezzi di individualità pronti all’uso, una specie di kit prêt-à-porter aggiornabile ogni qual volta se ne senta l’esigenza; e questo, per un autore che con il suo lavoro ha indagato l’Io nella sua totalità, universalità e interezza, è qualcosa che non si può accettare, tantomeno tollerare.
Mentre l’inconscio collettivo contemporaneo sbanda e barcolla sotto il peso della sua stessa imprudenza, dei suoi idoli e delle sue figure mitologiche, sorge spontaneo chiedersi perché la letteratura ci serve. Il ruolo di Siti scrittore è abbastanza chiaro: la tensione politica, critica e poetica presente nei suoi romanzi testimonia la volontà di propugnare il ruolo attivo di una letteratura che, attraverso forma, spessore e ambiguità, possa svelare l’ignoto e aiutare scrittore e lettore ad avere più consapevolezza nei confronti degli individui e della società; in una parola: della realtà. Perché chi scrive, al pari dell’intellettuale, deve essere «lo speleologo delle intenzioni peggiori», abbracciando il Male inteso come parte più abbietta e oscura di noi stessi, al fine di chiarire un po’ le cose soprattutto per chi è privo degli strumenti per farcela da solo. Da qui, la necessità di autori come Walter Siti, il cui lavoro è significativo proprio perché, rubacchiando materiale dalla realtà che lo circonda, non fa altro che parlare di noi.
Angela Marino
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